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5. Non ancora

Il paesaggio scorreva inesorabilmente davanti ai miei occhi, che attraverso il vetro vedevano tutto ma non osservavano niente.

L'autobus era così pieno da poter scoppiare da un momento all'altro, tuttavia ero riuscita a ritagliarmi, in tutto quel trambusto, un posticino in cui poter pensare in pace.

Nonostante il vociferare all'interno di quel mezzo fosse quasi praticamente insopportabile, la mia mente non veniva minimamente sfiorata dal disturbante rumore, che mi passava accanto e rimbalzava indietro, come se una bolla insonorizzata mi stesse circondando la testa.

Sebbene io fossi ormai quasi arrivata a casa la mia mente era rimasta parecchi chilometri distante, in quel corridoio tra l'aula di musica e la biblioteca, confusa e offuscata.

Ancora mi rifiutavo di ammettere a me stessa che l'incontro con quel ragazzo nella biblioteca fosse stato tutto un sogno.

Le sensazioni, l'ambiente, la situazione... per quanto potessero essere assurdi, al contempo mi risultavano così assurdamente reali, era impossibile che la mia mente avesse elaborato tutto ciò da sola.

Eppure, nonostante i ricordi fossero vividi, Juno era riuscita a confutare tutto. La conferma definitiva ero stata io stessa a darmela.

Lei era stata pochi minuti dentro l'auditorium, poi era dovuta uscire per recuperare un cerotto in infermeria, dato che il suo ragazzo si era tagliato cambiando una corda. Io ero già lì, accovacciata accanto alla porta, con la testa appoggiata sul vaso della pianta di acanto, gli occhi chiusi e il respiro pesante.

Non ero andata proprio da nessuna parte.

Ero sempre rimasta lì, accanto all'aula di musica, non mi ero mai mossa.

Nonostante ciò i conti non mi tornavano ancora. Finite le lezioni, prima di scendere verso la fermata, con una scusa ero riuscita ad intrufolarmi da sola nella biblioteca e avevo potuto constatare che ciò che avevo vissuto era stato frutto della mia fantasia.

La bibliotecaria era una donna di mezza età, non un anziano perso nel suo mondo di libri. Le grandi finestre che occupavano la parete che andava sul bosco lasciavano entrare tanta di quella luce che la penombra dei miei ricordi risultava inspiegabile.

Ma soprattutto, dentro lo stanzino nascosto da uno scaffale di libri c'erano soltanto pile e pile di scatoloni impolverati pieni di libri vecchi e distrutti.

Nessun pianoforte.

Nessuno sgabello pericolante.

Nessuna melodia e in particolar modo nessun Edward Marshall.

Tutto ciò mi faceva inevitabilmente pensare che la stanchezza mi avesse giocato un bruttissimo scherzo. Non mi ricordavo di essermi addormentata, ma poteva essere successo quando mi ero seduta accanto alla stanza ad aspettare Juno.

Tuttavia molte cose non mi risultavano ancora chiare, a partire dal fatto che io non potevo sapere che, procedendo lungo il corridoio, avrei trovato la biblioteca. Non sapendo nemmeno dell'esistenza di quella stanza, come avrei potuto conoscere la struttura al suo interno, che era identica a quella vista nel sogno?

Inoltre, lo sgabuzzino nascosto dallo scaffale probabilmente era sconosciuto perfino alla stessa bibliotecaria, eppure io l'avevo trovato seguendo lo stesso tratto che avevo già percorso.

Stava succedendo qualcosa di sbagliato, era fin troppo chiaro.

Ponendo delle spiegazioni circa plausibili sulla mia conoscenza dell'edificio scolastico, come averlo distrattamente visto nel sito della scuola, e della melodia Spring Waltz, che era quasi sicuramente riaffiorata dai miei ricordi di quando praticavo pianoforte, perché mai quel nome?

Perché il ragazzo aveva detto di chiamarsi Edward?

Averlo sognato era un gesto spiegabile, dopotutto con le sue azioni aveva stravolto gran parte della mia mattinata, ma per quanto mi sforzassi non riuscivo proprio a identificare qualcuno che si chiamasse Edward e che avesse potuto influenzare il mio sonno.

Un parente, un conoscente, qualcuno di famoso.

Perché Edward?

Mi grattai distrattamente la nuca, nel disperato tentativo di riordinare le idee.

Eppure durante il sogno mi ero mossa in totale autonomia, non come una marionetta in mano al dominio dell'inconscio.

Stavo facendo fatica a distinguere i sogni dalla realtà. Tutto ciò mi creava ansia e disagio, questo perché non potevo avere il controllo delle mie azioni.

Un brivido mi percorse la spina dorsale. Non dovevo ricadere nel baratro degli incubi, dovevo evitare in tutti i modi di soccombere a loro, ma per quanto potessi auto convincermi da silente, non appena i miei occhi si chiudevano e il mio conscio veniva offuscato dal sonno, la mia mente vagava inesorabilmente tra le mie peggiori paure, come aveva sempre fatto e come sempre avrebbe fatto.

Lasciai che il mio collo trovasse aiuto nel sostegno della testa, così piena di pensieri da farmi male, appoggiandola sul finestrino e producendo un piccolo e secco toc.

Le uniche cose che sapevo di per certo essere accadute realmente erano l'aver conosciuto Juno e il suo fidanzato, Jimi.

Era un ragazzo gentile e affabile, dai corti capelli castani e dagli occhi nocciola. Sembrava il tipo a cui piace impegnarsi in tutto quello che faceva, la sua dedizione per la musica e per il basket lo rendeva affascinante e ammirabile.

Juno non aveva smesso un secondo di raccontarmi della loro relazione, nemmeno quando la campanella aveva segnato l'inizio delle lezioni pomeridiane. In quei pochi minuti avevo potuto notare l'intesa quasi preoccupante che c'era tra loro, senza che Jimi potesse chiedere qualcosa Juno l'aveva già fatta e viceversa. Inoltre lui sembrava abituato all'esuberanza della sua ragazza e aveva un rapporto tenero con lei, tanto che a ripensarli in quel momento mi fece sorridere.

Forse l'amore esisteva veramente?

Con la coda dell'occhio riconobbi la fermata dalla quale sarei dovuta salire sull'autobus quella mattina, quindi mi feci strada tra la gente per arrivare all'uscita.

Il tragitto del ritorno non mi creò problemi, arrivai a casa senza ulteriori complicazioni da aggiungersi in quell'insolita giornata.

Recuperai le chiavi dalla tasca della giacca ed entrai.

«Sono a casa» urlai automaticamente una volta varcato l'uscio, ma non appena cercai di estrarre le chiavi dalla serratura queste non vollero saperne di uscire, anche dopo gli svariati strattoni che quasi mi costarono un braccio e un paio di nervi.

«Aspetta Karin, la serratura è un po' dura, arrivo ad aiutarti». La voce di mia madre veniva dal salotto.

Diedi al mazzo di chiavi un ultimo poderoso strattone, ma queste non si mossero.

Non erano dure, erano incollate.

La figura di mia madre comparve quasi immediatamente da dietro l'angolo, con un'espressione troppo interessata per avere come unico fine le chiavi.

Le disincastrò in un attimo e non appena furono nelle mie mani le sigillai in un pugno così stretto da farmi venire le nocche bianche.

Avrei preferito rifugiarmi in camera mia per evitare l'imminente interrogatorio di mia madre, o almeno rimandarlo a cena, quando ci sarebbe stato mio padre, ma quell'inutile ferraglia aveva compromesso ogni mio piano.

«Com'è andata a scuola oggi?». Mia madre si pulì le mani su uno strofinaccio infilato nella tasca del camice e mi puntò addosso i suoi occhi color cioccolato, trafiggenti e indagatori.

Dentro casa la temperatura era la stessa esterna, si gelava e l'aria puzzava terribilmente di vernice.

«Stai dipingendo le pareti?» le domandai, notando in quel momento i barattoli di tintura che spuntavano dalla porta del salotto, ma il mio tentativo di divagare sull'argomento scuola fu crudamente bloccato.

«Non fingerti interessata, oltretutto ti avevo già detto che avrei provveduto immediatamente per eliminare l'orribile carta da parati che infesta il salotto». Si appoggiò di peso alla parete e mi squadrò, in attesa della mia risposta alla sua domanda.

Conoscendola e vedendola in quella posizione la certezza che il discorso sarebbe andato per le lunghe fu inevitabile. Non avendo intenzione di perdere la giornata in discussioni decisi di darle ciò che voleva.

Per un momento tutti i fatti negativi vennero eliminati dalla mia testa, lasciando lo spazio solo per ciò che l'avrebbe resa contenta.

«Ho fatto amicizia con una mia compagna di classe». Esagerai un po' e subito sul suo volto comparve un'espressione di sorpresa. «Si chiama Juno. Mi ha fatto anche conoscere il suo ragazzo, Jimi. Per il resto, in aula è andato tutto bene».

Non avevo dato molti dettagli, ma d'altronde ero fatta così, sintetica ed essenziale. Mia madre lo sapeva bene.

«Cavolo, un bell'inizio, no? Ti avevo detto che sarebbe bastato sorridere e mostrarsi gentile». Con la mano sporca di vernice azzurro pastello mi accarezzò la guancia, lasciandomi una leggera striscia di colore che sulla mia pelle percepivo appiccicoso e fresco.

Sapevo che mia madre si preoccupava tanto per me ed ero contenta di non averle dato l'ennesima delusione.

«Però ora sono parecchio stanca, credo che prima di cena mi riposerò un po'». Mi pulii la guancia con il dorso della mano e nonostante avessi cercato di addolcire il più possibile le mie parole, un velo di preoccupazione oscurò gli occhi allegri di mia madre.

Sapevo a cosa stesse pensando.

«Il primo giorno di scuola è sempre un po' sfiancante, no?». Giustificai la mia uscita sorridendo, ma sapevo di avere ormai combinato un casino.

Da quella mattina a colazione, quando le avevo confermato il dubbio che io avessi avuto un nuovo incubo, sapevo che ogni mio passo falso mi sarebbe costato caro.

Lei mi assecondò, mi restituì il sorriso e con l'indice mi fece un nuovo segno di colore sul naso. «Sì, vai a riposare, ti chiamiamo per cena».

Detto questo mi lasciò passare e io potei raggiungere la mia camera. Nosferatu mi accolse entusiasta, fremendo dalla gioia o dall'agitazione per non avermi vista durante tutta la giornata e inondandomi di fusa rumorose come un trattore.

«Sono ancora viva, tranquillo». Scaricai lo zaino ai piedi del letto e lo calmai con un grattino sotto il mento, il suo punto debole.

Ero stanca, ma in realtà non sapevo se volessi davvero provare a dormire un po'.

Durante la notte appena passata avevo di nuovo avuto un incubo, per la prima volta dopo mesi. Ero praticamente sicura che ne avrei avuti altri non appena avessi chiuso gli occhi.

Nonostante questo, una volta calmato Nosferatu, mi sdraiai di schiena sul materasso ed allargai le braccia per far passare più aria nei polmoni.

Ci avrei provato. Al limite avrei saputo come regolarmi per non disturbare i miei. Andare a letto dopo di loro, isolare la porta con una coperta, mettere a intervalli regolari delle sveglie durante la notte, erano alcuni tra i tanti trucchi che ormai avevo imparato a sfruttare al meglio per non svegliare i miei.

Nel caso gli incubi non mi avessero permesso nuovamente di dormire, sapevo che avrei dovuto tirare fuori dalla valigia la solita coperta e attivare le sveglie sul telefono.

Chiusi gli occhi con un po' di timore e non passò molto tempo prima che io cadessi in un sonno profondo.

Quando li riaprii, il soffitto sopra alla mia testa differiva da un paio di ore prima solo per la diversa luce che lo illuminava, causata dal sole ormai da tempo calato che aveva lasciato posto nel cielo ad una luna sottile e oscurata dalle nuvole.

Mi misi seduta e con la mente e la vista annebbiata dal sonno mi guardai intorno confusa.

Nosferatu, che avevo sentito accoccolarsi al mio fianco prima che mi addormentassi, non era più nella camera. Visto che la porta era ancora chiusa supposi che mia madre l'avesse portato in cucina per dargli la razione serale di crocchette.

In casa non volava una mosca e il dubbio che mi assalì in quel momento fu confermato dall'orologio che mia madre aveva appeso al muro.

Erano le tre passate.

Mia madre aveva promesso di chiamarmi non appena la cena fosse stata pronta, ma evidentemente mi aveva vista dormire tranquilla e aveva preferito non svegliarmi.

Strano.

Strano che io avessi dormito e che l'avessi fatto anche bene.

Avevo calcolato le possibilità di cadere succube della mia mente e la percentuale era risultata parecchio alta, possibile che avesse vinto l'altra piccola alternativa?

Mi alzai e mi liberai dei fastidiosi vestiti, indossando il mio solito pigiama e i pesanti calzettoni antiscivolo in lana, con l'intento di fare irruzione in cucina e cenare con qualsiasi cosa mia madre avesse preso al supermercato.

Aprii piano la porta e scesi le scale in punta dei piedi, oltrepassando una a una le camere chiuse dei miei familiari e raggiungendo la cucina completamente al buio.

In questi casi le regole di mia madre erano molto ferree e severe, si mangiava negli orari dei pasti e le scappatelle notturne fino al frigo erano assolutamente vietate.

La cucina era in ordine, le stoviglie lavate e il tavolo occupato solo da un cesto di frutta, mangiare qualcosa comportava la necessità di stare attenta a non mettere qualcosa fuori posto.

Non avendo voglia di lavare piatti o posate ripiegai sul cesto di frutta sul tavolo.

Un frutto doveva solo essere lavato, poi sarei potuta tornare tranquillamente in camera mia a mangiarlo indisturbata.

Mi avvicinai al tavolo, ma subito la mia attenzione venne catturata da un ronzio sospetto.

Nonostante il buio, riuscii a distinguere una decina di mosche, o forse di più, volare intorno al cesto, producendo un fastidioso continuo rumore.

Era novembre, le infestazioni di insetti erano solite venire in estate.

Scacciai con una mano il rumoroso sciame, ma non appena la mia attenzione cadde dalle mosche alla frutta un conato di vomito mi costrinse a serrare la bocca con entrambe le mani.

Sotto la buccia di gran parte dei frutti si notava un disgustoso movimento, e dove in alcuni punti era stata mangiucchiata riuscivo ad intravedere i corpi molli e ripugnanti di tante piccole larve bianche, che si dimenavano senza sosta.

Un odore rancido di muffa mi colpì l'olfatto e fui costretta ad allontanarmi di qualche passo.

Possibile che nessuno si fosse accorto di nulla? La frutta era stata comprata il giorno stesso, non poteva essere già andata a male.

Indietreggiai fino a urtare con il sedere qualcosa di basso, che mi fece girare di scatto.

«Cazzo, Jennifer!». Tirai di forza aria nei polmoni, riprendendomi dallo spavento dopo aver riconosciuto mia sorella.

Lei teneva lo sguardo fisso sui suoi piedi scalzi, aveva indosso il suo pigiamino rosa, i capelli lunghi tutti spettinati e il suo pupazzo preferito stretto in mano.

«Che ci fai sveglia a quest'ora?» le domandai, dimenticando di colpo la frutta ed abbassandomi alla sua altezza per guardarla negli occhi.

Lei non rispose, teneva gli occhi incollati al pavimento e non faceva altro.

«Stai bene?» le domandai dolcemente, spostando una ciocca di capelli dal suo viso.

A stento trattenni un grido e ritirando immediatamente la mano scattai in piedi. Il buio mi aveva ingannata, aveva celato la carne putrefatta di mia sorella, priva di pelle e traboccante di vermi e parassiti, dai quali squarci che arrivavano fino all'osso colava pus denso e giallognolo.

Dalle piaghe ricoperte di sangue rappreso andavano e venivano mosche, che trovavano nella carne marcia un nido per le loro larve e una dispensa per i loro stomachi.

Mi rivolse lo sguardo. I suoi occhi castani nocciola erano diventati neri come il petrolio.

In quel momento, accorgermi di essere in un incubo fu sanatorio e raccapricciante.

Non era reale, ma io facevo parte di quell'irrealtà e dovevo andarmene ora o consumarmi nelle mie paure.

Le dita scheletriche e scarnificate di Jennifer furono in un attimo ai miei polsi, che strinsero con una forza sovrumana e dalla quale io non riuscivo a liberarmi.

Urlai, sapendo che ormai non avevo nulla da perdere, le mie grida graffiavano la mia gola fino a farmi sentire il gusto del sangue. Mi dimenavo strattonando l'incubo sotto forma di mia sorella, sgretolando sotto la presa delle mie dita la poca carne marcia in bilico sulle sue ossa.

Le mie guance erano rigate dalle lacrime, causate dalla paura ma anche dal risentimento. Non volevo farle del male, era pur sempre mia sorella.

La stretta delle mie mani arrivò all'osso e solo il quel momento riuscii, con uno strattone secco e ben assestato, a spaccare i polsi e a liberarmi.

Volevo scappare, ma prima che potessi muovere un solo passo la terra si aprì sotto i miei piedi, inghiottendomi e trascinandomi nelle viscere di quel mondo, dalle quali era impossibile poter tornare indietro.

La sensazione di vuoto mi riportò nel mondo reale. Mi svegliai nel mio letto in un bagno di sudore, con indosso i vestiti che avevo messo quella mattina.

Sentivo il mio respiro affannoso, le orecchie mi fischiavano e gli arti erano fuori controllo, tremavo come una foglia.

«È stato un... incubo... Solo un incubo...» Tentai di auto convincermi, premendo con la mano sul petto, dove il cuore batteva all'impazzata minacciando di scoppiare.

Ormai ero a casa, questa volta per davvero.

In quel momento qualcuno batté energicamente alla porta della mia camera, facendomi sobbalzare.

«Karin! Sono la mamma, tutto bene? Ti ho sentita urlare, apri la porta». La sua voce era alta, tremava. I colpi aumentarono d'intensità.

Non potevo dirglielo, non potevo farle questo. Presi un grande respiro e aprii la bocca appena. «Sì, tutto bene. Scusa, c'era un... insetto... era gigantesco, volava per tutta la stanza. L'ho cacciato fuori».

Come scusa era ridicola, ma mia madre sembrò crederci. Dopo avermi minacciata per averle fatto prendere uno spavento se ne andò.

Nosferatu, che era stato svegliato dai colpi sulla porta, si strusciò sul mio braccio cercando attenzioni, ma io non ero in vena di effusioni feline.

Lo liquidai con una carezza e mi alzai dal letto, per andare al bagno. Non ero sicura di volerci entrare, ma quando, premuto l'interruttore, le piastrelle color corallo vennero illuminate dalla luce della lampada, tirai un sospiro di sollievo.

Quando mi capitava di fare incubi come quello appena passato, facevo fatica poi a distinguere i sogni dalla realtà e cominciavo a trattare tutto e tutti con diffidenza.

Davanti allo specchio, la mia figura non appariva tanto peggio del solito. I solchi scuri intorno ai miei occhi erano risaltati dalla carnagione troppo chiara per non apparire leggermente malata, le lunghe ciocche di capelli scuri mi cadevano davanti al viso, lasciando scoperto il mio occhio sfortunato.

Mi lavai via energicamente il sudore dal viso e dal collo e l'acqua gelata mi riportò completamente alla realtà.

Come sospettavo, il trasloco aveva intensificato i miei incubi, mi toccava correre ai ripari.

Presi l'asciugamano color crema lasciato lì, vicino al lavandino e tamponai il viso e le mani delicatamente. Quando feci per rimetterlo al suo posto, una sfumatura rossastra su un angolo di esso catturò la mia attenzione.

Osservandolo meglio, lo sguardo scivolò inevitabilmente sulle mie mani.

Non mi ero accorta che fossero sporche di un liquido scarlatto rappreso, ormai così maledettamente familiare.

Non sapevo come fosse successo, non lo volevo nemmeno sapere. Cacciai le mani di nuovo sotto il getto d'acqua gelida e le strofinai una contro l'altra con così tanta forza da farle diventare rosse per l'irritazione.

Il sangue venne lavato completamente via senza lasciare tagli, dandomi la certezza che non fosse il mio.

Se da una parte mi sentivo più tranquilla, dall'altra risultava ancora più inspiegabile e inquietante.

Misi l'asciugamano nella lavatrice, ancora senza un luogo fisso e quindi in mezzo alla stanza. Senza sapere quale fosse il lavaggio migliore o il detersivo adatto la feci partire schiacciando bottoni a caso.

Non mi importava che potesse rovinarsi, sarebbe stato meglio che fosse sparito dalla faccia della terra. Volevo girare le spalle a questa faccenda assurda, non volevo nemmeno provare a capirci qualcosa, sarei andata avanti come se nulla fosse successo e tutto sarebbe andato per il meglio.

Lasciai il bagno frettolosamente, forse con la paura di avere addosso altri dettagli compromettenti di cui non mi fossi resa conto e mi rinchiusi di nuovo in camera mia.

Nosferatu dormiva profondamente e non aveva segni di ferite sul suo corpo abbondante e peloso. Per un momento, la paura che io avessi aggredito nel sonno il mio gatto o che si fosse fatto male da solo mi aveva annebbiato la vista.

Mi sedetti ai piedi del letto, con la testa serrata tra le due mani. Per quanto stessi cercando di ignorare ciò che mi era appena successo, un particolare di quell'incubo tormentava i miei pensieri e chiedeva disperatamente di essere preso in considerazione.

Le iridi scure, nere come la pece, incastrate negli occhi di mia sorella, mi ricordavano qualcosa, sapevo che non erano casuali.

Un paio di minuti più tardi mi accorsi di averle già viste.

Pochi secondi dopo ancora, sapevo anche dove.

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