3. Qualcosa di nuovo
Devo essere naturale, nessuno qui mi conosce. Ripetei nella mia testa quelle parole ancora una volta, cercando di convincermi a far scivolare la mia mano sospesa a mezz'aria sulla maniglia in ottone.
Prima che me ne potessi accorgere il pollice della mano lungo il mio busto aveva iniziato a scrocchiare una a una tutte le dita. Il rumore delle ossa servì solo a innervosirmi ancora di più.
Mi costrinsi a prendere nei polmoni un grande respiro. Lo trattenni; lo trattenni ancora; poi lo liberai lentamente, a piccole dosi, associando a ogni getto di aria calda rilasciato una delle tante sfaccettature della mia preoccupazione.
Attirare l'attenzione? Fuori l'aria. Gli sguardi indiscreti dei ragazzi? Ancora una volta. Le domande? E le mie risposte? Avevo finito il respiro e la mia agitazione pesava nel petto come piombo fuso. Sapevo che non avrei ottenuto nulla, ci avevo comunque provato.
La mia gola era secca e faceva male. Sentii il mio naso formicolare e in breve tempo i miei occhi si riempirono di lacrime: non volevo andare a scuola, non quel giorno. Avrei potuto tranquillamente tornare l'indomani o la settimana dopo. I miei mi avrebbero sicuramente capita.
«Nervosa?»
Voltai di scatto lo sguardo alla mia destra, dove una ragazza era riuscita ad arrivare approfittando del mio momento di distrazione.
«Anch'io lo sono sempre quando arriva l'ora della Barnes. E' sempre così tesa, quella donna... avrebbe bisogno di uscire e svagarsi più spesso, ma più glielo ripeto più sembra intenzionata a farmi bocciare» continuò serenamente il suo soliloquio la ragazza.
Mi colpirono subito i suoi particolari capelli color carota, legati in due code di cavallo basse e disordinate, come se se le fosse fatta al momento, senza spazzola. Indossava una maglietta a maniche lunghe giallo evidenziatore, coperta da una salopette in jeans sbiadita e larga e seminascosti dalle converse grigie si intravedevano un paio di calzini spaiati, uno blu e uno nero.
Distolse l'attenzione dalla porta e la riversò su di me, rivelando un viso pulito ed infantile e un paio di occhi castano chiaro, senza ombra di trucco.
«È cattiva, ma piangere non servirà a niente». Tirò fuori dalla tasca della salopette un fazzoletto e con quello acchiappò prontamente una lacrima che stava scivolando sulla mia guancia. «Il tuo volto mi è nuovo. Non sei di questa scuola, vero?»
Notai la sua attenzione concentrarsi sul mio occhio sinistro e di riflesso abbassai il viso, facendole ritirare la mano.
«Mi sono appena trasferita... è il mio primo giorno qui».
Scosse la testa pensierosa. «Hai scelto il momento peggiore. Hai bisogno di abituarti almeno un po', prima di avere a che fare con quella prof. A meno che non ti piaccia storia, entreresti subito nelle sue grazie. In caso contrario, ti assicuro tre ore di inferno settimanali». Mi porse la mano destra. «Sono Juno Lyra Davies, per te solo Juno, e hai bisogno del mio aiuto».
Pulii velocemente la mano sudata sui jeans e strinsi delicatamente la sua, mentre la mia mente non riusciva a liberarsi dalla preoccupazione. «Karin Price». Deglutii un fiotto amaro di saliva. «È così terribile?»
«Satana sotto forma di donna, tutto ciò che è diverso da lei è sbagliato. Non importa quello che le dirai, se arrivi in ritardo alle sue ore stai sicura che cercherà come minimo di rimandarti. Ma ho un'idea, basta che tu mi regga il gioco» fece con aria complice. «Sai, questo non è il mio primo ritardo di questa settimana, se tutto andrà bene avrò una scusa per evitare guai anche per me».
Tutto ciò che mi stava succedendo era assurdo, a partire da Juno. I miei propositi di tornare a casa senza affrontare il primo giorno di scuola si erano fatti sempre più piccoli con le parole di quella ragazza. Prima che potessi rendermi conto della situazione annuii senza pensare. Ormai era fatta.
Juno sorrise e mi prese per mano, allungando l'altra verso la famigerata maniglia e abbassandola.
La porta si spalancò davanti a noi, attirando prima l'attenzione dei ragazzi seduti sui banchi, poi quella della prof, che rivolse immediatamente a Juno uno sguardo seccato che cambiò in uno interrogativo non appena si accorse della mia presenza.
«Buongiorno prof» cominciò Juno, senza lasciare tempo alla donna seduta dietro alla cattedra di dire anche solo una parola e nel frattempo trascinandomi per il braccio all'interno dell'aula. «Ci scusi davvero per il ritardo, ma il preside mi ha fermato nel corridoio e mi ha chiesto cortesemente di portare lei a fare un giro veloce per l'edificio. È nuova, non sapeva dove andare».
Lo sguardo che mi rivolse la donna mi gelò, Juno mi aveva avvertita che non sarebbe stata contenta in ogni caso.
«Non sono stata avvisata di questa iniziativa, non mi è stato dato alcun avviso». Si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia al petto.
La sua voce era bassa e rauca, da fumatrice accanita. Aveva i capelli castani ricci e lunghi fino alle spalle tenuti sciolti e indossava un tubino blu notte a maniche lunghe che le arrivava fino alle ginocchia. Una bella donna, ma con uno sguardo cupo e un paio di pesanti rughe intorno alle labbra che stonavano con l'evidente giovane età.
«Il preside ha detto che è arrivata ieri, non ha fatto in tempo ad avvisare, per questo ha detto di scusarsi» continuò Juno con una scioltezza impressionante, non sembrava affatto che si stesse inventando tutto al momento.
La donna non era convinta, tuttavia non volle replicare e fece cenno a Juno di prendere posto tra i banchi.
«Quindi tu sei...» borbottò la prof, cominciando a sfogliare un registro colmo di documenti.
«Karin Price».
Puntò gli occhi su di me, spietatamente seria. «Non te l'ho chiesto» mi zittì per poi tornare sui suoi fogli. Finalmente ne trovò uno che sembrò interessarle, lo esaminò per qualche secondo e poi lo estrasse dalla pila di carta. «Sì, Price Karin, ero stata avvisata che saresti arrivata, ma sulla mail non è stato scritto quando».
Lesse velocemente le poche righe scritte su quel foglio, che però non sembrarono interessarle veramente. Io non sapevo cosa rispondere, quella prof mi metteva in soggezione e in un certo senso mi mancava la risposta pronta di Juno, che sapeva in qualche modo tenerle testa.
«Io sono la professoressa Barnes, insegno storia e letteratura inglese, ma in questa classe solo la prima. Pretendo che la mia materia venga studiata volta per volta, in classe ci dev'essere massimo silenzio e gli assenti il giorno del test prendono direttamente insufficiente». Rimise il foglio sulla cattedra e mi fece lo stesso cenno che poco prima aveva fatto a Juno in direzione dei banchi. «Puoi sederti e seguire con qualcuno sul libro».
Non aggiunse altro, ma sinceramente fu meglio così.
Mentre mi avvicinavo ai banchi, notai con la coda dell'occhio Juno farmi un cenno dalla terza fila, che mi indicava un banco libero accanto al suo.
Senza pensarci due volte mi avvicinai a quel banco e lasciai cadere il mio zaino accanto. Juno mi sorrise e con le dita mi fece capire 'dopo'. Le risposi con un veloce 'okay', anche se non avevo ben capito cosa volesse e cominciai a seguire la lezione sul libro che intanto Juno aveva fatto scivolare per metà sul mio banco.
La mensa era un'enorme sala sul lato est dell'edificio, dal pavimento piastrellato a scacchiera bianca e nera e con quattro imponenti colonne corinzie in marmo al centro della stanza, che reggevano l'esteso soffitto e rendevano l'ambiente raffinato e delicato.
Tre delle quattro pareti erano ricoperte di grandi vetrate che davano sul bosco, ormai spettrale e quasi completamente spoglio a causa dell'inverno.
Gran parte dei tavoli erano già occupati e le voci dei presenti si sovrapponevano, creando un unico grande brusio generale continuo, scandito dal tintinnio delle posate sui piatti e dai bicchieri appoggiati frettolosamente sui tavoli.
Il piatto del giorno prevedeva patate al burro con formaggio, pancetta ed erba cipollina, insalata russa e svariati affettati, tra i quali avevo preferito il prosciutto cotto.
Punzecchiai con la forchetta l'insalata, la fame si stava facendo sentire, eppure non riuscii a fare altro se non alzare lo sguardo su Juno, seduta di fronte a me.
Avevo passato le seguenti tre ore e mezza dal mio arrivo a cercare di studiarla, ma nonostante ciò non riuscivo proprio a capire in base a quali criteri facesse le cose.
Disegnava, scarabocchiava sul banco, poi improvvisamente impilava le sue penne in un piccolo fortino. Faceva smorfie, muoveva le labbra come se stesse dicendo qualcosa, si perdeva nei suoi pensieri e quando sembrava che stesse seguendo la lezione stava in realtà scrivendo qualcosa di estraneo al programma su un piccolo quadernetto.
Non stava ferma un secondo, passava da un'azione all'altra come se niente fosse, senza un minimo di intervallo.
Era completamente persa nel suo mondo.
Anche in quel momento, mentre con la mano sinistra si imboccava, con l'altra scriveva ancora sul suo piccolo quaderno e più volte in un attimo di distrazione l'avevo vista portare alla bocca la matita e cercare di scrivere con la forchetta.
Sarebbe potuto sembrare esagerato il suo modo di estraniarsi dal mondo, tuttavia lo faceva con naturalezza, senza alcuno sforzo.
Era fatta così, per quanto strana potesse sembrare.
«Non so come ringraziarti» me ne uscii all'improvviso, con lo sguardo fisso su Juno.
Lei cadde dal mondo delle nuvole, così come fece il boccone di patata al burro dalla sua forchetta. «E per cosa?»
«Per tutto» iniziai vaga, posando la forchetta sul tavolo e appoggiando la testa sul palmo della mano. «Per avermi aiutata, questa mattina. Per avermi prestato i tuoi libri. Per avermi invitata a mangiare con te a pranzo. Non mi conosci ancora, ma sei stata gentile con me».
Mi fissava senza dire una parola, sembrava sconcertata.
«Mi sembra il minimo, non credo sarebbe stato normale se io ti avessi ignorata dall'inizio». Recuperò il boccone che le era caduto sul piatto, ma non riprese a mangiare.
Quando la forchetta fu vicina alle sue labbra la sua mano si bloccò e dopo un momento di riflessione decise di appoggiarla di nuovo. «Ho una mezza idea di come ci si possa sentire ad essere ignorati... i ragazzi di quest'epoca sono incredibili, si comportano da estranei tra loro, come se la loro vita fosse contenuta in quella piccola realtà di amici e parenti che si sono costruiti intorno, e tutto ciò che non ne fa parte è un alieno. Odio dovermi lamentare, ma rimpiango aspramente i decenni scorsi, la vita era completamente diversa. I rapporti sociali, la vita quotidiana, gli atteggiamenti della gente...». Si incantò per un momento, con lo sguardo velato da una sottile nostalgia fisso nel vuoto.
Rimasi in attesa per qualche secondo, tenendo comunque lo sguardo discretamente basso per non infastidirla.
Notai con la coda dell'occhio lo schermo del suo telefonino, un vecchio modello rosa perlato, accendersi e far comparire la casella di un nuovo messaggio, tuttavia non le dissi nulla e continuai a osservare il suo viso praticamente paralizzato.
Si riprese dal suo stato di trance sbattendo più volte le palpebre e tossicchiò leggermente mentre cercava con lo sguardo la forchetta. «...o almeno questo è ciò che la gente dice. Chissà quanto in realtà è vero». Recuperò l'utensile in metallo, ma accorgendosi del suo telefono acceso lo lasciò nuovamente andare e portò la sua attenzione sullo schermo illuminato.
Lesse velocemente, sorrise e digitò qualcosa. «Il mio ragazzo». Le sue parole sembrarono quasi una giustificazione. «Te lo farò conoscere. Anzi, te lo faccio conoscere adesso» si corresse spegnendo lo schermo. «Cosí ne approfittiamo per prendere un caffè alle macchinette, perché altre tre ore io non le reggo. Ma stai ancora mangiando? Sbrigati, abbiamo solo mezz'ora prima che inizino le lezioni pomeridiane».
Svuotati i vassoi e impilate le stoviglie mi trascinò fuori dalla mensa.
«Destinazione aula di musica» spiegò Juno, con ancora la mano saldamente stretta al mio polso, trascinandomi verso la parte opposta dell'edificio.
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