6. Fuga
Era una mattina particolarmente fredda e scura, il sole faticava ancora a sorgere dietro i tetti ammassati delle case a schiera dall'altra parte della strada.
Io, fuori dalla finestra di camera mia, raggomitolata in una coperta pesante, osservavo pigramente il cielo farsi sempre più chiaro con i minuti che passavano.
Era domenica, e non riuscendo a dormire avevo appena passato la notte a guardare il cielo e le case, poi le vie, avevo ascoltato l'acqua del canale che attraversava la schiera di case dividendola a metà e avevo osservato i primi passanti che anche in quella mattina così soporifera erano costretti a recarsi a lavoro, il tutto con la sola compagnia di Nosferatu e i miei pensieri.
Stava finendo la mia seconda settimana di permanenza a Winchester, che per alcuni versi era stata gradevole e per altri insopportabile.
Tra me e Juno era nata una sorta di strana amicizia, basata soprattutto sui suoi disperati tentativi di farmi socializzare e di spronarmi ad essere più aperta, ovviamente tutti miseramente falliti.
Infatti, escludendo lei e Jimi, non avevo legato con nessuno della mia classe.
Ogni tanto, magari non tutti i giorni, qualcuno mi rivolgeva la parola, ma era soprattutto per formalità. Quello non era legare, ma piuttosto una forma di pietà e costrizione che dava ancora più fastidio di essere ignorati.
Juno, invece, era diversa.
Mi parlava non perché non avesse nessuno, anzi, in molti la conoscevano e la cercavano, ma avrei osato dire che le stessi simpatica e questo aveva fatto sì che anch'io, per la prima volta dopo tanto tempo, sentissi la libertà di fidarmi di qualcuno.
Ma le note positive non arrivavano mai da sole.
Ero ancora perseguitata dagli incubi, che si presentavano quasi ogni notte, tanto da rendere la situazione insostenibile.
Mio fratello aveva capito tutto sin dalla prima notte, forse perché aveva la camera di fianco alla mia o forse perché mi conosceva fin troppo bene. Mi aveva promesso che non avrebbe detto nulla a nostra madre. Entrambi sapevamo però che né lei né nostro padre fossero stupidi e che a breve anche loro si sarebbero resi conto della situazione.
Infatti, quella mattina fu la goccia che fece traboccare il vaso, ciò che mi spinse a prendere una decisione che mai avrei pensato nemmeno di ritenere una considerazione.
Mio fratello in quel momento entrò in camera mia e, stringendosi tra le sue braccia, mi raggiunse in terrazza, portandosi dietro una tazza fumante.
Io ero appoggiata alla ringhiera e non dissi una sola parola mentre lui spostava la folta coda del gatto per farsi spazio e sedersi poco distante da me. Mi porse la tazza di tè e allora io ringraziai con un sorriso.
«Come mai sveglio? Anche se, in effetti, tu puoi dormire ogni mattina». Avvicinai la tazza al viso e godetti beata quando il vapore caldo mi avvolse. Ormai non mi sentivo nemmeno un po' il naso, che immaginai dovesse essere rosso come un pomodoro.
Lui era serio in volto, non che fosse una novità, ma lo era più del solito.
«Sono preoccupato» ammise, spostandosi dietro l'orecchio una lunga ciocca corvina e scoprendo così i suoi occhi scuri e tristi.
«Per una notte che non dormo, non è così grave...»
«Non intendevo quello» mi interruppe a metà frase. Allora la sua preoccupazione contagiò anche me. Lo osservai con leggera insistenza, aspettando che continuasse la frase e durante quella lunga pausa di silenzio l'ansia era salita ad un livello assurdo.
«Ieri sera ho sentito nostra madre parlare al telefono». Si decise finalmente ad aprire bocca, ma quasi sicuramente avrei preferito che non l'avesse mai fatto. «Dava del lei ad un certo Dottor Collins e ti ha nominata un paio di volte. Poi ha cominciato a nominare il Valium».
No. Pensai, sentendo i miei muscoli irrigidirsi. Non ancora.
Solo sentendo quel nome maledetto, il sangue dentro le mie vene si gelò, cominciai a tremare ed ero sicura che l'aria gelida di novembre non centrasse assolutamente nulla.
Non riuscivo a parlare, troppe parole e domande nascevano nella mia testa, ma morivano in gola prima che potessi dare loro voce.
Troppe cose mi si accumularono tra la laringe e la lingua e dopo essermi bagnata le labbra con un po' di saliva densa e secca, buttai giù tutto con un sorso di tè rovente, che uccise in un secondo tutte le incertezze.
«Ha accettato?» La mia voce tremava, ma non avrei pianto.
«Mi ha chiesto di stare a casa venerdì, per controllare Jennifer. Ha detto che ha delle commissioni da fare».
La prescrizione medica, ovvio. Allora l'ansia tornò di colpo e il mio cuore cominciò a battere all'impazzata.
Volsi il viso verso il canale e chiusi gli occhi, appoggiando la testa sulla fredda ringhiera in metallo.
Io ero sempre stata contraria al trasloco, sin dai primi vaghi accenni che mio padre aveva fatto mesi prima. Sapevo che non avrebbe portato a nulla di buono, ma nessuno mi aveva dato ascolto, ancora una volta avrei dovuto risolvere la situazione contando sulle mie sole forze.
Non potevo buttare via anni di sforzi per non prendere quella merda solo perché un trasferimento mi aveva un po' lasciata sottosopra. Non potevo, ma soprattutto non volevo. Non volevo in alcun modo che l'avessero vinta i dottori, che sapevano solo dire di imbottire la figlia di farmaci, tanto qualcosa sarebbe dovuto succedere, un qualche effetto avrebbero dovuto dare.
Ma non più. Non adesso, che avevo la possibilità di iniziare di nuovo. Non avrei più permesso di rovinarmi ulteriormente la vita.
«Immagino che tu sappia cosa ti consiglio di fare in questo momento». Le parole di mio fratello anticiparono solo la mia voce, perché i miei pensieri avevano già elaborato tutto.
«Sì, ho capito».
Due giorni dopo ero di nuovo in classe, iniziava la mia terza settimana di permanenza a Winchester, che non sapevo ancora sarebbe stata una delle più significative della mia vita.
Seduta dietro al mio banco, cominciavo seriamente a sentire la stanchezza della notte in bianco passata da poco.
Anche l'ultima nottata era stata difficile, mi ero addormentata un paio di volte per pochi minuti, poi puntualmente l'agitazione e la paura mi avevano scossa al punto di riportarmi bruscamente al mondo reale. Per questo motivo mi ritrovavo senza forze.
Mi appoggiai al banco con i gomiti, tenendo la testa tra le mani e lasciando che i capelli scuri mi cadessero davanti e mi coprissero il viso.
Quando Juno era con me non ero vittima di sguardi scomodi e indiscreti, al contrario in quel momento ero l'oggetto dell'attenzione di parecchie persone nella classe e questo perché Juno non aveva ancora accennato a varcare la soglia dell'aula.
Ero stanca, irritabile e in soggezione. Proprio quando più necessitavo della compagnia di Juno lei non c'era.
Quando la professoressa Barnes prese posto dietro la cattedra gettai definitivamente la spugna.
Per quel poco che la conoscevo, ero certa che Juno non avesse avuto intenzione di entrare in classe fino alla seconda ora.
Il lunedì precedente ero stata nella stessa situazione, ma non mi era sembrata così grave come in quel momento. Ero convinta che il mondo mi sarebbe potuto crollare addosso in qualsiasi momento e l'attenzione dei miei compagni di classe riversata esageratamente sulla mia schiena ricurva in avanti e sui miei capelli che fungevano da tenda non aiutavano affatto.
Non avevo idea di cosa volessero da me.
Che volessero giudicarmi per chissà cosa, semplicemente osservarmi o provare a rivolgermi la parola, non ero assolutamente in vena di compiere qualsiasi altro gesto che non fosse stato quello di guardare con maniacale ossessione il banco e nient'altro.
Finché la situazione a casa non si fosse risolta, il mio umore sarebbe solo peggiorato.
La prima ora passò come una lenta agonia, non avevo recepito una sola parola che era uscita dalla bocca della prof. Quando la campanella suonò mi sentii solo liberata da un grosso macigno fermo sullo stomaco.
Fui terribilmente sollevata nel vedere Juno comparire automaticamente all'uscio della porta della classe e che, ignorando apertamente lo sguardo nervoso della prof, si fiondò subito nel banco vuoto accanto a me.
«Scusa se ti ho lasciata da sola, ma sai che quella non la digerisco». Lasciò cadere lo zaino vicino alla sedia e si sistemò comoda su quest'ultima. Inevitabilmente, non appena incrociò il suo sguardo con il mio, impallidì brutalmente. «Cazzo, hai delle occhiaie veramente spaventose... ma tu dormi mai nella tua vita?»
«Ogni tanto capita anche a me». La buttai sul ridere accennando a un sorriso, ma dentro di me, nonostante fosse più che evidente che sarebbe successo, il fatto che anche Juno se ne fosse accorta mi pesava parecchio.
Lei continuò a borbottare, tastando i miei solchi scuri sotto gli occhi e scuotendo la testa.
«Ho io il rimedio per te» concluse, cominciando a frugare nel suo zaino. «In realtà la mia pelle è molto più scura della tua, ma il fondotinta che uso ultimamente è abbastanza chiaro, quindi non dovrebbero esserci problemi».
La osservai con il fiato sospeso perlustrare ogni centimetro del suo disordinato zaino, aspettando che finalmente alzasse lo sguardo, così da poterle fare quella tanto temuta richiesta, ma più i secondi passavano e più ero convinta che quel fondotinta si fosse perso nei più oscuri e isolati meandri del pianeta.
«Ma possibile che io l'abbia dimenticato?» Cominciò ad innervosirsi Juno, mescolando poi molto selvaggiamente il contenuto scuotendo lo zaino. «Secondo me me l'ha fregato Anna questa mattina».
Lei teneva lo sguardo incollato verso il basso e io restavo con il fiato sospeso a osservarla.
Non ce la facevo più, ancora qualche minuto e la tensione mi avrebbe fatta esplodere.
Dovevo chiederglielo.
«Hey, Juno...»
La mia voce era uscita come un flebile soffio di vento, assolutamente patetica e fastidiosa, eppure Juno mi sentì e si fermò un momento per prestarmi attenzione.
Presi un grosso respiro, poi mi decisi ad aprire bocca. Lo facevo per il mio bene.
«Credi sarebbe stupido se venissi a dormire nel dormitorio?» Cominciai, brutalmente diretta. «Insomma, so che casa mia é relativamente vicina, ma sarebbe piuttosto comodo essere proprio di fianco alla scuola... per i trasporti, le relazioni sociali, un po' di tutto...» Davanti alla sua espressione sorpresa, non potei fare altro che cominciare a blaterare giustificazioni a raffica e con i secondi che passavano la convinzione di aver fatto uno sbaglio aumentava vertiginosamente.
Lei continuava a puntare i suoi occhi color miele nei miei, il suo volto sembrava sconvolto e allo stesso tempo entusiasta, io non sapevo più cosa dire e tra di noi calò un silenzio pesante.
Forse ero stata troppo frettolosa a chiederglielo. Dopotutto, la conoscevo da appena due settimane, non mi permettevo nemmeno di considerare la nostra un' "amicizia".
Lei però stravolse tutti i miei pensieri, mollò a terra lo zaino e buttò le sue braccia intorno al mio collo, stringendomi in un abbraccio del tutto inaspettato.
«Era ora che ti decidessi, te l'avrò chiesto non so quante volte». Mi sciolse dall'abbraccio e prima che potessi risponderle mi afferrò le guance con l'indice e il pollice, impedendomi di parlare. «E poi se chiami stupida quest'idea mi offendi, visto che sono stata la prima ad averla» aggiunse, rimproverandomi e fulminandomi con lo sguardo.
«Scusa» riuscii appena a bofonchiare, ridotta com'ero.
«Però ti perdono». Mi liberò dalla sua presa, dandosi una calmata. «Come mai questa decisione repentina? Ogni volta che te lo chiedevo balbettavi, tiravi fuori ogni genere di scusa e alla fine ti deprimevi puntualmente».
«Mi hai convinto a cercare di avere relazioni sociali» mentii spudoratamente, mascherando il tutto con un sorriso. «In classe non parlo ancora con nessuno, esclusa te».
Ma non era di certo quella dei miei compagni la parte che si tirava più indietro.
Sapevo di essere io il problema, ma non volevo ammetterlo davanti a lei.
«La classe... è meglio lasciarla stare, per ora. Non che siano delle brutte persone per principio, ma tra di loro girano voci inventate sul tuo atteggiamento riservato... e su di lui». Le pupille di Juno saettarono sul mio occhio sinistro, che di riflesso abbassai, puntando lo sguardo sul pavimento.
Immaginavo che voci potessero girare sul mio conto, ero abituata a sentirmi rivolgere domande assurde sulle mie abitudini.
Juno sapeva solo che era una malformazione che mi portavo dietro dalla nascita e speravo tanto che credesse alla mia versione e non a quella altrui, anche se entrambe erano maledettamente false.
«Però non deprimerti». La voce di Juno era fresca, ristoratrice. «Partirò facendoti conoscere una delle mie vicine di stanza, Annabelle. Ha la mentalità molto aperta, devi stare tranquilla». Mi rivolse un sorriso sincero, straordinariamente allegro. Mi sembrava così assurdo che potesse gioire per la mia presenza. «Non vedo l'ora che tu venga a stare da noi».
Il suo sorriso mi contagiò e sul mio volto, prima segnato dall'amarezza e dalla paura, ne comparve uno di rimando.
«Anch'io».
La notizia della mia decisione venne accolta con particolare entusiasmo dai miei genitori, che quella sera, per la prima volta dal trasferimento, sostituirono le critiche e i consigli con dritte e incoraggiamenti, che purtroppo ebbero come unico risultato il ricordarmi che razza di gesto avessi appena compiuto.
Solo quando mi chiusi in camera mia, poco prima di andare a letto, mi lasciai prendere dall'angoscia.
Seduta sul letto, guardavo la valigia appena finita di svuotare, lasciata in un angolo della stanza, immaginandomela di nuovo piena delle mie cose e pronta per essere spedita lontano da casa.
Poi guardavo lo specchio e il mio riflesso curvo e cupo mi rimproverava per la mia avventatezza.
Ma che altro avrei potuto fare? Domandavo a me stessa, guardandomi negli occhi.
Non avevo avuto altra scelta. Mia madre, in meno di una settimana, mi avrebbe nuovamente rinchiusa nei miei pensieri con l'aiuto di due pillole e un sorso d'acqua e la mia vita sarebbe finita lì. Di nuovo.
Dovevo solo scappare, rifugiarmi in una realtà che loro ritenevano sotto il loro controllo. Guarire la mia malattia da sola.
Nosferatu strofinò il suo musetto sul mio braccio, aiutandomi ad uscire da quel vortice di emozioni che mi stava velocemente risucchiando.
Mi sdraiai a pancia in su sul materasso, lasciando che il mio gatto si accomodasse sul mio torace per dormire.
Le sue fusa mi tennero sveglia gran parte della notte, che passai a coccolare Nosferatu accarezzandolo dalla punta nel naso fino a quella della coda, mentre le poche ore che mi separavano dal mattino riuscii, per una volta tanto, a usarle per dormire sonni tranquilli.
I miei genitori non mi lasciarono il tempo per permettermi di cambiare idea. Il mattino dopo, entrambi si presentarono a scuola per firmare le carte e per svolgere le ultime formalità, così che due giorni dopo, alle sei del pomeriggio, poterono caricare le mie valige in macchina.
Avevo deciso di non portare con me troppe cose. Alloggiavo comunque relativamente vicina a casa e sarei passata il più possibile a trovare i miei durante il pomeriggio e nei fine settimana.
Salutai mia madre e i miei fratelli, poi salii in macchina, aspettando l'arrivo di mio padre.
«Sei sicura di volertelo portare dietro? Anche se ti permettono di tenerlo, ha bisogno delle sue solite cure». Mio padre comparve accanto alla mia portiera aperta, cercando ancora una volta di convincermi a mollare l'osso.
«Sono sicura. Oltre mangiare e dormire, non pretende altro».
Lui sospirò, finalmente si arrese e appoggiò il trasportino di Nosferatu sulle mie gambe. All'interno il gatto si rigirava irrequieto, controllando la situazione esterna attraverso i fori con due grandi pupille scure a palla.
«Hai traumatizzato quel gatto» brontolò mio padre, chiudendo la portiera dell'auto.
«Era già così» ribattei in mia difesa, ma lui stava già facendo il giro del parabrezza per prendere poi posto accanto a me.
«Hai detto qualcosa?»
«No, nulla».
Mio padre mise in moto la macchina e partì, infilandosi sempre di più nelle strade trafficate e affollate di Winchester.
«La tua amica ti aspetta fuori, giusto?» Riprese il discorso mio padre poco dopo, tenendo sempre lo sguardo puntato sulla via. «Come hai detto che si chiama? Ju... Judy?»
«Juno. Sì, mi aspetta all'entrata del campus... è poco più in su della scuola, dietro a un boschetto».
L'idea di essere circondata dalla natura era forse l'unica cosa che mi entusiasmava di quella nuova esperienza.
Camminare nei boschi era uno dei miei passatempi preferiti, specialmente quando andavo a trovare i miei zii in campagna. Era tutto ciò che potevo desiderare: sfogarmi, stare lontana dai farmaci, isolata dalla civiltà e sommersa dal verde, con il profumo di muschio e resina che mi penetrava le narici.
Adoravo le foreste di conifere, le trovavo affascinanti e misteriose, ma di notte erano assolutamente vietate.
Con il buio tutto si trasformava e anche il mio hobby più amato diventava il peggiore dei miei incubi.
Appoggiai la testa alla cintura di sicurezza, fantasticando sulle mie future passeggiate.
Avevo trovato una sola altra cosa così misteriosa, tetra e affascinante allo stesso tempo ed era il ragazzo che avevo sognato il primo giorno di scuola.
Mi ero augurata di non incontrarlo più e ciò che avevo sperato era effettivamente successo. Dal secondo giorno di scuola in avanti, di quel ragazzo non avevo visto nemmeno l'ombra e questo mi aveva portata ad uno strano conflitto interiore che non ero riuscita a spiegarmi, lo stesso che in quel momento si fece vivo nella mia mente.
Era successo di nuovo, avevo pensato ancora una volta a quel ragazzo, anche dopo essermi ripromessa di non accumulare ulteriori preoccupazioni.
Cacciai via la sua immagine dai miei pensieri, giusto in tempo per notare da lontano l'entrata del campus.
Come promesso, Juno era appollaiata sul muretto in pietra che delimitava l'area, appena accanto all'entrata. Non appena mi vide saltò giù e mi venne incontro.
Era raggomitolata in quello che sembrava essere il pigiama più colorato che avessi mai visto, fatto in pile e rappresentante le più variopinte galassie, con tanto di pianeti, astri e alieni.
I pensieri di mio padre gli si leggevano in volto. Espressioni come 'strana' e 'particolare' sembravano uscirgli direttamente dalle labbra schiuse e le sopracciglia corrugate ne davano l'effettiva prova.
Non avevo mai descritto Juno oltre al suo carattere, dovevo dire che l'aspetto aveva suscitato l'effetto immaginato, anche se ero convinta che rispecchiasse ciò che era.
Mio padre si fermò nel piccolo parcheggio adiacente alla struttura, tenendo gli occhi puntati sulla strana ragazza che intanto era riuscita a raggiungere l'auto.
Juno braccò mio padre non appena questo mise piede fuori dall'auto e gli porse la mano con una formalità che non le si addiceva affatto. «Piacere, Juno Lyra Davies, probabilmente Karin vi ha già parlato di me».
Lui ricambiò la stretta di mano, esaminando da cima a fondo la coda di cavallo alta e disordinata di Juno. «Non abbastanza» rispose, soffermando lo sguardo sugli stivali gialli da pioggia che lei aveva ai piedi.
«Ha avuto troppo poco tempo, la perdono» lo liquidò, per poi fiondarsi sul bagagliaio che nel frattempo avevo aperto.
Contemplò le due singole valigie, meravigliandosi visibilmente dell'inaspettata contenuta mole di bagagli e le afferrò entrambe senza fare troppi complimenti.
«E io che avevo pensato di chiamare Jimi per darci una mano. Qui riesco a fare tutto anche da sola» continuò a parlare a ruota libera, trascinando le valigie sul ghiaino bianco. «Io ti precedo in stanza, tanto sai qual'è il numero della casetta. Così hai il tempo di salutare tuo padre».
La ringraziai per la sua gentilezza e la lasciai procedere verso l'entrata con le mie valigie.
Mio padre mi affiancò, tenendo sotto controllo con la coda dell'occhio la figura di Juno che si allontanava spedita, trascinandosi dietro i due piccoli trolley.
«Me l'ero immaginata più...» provò a commentare, non trovando però le giuste parole e fermando la frase a metà.
«Tranquilla?»
«Adatta a te» mi corresse. Mi strinse in un abbraccio soffocante, in cui io però mi ritrovai estremamente a mio agio e protetta. «Ma sono contento che ti abbia coinvolta così tanto. È riuscita a convincerti a trasferirti qui in due sole settimane, mentre noi ci proviamo da anni».
Fui sollevata del fatto che mio padre fosse così alto, perché in quell'abbraccio il mio viso affondava nel suo petto e riuscivo a nascondere i miei occhi umidi.
Non era stata Juno a convincermi, ma non mi importava.
Per una volta avevo reso mio padre felice, gli stavo dando la speranza che potessi finalmente avere una vita normale, anche se questo comportava allontanarmi dalla mia famiglia come mai avevo fatto prima d'ora.
Mio padre mi strinse ancora più forte. «Ricordati che ti vorrò per sempre bene, qualsiasi cosa accada. Rimarrai sempre la mia bambina». Pronunciò quelle frasi talmente strane che suscitarono in me una risata divertita.
«Guarda che non è mica un addio, verrò a casa ogni fine settimana» Allentai la presa intorno al torso di mio padre e lo guardai in faccia, immaginandomelo sorridente, ma la sua espressione era totalmente seria.
«Sì, lo so». Mi stampò un bacio sulla fronte, poi mi liberò dall'abbraccio.
Recuperò il trasportino, Nosferatu all'interno era tutto tranne che calmo e me lo consegnò.
«Mi raccomando, stai attenta... e chiamaci, soprattutto se hai i soliti problemi».
Era proprio ciò che mi auguravo di non avere.
Mio padre mi salutò con un ultimo abbraccio, poi salì in auto e partì.
Juno era rimasta ad aspettarmi all'entrata, nonostante avesse detto che mi avrebbe preceduta in stanza e appena la macchina sparì dal viale mi fece cenno di raggiungerla.
Mi sistemai tra le braccia il trasportino, troppo pesante per trasportare un singolo gatto, poi mi diressi verso Juno, con la paura che mi offuscava la mente e il cuore che martellava nel petto.
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