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16. Brancolare

«Sì».

Quella sillaba mi rimbombava nella testa. La sua risposta era stata sì. Sì, fino adesso avevo vissuto una menzogna. Sì, i miei genitori sapevano tutto. Sì, nella mia vita non avevo mai davvero deciso niente. Sì, io non ero reale.

Sì, Karin Price era in coma. O almeno, la ragazza comunemente chiamata così era letteralmente un coma, la forma consistente e sofferente che viveva le pene di qualcun altro. Quel qualcuno ero io? Non lo sapevo. Quel che era certo? Che per tutta la mia vita, per tutti i diciotto anni della mia vita, nulla di ciò che mi era successo era stata colpa mia.

E i miei genitori? Loro avevano sempre saputo tutto. Sapere di avere una figlia che non esisteva davvero doveva essere stato troppo pesante, al punto di aver adottato in modo ossessivo compulsivo qualsiasi modo per guarirmi. Per avere la loro bambina. E in realtà c'erano anche riusciti: tutti quei farmaci, tutti quegli psichiatri avevano fatto in modo di tenermi stretta a quel mondo che, in realtà, non mi apparteneva. Mi avevano, o meglio, avevano buttato quella ragazza in un coma più profondo, bloccandola forse per sempre su quel letto. Allora potevo vivere, ma una vita infima e spenta, tesa costantemente alla ricerca della felicità ma incapace di raggiungerla.

Perché i miei genitori si erano dunque arresi? A quella domanda Edward non aveva riposto, ma in cuor mio sapevo. Semplicemente, si erano stufati. Una vita intera a trattenere con le unghie e con i denti una figlia che scivolava via dalle loro dita come un soffio di vento, a cercare di costruire la famiglia perfetta senza mai, mai riuscirci. Avere tre figli e dedicare il tempo e i soldi solo a una. Se da una parte come ipotesi mi sembrava inconcepibile, dall'altra pensavo che ero sempre stata un peso per me stessa, al punto di non voler più averci a che fare. Con quale presunzione potevo pensare che per loro tutto questo non fosse successo molto prima?

I miei pensieri andavano al mese precedente. Pensavo al dottor Darren. Pensavo a quell'incubo in camice bianco che era stato incaricato di raccontarmi l'ultima bugia, la fine della lunga serie che aveva portato avanti la mia vita fino a quel momento. Mi era stato spacciato tutto per un'ennesima allucinazione e io ci avevo anche creduto, ma la realtà era che io non ricordavo altro che la verità. Il trasferimento era avvenuto e loro se n'erano davvero andati, abbandonandomi a me stessa e facendomela passare per una mia colpa. Mancava solo un tassello nella storia, ciò che aveva reso tutto possibile. Una spinta ad andarmene spontaneamente di casa era certamente stata l'alternativa di iniziare un nuovo ciclo di farmaci, ma la vera e propria ragione per cui avevo deciso di rendermi indipendente era stata un'altra. C'era bisogno di una persona che mi facesse sentire protetta, al sicuro e soprattutto non sola, che mi potesse dare la speranza di vivere davvero una vita migliore. Con cui potevo trovarmi. Confidarmi. Fidarmi.

E quel compito era stato dato a Juno.

Da parte sua non avevo ancora avuto una risposta. Sentivo il suo sguardo addosso, ma non una sola parola era volata tra noi da quando ci eravamo sedute nel parco della cattedrale, ormai un'ora e ventiquattro minuti prima. Distolsi lo sguardo dalla torre dell'orologio e lo puntai sulla grigia e fredda lastra di pietra sulla quale ero seduta. Mi accorsi che un mio dito aveva iniziato a sanguinare e lo portai alla bocca, scoprendo la pelle gelida e secca da fare schifo.

Sapevo che probabilmente stavo patendo il freddo, ma non lo sentivo. Come non sentivo la stanchezza per la notte in bianco appena passata. Quando quella mattina ero rientrata nella mia stanza, le prime luci dell'alba stavano già schiarendo quel cielo grigio e cupo che avrebbe minacciato pioggia per tutto il giorno.

Tolsi il dito dalle labbra e mandai giù un fiotto di saliva densa e ferrosa. Alzando lo sguardo incrociai di nuovo quello di Juno, ma invece di riportalo sulla pietra come le volte prima lo sostenni. Lei aveva smesso di piangere ma il naso e gli occhi erano ancora rossi, forse per il continuo sfregamento con il fazzoletto ormai sfibrato, forse per il freddo. Lessi ancora nella sua espressione il rimpianto, la mortificazione e il pentimento che quella mattina, quando aveva fatto irruzione in camera mia, si erano espressi in un unica parola.

Scusa.

Da lì, solo silenzio. Era stato intuitivo e telepatico uscire ancora in pigiama e con la giacca buttata sulle spalle per sederci in quel parco una di fronte all'altra, io su una tomba diroccata e lei sul muretto.

Juno era un sogno. Dopo aver sentito tutta quella storia del mondo onirico in realtà c'era da aspettarselo. In realtà l'avevo capito ancora prima che Edward me lo potesse confermare quella notte, quando avevo ripensato alle sue frasi contorte ed enigmatiche e mi aveva confidato quella famosa missione di ricerca della ragazza albina. Anche Jimi era un sogno, ma questo l'avevo pensato io andando per esclusione.

Tra noi e Darren eravamo già cinque della scarsa dozzina di sogni e incubi consapevoli di esserlo. In tutto il mondo, quattro persone su undici si erano mobilitate per trovare me.

«Perché?» Ruppi finalmente il silenzio tra me e Juno. Lei non fu sorpresa della domanda e non diede segno di difficoltà nel trovare le parole.

«Ci sono certi equilibri su cui si basa precariamente il mondo dei sogni... se non c'è controllo sugli umani ci ritroviamo sul filo del rasoio, ogni istante può essere la fine. Senza di te è un caos".

Poi esitò e fece per dire qualcos'altro, ma dalla sua bocca uscì solo una nuvola di condensa.

Mi fissai di nuovo il dito sanguinante. Edward mi aveva spiegato che non vi era una vera distinzione tra i sogni e gli incubi. Il dualismo non era da considerarsi una sorta di equilibrio manicheista, ma piuttosto come due facce complementari rappresentate da un continuum lineare. Nessuno era davvero completamente sogno o completamente incubo, ma veniva distinto per convenienza in base alla sua tendenza generale.

Tuttavia io, Karin Price, ero l'unico individuo esistente ad essere un sogno al cento per cento. L'altra faccia della moneta, chi per antonomasia mi controbilanciava, l'unico vero incubo, era Edward.

Edward c'era. Io no. La vera Karin era dormiente in un letto fatiscente e scomodo, in quello che convenientemente viene chiamato il mio inconscio.

Sì, tutto questo mi era stato spiegato, ma la mia domanda era un'altra. Avevo tanti perché, troppi, come perché ora, dopo diciotto anni, ma d'altra parte era come se Edward mi avesse già risposto. I miei genitori avevano fatto qualsiasi cosa prima di gettare la spugna. Ma il perché che più mi soffocava era un altro.

«Perché mentirmi?» Chiesi di nuovo, sempre con lo sguardo puntato in basso.

Fu diverso dalla prima domanda, Juno non rispose subito. Dopo alcuni minuti di silenzio e di soffi di vento tra i rami, ai primi singhiozzi che sentii alzai lo sguardo. Il viso di lei era di nuovo arrossato e delle sottili lacrime avevano preso a rigarle le guance. Il primo pensiero che mi passò per la testa fu che ormai le avesse quasi terminate.

«Sembrerà patetico» Iniziò lei tra un singhiozzo e l'altro. «risponderti ora che avrei voluto dirtelo. Sembro una paracula, ne sono consapevole, ma ho cercato in tutti i modi di darti ogni tipo di indizio ogni volta che mi era possibile. Ma avevo paura. Avevo paura perché i tuoi mi pressavano per mantenere il silenzio. Mi ero presa l'onere di essere io a dirtelo, ma ho temporeggiato e Edward mi ha preceduto. Avrei voluto farlo in modo molto più delicato».

Più delicato. Sospirai e raccolsi le mie ginocchia al petto in silenzio. Delicato. Avevo subito un trasferimento contro la mia volontà, ero stata separata bruscamente dai miei genitori ed ero stata lasciata confusa e sola, circondata da centinaia di piccoli indizi sconnessi e incompleti, poi mi era stata sputata tutta la verità in faccia senza un minimo tatto. Senza un abbraccio o una parola di conforto. Edward non era stato affatto delicato.

«Avrei voluto che tu vivessi la tua vita normale». Quelle parole sussurrate da Juno mi fecero sorridere. «Mi dispiace che sia andato tutto così».

Scossi la testa e poi l'appoggiai sulle ginocchia, cominciando a bagnare i pantaloni di lacrime. Tristezza, delusione e rammarico mi obbligarono a concludere quel discorso, ma più che a Juno sentii che quello che dissi fosse rivolto a me stessa.

«Non ho mai avuto una vita normale».

Scesi da quella tomba solo quando il sole stava lasciando nuovamente spazio a una striminzita e offuscata luna bianca. Juno era rientrata diverse ore prima sotto mia minaccia: i colpi di tosse si erano fatti insistenti e forti e non me l'ero sentita di trattenerla ancora a lungo nel parco. Quanto a me, il motivo che mi costrinse ad alzarmi fu il bisogno repellente di andare in bagno.

Ondeggiai tra le tombe come un'automa, poi sul marciapiede cercando di non scontrarmi con i pochi passanti. L'erba del prato era umidiccia e i miei pesanti anfibi neri vi sprofondavano come se fosse fimo di palude. Non avevo voglia di arrivare nella mia stanza. Cos'avrei fatto da quel momento in poi? Come avrei potuto affrontare ogni mattina? E se non avessi continuato la mia vita di tutti i giorni, sarei rimasta nel mio letto a piangere e a gridare che volevo tornare a casa?

Tornare a casa... chissà se lo volessi davvero.

Come imboccai il sentiero lastricato che mi avrebbe condotta alla mia porta mi bloccai. Che fossero state le mie preghiere oppure le mie paure ad essere ascoltate poco importava: all'ingresso c'era Edward ad aspettarmi.

Mi trascinai lungo la via sostenendo lo sguardo insistente del ragazzo, senza proferire parola e senza la minima intenzione di essere la prima a rivolgerla. Infatti fu lui a rompere il silenzio, quando ormai ero a un passo dalla porta.

«Ti sei fatta un bel giretto. Pensavo fossi scappata di casa».

«Quale casa?»

La mia risposta tagliente lo lasciò un momento in silenzio, il tempo che io tirassi fuori le chiavi e aprissi la porta principale. La spalancai e, con un gesto della mano, lo invitai a entrare.

«Ma come siamo audaci» rispose con un sottile filo di malizia che gli piegava le labbra in un sorriso.

«Perché devi sempre essere così?» Borbottai spingendolo oltre l'ingresso. «È una specie di status che ti sei affibbiato e di cui non puoi fare a meno? Sarebbe carino se facessi il serio, soprattutto dopo ieri notte».

Il suo ennesimo sorrisetto strafottente sfidò il limite della mia sopportazione. Lo superai e raggiunsi a passi pesanti la mia camera al primo piano. Il tempo di cercare le chiavi giuste e fu di nuovo alle mie spalle.

«E comunque, immagino che tu debba parlarmi. Non sei stato ad aspettarmi fuori al freddo per due ore per niente».

«Chi ti dice che sono qui da due ore?»

«Juno». Diedi un colpo secco alla chiave e aprii la porta. «Alle tre mi ha mandato un messaggio per avvisarmi».

«E mi hai fatto comunque aspettare fino adesso?»

«No, ti sbagli. Non sarei proprio venuta, ma dovevo andare in bagno e non avevo soldi per entrare in un bar». Conclusi l'ennesimo botta e risposta per entrare nel bagno. Al mio ritorno Edward aveva già fatto i suoi comodi e si era sdraiato sul letto, con le mani premute contro gli occhi. Avrei voluto dirgli che mi stava sul cazzo la sua giacca bagnata sulle lenzuola, o in generale lui sul mio letto, ma ero stanca per continuare a litigare e la fame cominciava a farsi sentire.

«Dovevi parlarmi? Perché altrimenti io vado a comprarmi qualcosa da mangiare».

«Sì». Edward mi rispose subito ma non si mosse. «Conosco una trattoria che serve cibo fritto e dolci fatti in casa, se vuoi ci possiamo andare ora».

Presi lo schienale della sedia della scrivania tra le dita e lo strinsi fino a farmi diventare le nocche gialle. «Sei venuto a dirmi questo?»
Al breve cenno d'assenso che fece con la testa lasciai andare il mobile, prima di rovinare l'imbottitura con le unghie. Sentii l'impulso di calciare la moquette, di dare un colpo così forte con il piede da farmi male e avere la scusa per chiudermi in camera e non uscire mai più: mi trattenni e presi un rumoroso respiro. «Che domanda del cazzo. Scordatelo».

«Perché?»

«Perché?» Il mio risentimento era palpabile, la voglia di dare un calcio a qualcosa era stata repressa ma si stava esprimendo con pesanti rughe sul mio volto. «Perché ho appena scoperto che i miei genitori mi hanno abbandonata di proposito, che quella che ritenevo un'amica si è avvicinata solo perché doveva e magari nemmeno le piaccio davvero, e perché tu» Sull'ultima sillaba sputai un po'. «Tu sei un fottuto stalker. Smetti di farti gli affari miei e lascia che io viva ciò che rimane della mia vita di merda da sola».

Edward finalmente tolse le dita dagli occhi e si mise a sedere sul bordo del letto. «Credimi, hai paura perché è una cosa nuova, ma come supererai tutto ciò ti accorgerai che non è altro che una realtà di vita. Nessun uomo si spaventa se gli viene confidato di essere un umano, mentre se lo dici a un cane lui finirà in crisi».

«Ma che discorso assurdo». Replicai con il dente avvelenato. «Fa acqua dappertutto. Dire a un cane che è un umano?»

«Cogli l'idea di fondo, Karin. Ti sto dicendo che prima o poi dovrai affrontare questo momento, dovrai tornare alla tua vita. Non puoi comprarti il cibo al primo mini market e startene in casa per il resto della tua vita. Quindi sì, trattoria e fritto misto, questa è la mia idea per tirare in piedi il sacco di ossa che sei in questo momento. Puoi prendere o lasciare».

Storsi il naso. Io ero incazzata e lui serio, ma non sapevo dire se fossi incazzata più per la proposta assurda o per appunto la sua sicurezza.

«Perché dovresti farlo?»

Questa volta fu lui a storcere il naso. Si alzò in piedi per avvicinarsi alla finestra, dove Nosferatu era appostato da quando eravamo entrati. Il gatto aveva lo sguardo fisso verso l'esterno e dimenava la coda, vittima di tic dovuti allo stress.

«Essere un incubo non vuol dire essere un pezzo di merda, questo concetto deve entrarti in testa. Non è ciò che faccio io che fa star male le persone, le paure e le ansie sono già presenti nella mente di chi sogna. Se ti può far star bene, considera l'incubo una sorta di salasso mentale: al momento può essere invasivo, ma poi permette di stare bene». Provò ad accarezzare Nosferatu, ma il gatto emise un lungo verso di disapprovazione e lo fece desistere. «Non ci guadagno nulla a vederti piangere su te stessa, ma soprattutto quest'immagine non mi entusiasma. In questo momento non sono un incubo, ma un amico. Considerami tale».

Il mio silenzio che seguì l'ultima affermazione fu rispettato come se fosse religioso. Edward non tentò nemmeno più di accarezzare il gatto, ma voltò la schiena alla finestra e, con lo sguardo basso sulle sue scarpe, mi concedette qualche minuto.

Ciò che mi faceva davvero arrabbiare era il fatto che Edward avesse ragione. La cosa più semplice sarebbe stata lasciarmi marcire in un angolo fino alla fine della mia pena, e in cuor mio sapevo che ogni fibra del mio essere volesse proprio questo. Ma le parole di Edward ebbero il potere di farmi sentire una bambina capricciosa, dalle tante potenzialità ma dall'attinenza a non applicarsi. È ciò che il classico signor Banalità afferma spuntando nel bel mezzo di una crisi di una protagonista di un libro per darle perle di saggezza. Si deve ricominciare. Ma se con il potere dell'amicizia e altre cagate varie nei libri viene risolto anche il più grave conflitto interiore, nel mio caso il signor Banalità stava dando solo perle ai porci. Non si risolve un problema tracciandoci una linea nera sopra e io ne ero pienamente consapevole.

Tuttavia la proposta che mi era stata fatta non era propriamente un ricominciare. A me era stato proposto un piatto di fritto e un dolce fatto in casa, e il mio stomaco pregava di accettare. E con lui, probabilmente anche il mio stato d'animo.

Inoltre, nella mia testa vibravano ancora quelle parole, che fecero battere il mio cuore stanco un po' più forte.

Considerami un amico.

«È solo un pasto caldo». Borbottai infine, incrociando gli occhi trionfanti del ragazzo. «Nessun nuovo inizio o cagata simile. Solo un pasto caldo».

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