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15. Coma

Ancora una volta, il paesaggio davanti ai miei occhi cambiò. Non erano più i palazzi a delineare la città di Winchester, ma un grande e verde parco di un luogo che mi sembrava di conoscere. L'aria tiepida e il sole alto nel cielo mi fecero pensare all'estate, l'erba brillante e i pantaloncini dei bambini me lo confermarono.

Mi guardai intorno, seguendo la corsa di un ragazzino dalla maglietta rossa, che rincorreva con un sorriso raggiante stampato in faccia il compagno di giochi. Il parco era molto frequentato, adulti e anziani passeggiavano lungo il viale alberato godendosi il sole e i bambini saltavano su e giù dalle attrazioni, ignorando i richiami dei genitori e sporcandosi le ginocchia di terra. Colsi qualcosa di diverso nell'aria. I vestiti erano diversi. L'ambiente era diverso.

Inseguii ancora con lo sguardo il bambino dalla maglietta vermiglia, quando la mia attenzione venne catturata da un elemento statico in mezzo a tanta vitalità.

Una bambina se ne stava seduta sull'altalena, con i piedi a penzoloni e le piccole mani strette sulle catene, intenta a contemplare la dinamicità che la circondava. Anche lei osservava distrattamente lo stesso ragazzino. Benché fosse a pochi passi da noi, più la guardavo e più mi sembrava distante, chiusa nei suoi pensieri. I capelli scuri le scivolavano davanti al viso, pallido e serio, le sue gambe magre erano immobili e strette l'una contro l'altra. I nostri sguardi si incrociarono per un secondo, lei sembrò non notarmi. Io invece vidi chiaramente la sua iride sinistra completamente nera.

"Cazzo" sussurrai. Non riuscivo a staccare gli occhi da quella figura esile e ricurva, sentivo il bisogno di avvicinarmi ma la paura me lo impediva. Era possibile?

"Piano, cominci a farmi male". La voce di Edward mi fece riportare i piedi a terra. Lentamente, allentai la mia presa sulla sua mano, cominciando a sentire formicolare anche la mia.

"È un altro incubo?" Domandai guardandolo, quasi come se lo supplicassi.

Lui, che non aveva ancora distolto lo sguardo dalla ragazzina, sbatté un paio di volte le palpebre. "Un ricordo" rispose. "Un tuo ricordo. Ti puoi avvicinare se vuoi, lei non può vederci".

Riportai gli occhi sull'altalena, dove la bambina era ancora immobile. Senza pensarci mossi un passo nella sua direzione, lasciando andare la mano di Edward e portando rigidamente le braccia lungo i fianchi. Ogni passo era più piccolo del precedente e quando fui davanti all'altalena i miei movimenti erano quasi impercettibili. Quella bambina aveva ormai la mia piena attenzione, non badavo più a ciò che mi circondava, niente era interessante fuorché la piccola Karin, sempre persa nel suo mondo e sempre, perennemente, sola.

Mi sedetti sui talloni, portando il mio viso davanti al suo. Le occhiaie segnavano già il volto infantile e il sole sembrava non aver mai baciato la sua pelle. Osservai la sua camicetta candida, con ancora le pieghe del ferro da stiro, e le scarpe tanto intatte da sembrare nuove. Forse era la prima volta dopo mesi che mia madre era riuscita a convincermi a uscire di casa.

"Perché siamo qui?" Domandai a Edward, che intanto mi aveva raggiunto.

"Siamo solo di passaggio. Non è questo il ricordo che voglio, ma ho bisogno di una mente più libera, nella quale la memoria è ancora intatta. Ora come ora, la tua ha eliminato o modificato gran parte del passato, è inutile sperare che tu abbia ancora certi ricordi".

Guardai ancora la piccola me, dallo sguardo assente e malinconico, e mi sentii morire. Davvero già a quell'età la mia espressione era così rassegnata? Perché non mi alzavo in piedi e non andavo a sporcare quelle scarpe perfette, ricorrendo qualche bambina? 

Afferrai le catene con entrambe le mani, portando i miei occhi a pochi centimetri dai suoi e supplicandola, con un nodo stretto alla gola, di fare qualcosa. Di sorridere. Di parlare. Di raggiungere quel bambino dalla maglietta rossa che guardavo da tutto il tempo, sperando ma non credendo per davvero che accettasse di giocare con me.

Una mano mi afferrò il polso e io sussultai, facendo cadere dalle ciglia una lacrima. Edward mi tirò in piedi, cosa che feci controvoglia.

"Andiamo" disse lui con fermezza, prima di poggiare delicatamente la mano libera su quella pallida e minuta stretta ancora sulle catene.

Un soffio freddo mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii non ero più solo me stessa.

Fissai per qualche istante il soffitto sopra i miei occhi, prima con i polmoni vuoti e poi con violenti e graffianti fiotti d'aria che mi attraversavano la gola. Percepivo il mio petto tremare per le violente palpitazioni del mio cuore. Strinsi con forza le lenzuola sotto le mie dita, chiusi un momento gli occhi e dopo aver inspirato riuscii a tirarmi seduta.

La stanza in cui mi trovavo era spoglia, essenziale, priva di ogni tocco personale. Eccezion fatta per il letto, l'unico mobile era una sedia di legno secco e grigio, rovinata in più punti e per niente stabile.

Era stata sistemata accanto alla testa del letto, leggermente spostata perché guardasse proprio questo.

La guardai con maniacale ossessione, tanto che quando allontanai lo sguardo il mio battito e il mio respiro erano tornati normali. Liberai le coperte ancora strette sotto le mie dita e feci scivolare le gambe fuori dal materasso, senza riuscire a distogliere gli occhi dalla stanza fredda e triste.

Un lungo dejavu mi faceva credere di riconoscere il luogo in cui mi trovavo, in verità sconosciuto e nuovo. Osservai infatti come quella stanza fosse sprovvista di una porta, giustificando ancora una volta il fatto come se in realtà fosse la cosa più ovvia del mondo. Pensiero che, ormai avevo perso il conto, non aveva mai ricevuto una vera spiegazione.

Volli alzarmi in piedi, ma quando la mia mano cercò sostegno sul materasso si bloccò. Sotto le mie dita non sentivo la ruvida stoffa dalle grosse trame, ma piuttosto qualcosa di morbido, liscio. Caldo. In un istante scattai via dal letto, la mia mano ritratta e il cuore che palpitava in gola. C'era una persona sul letto, una ragazza stesa esattamente dove mi ero svegliata. Le sue gambe erano dritte e il suo corpo supino, come era stato il mio. Un suo braccio poggiava come il mio sul petto. Il pallore evidenziava, come sul mio corpo, le vene verdognole e violacee, altrettanto visibili poi sul collo. Il suo viso dagli occhi chiusi era rivolto verso di me. No, non il suo, il mio viso. La ragazza sul letto aveva il mio viso. Le mie gambe, le mie mani, il mio viso. Quella ero io.

Indietreggiai, appoggiandomi di peso alla vecchia sedia, incapace di staccare gli occhi da quella che non poteva essere altri che me stessa. Provai un senso di nausea che mi fece accartocciare su me stessa, avrei voluto urlare ma se l'avessi fatto avrei vomitato.

Edward aveva fatto riferimento a un ricordo che non mi apparteneva più, ma che un tempo era stato mio, eppure io non avevo nemmeno la lontana idea di cosa stesse succedendo. Neppure uno spiraglio di una vaga memoria. Forse quella persona non era davvero me. Se lo fosse stata, avrebbe avuto lunghi capelli corvini, fini e lisci quanto sempre aggrovigliati e spenti; lei non li aveva. Dal suo capo, costretti sotto il peso delle spalle e della schiena, scendeva un folto ammasso di capelli perlacei, che sparivano sotto le spesse coperte.

Lei bianchi, io neri. Lo spettro luminoso e l'assenza di colore. Non potevo essere io, malgrado la disorientante somiglianza.

Poi, le parole di Juno furono un lampo nel ciel sereno. Cercava una persona albina. No, non solo lei, anche Edward e Jimi. Dunque era lei? La persona tanto voluta era proprio quella davanti ai miei occhi?

Non ressi un secondo di più e quando sentii la mia gola farsi acida non mi contenni. Vomitai tutto, preoccupazione e ansia insieme alla cena di quella sera. La scena che si presentava su quel pavimento fatiscente era oscena e rassicurante, forse proprio perché era l'unica cosa familiare e umana che mi si poneva davanti.

"Sai cos'è il coma?"

Sollevai piano lo sguardo, con i ciuffi corvini che mi schermavano il volto provato e con un sottile rigolo di bava acida sul mento. Edward era seduto ai piedi del letto, teso in avanti con i gomiti appoggiati alle ginocchia, in attesa di una mia risposta.

"Vaffanculo". Mi asciugai la saliva con la mano aperta. "Tu sai cos'è il tatto?"

"Scusa, immaginavo che sarebbe successo. È colpa del luogo in cui ci troviamo, siamo tra gli strati più interni dell'inconscio".

Portai il mio peso all'indietro per cercare di alzarmi senza sporcarmi, ma in un attimo di distrazione la macchia di vomito era già sparita. La cercai con lo sguardo vacuo, convinta di ritrovarmi da un momento all'altro con una mano, un piede o direttamente la testa tra i pezzi rigurgitati della cena. Il gesto mi provocò un giramento di testa e un nuovo senso di nausea e fui costretta a sedermi, vomito o non vomito.

"Dev'essere disorientante" continuò Edward, preoccupato solo di facciata. "Tranquilla, non ti sei sporcata, il pavimento è già pulito".

Non mi feci più domande, il vomito era tra i miei ultimi pensieri.

Avrei voluto guardare ancora una volta la persona sdraiata sul letto, solo guardare ancora una volta il suo viso e rassicurarmi nel vedere che avevo sbagliato, che quella non somigliava affatto a me. Lo sforzo per voltare lo sguardo era tuttavia inaccettabile per il mio persistente senso di nausea e dovetti accontentami di tenerlo dove l'avevo lasciato, puntato verso quello di Edward.

"Il coma" proseguì lui. "E' quello stato di assenza di coscienza talvolta irreversibile. Tu che invece sei a conoscenza del mondo dei sogni, puoi benissimo arrivare a capire che non è altro che l'incapacità, dovuta a diversi motivi, di una persona di tornare al mondo reale".

"E quindi?"

"Ciò che ti ho detto vale per gli umani. Per i sogni vale l'esatto contrario".

Gli occhi di Edward erano immobili, puntati nei miei. Non aggiunse altro, solo si ritrasse e poggiò la schiena contro il muro. Spostò lo sguardo con disinteresse sulla ragazza sdraiata sul letto e io mi sentii invitata a fare altrettanto. Ogni mio movimento mi pesava, dovetti trascinare le mie pupille con fatica e lo stesso feci con le mie braccia, le mie mani, il mio busto. Non riuscii a portarmi in piedi, solo mi aggrappai al materasso magro e nodoso con tutte le mie forze e mi obbligai a raggiungere il viso albino che tanto suscitava l'interesse di tutti.

Non mi ero sbagliata, quella era senza dubbio la mia faccia. Sì, meno scavata, meno provata, con meno occhiaie e visibilmente più sana, ma era pur sempre la mia faccia. Un crudele gioco di geni? Uno dei miei sette sosia sparsi per il mondo? Era impossibile pensare che quella ragazza non avesse a che fare con me.

Ma quello non era il mondo reale, era il mondo dei sogni. Più precisamente, quello era il mio inconscio.

Il mio?

Quella ragazza era dunque nella mia testa. Con un dito tremante sfiorai appena la sua guancia lentigginosa, scoprendola morbida e fredda. Il suo volto sembrava così rilassato, così... sereno, mi sentii in dovere di ritenermi la causa di questo. Probabilmente lo pensavo perché proprio anch'io percepivo il contatto con lei così familiare e rassicurante. Non avevo più il fiatone, ma il mio respiro andava in sincronia con i movimenti piccoli e lenti del suo petto.

Il mio dito salì piano e leggero, arrivando alla tempia della ragazza. Il mio cuore si fece di colpo più pesante. E se fosse stato il contrario? Se invece fossi stata io a essere quella nella sua testa?

Ritrassi velocemente il dito come se il contatto mi avesse scottata, i miei battiti si fecero più pesanti. Il sogno dal mio stesso aspetto steso sul letto stava solamente dormendo? O forse non si svegliava perché era bloccata? In un luogo che non era suo, nel quale si sentiva estranea, freddo e distante. Un immenso, persistente, enorme, opprimente incubo.

Sentii la mia gola arida, faticai a mandare giù quell'amaro fiotto di saliva che mi si era accumulato in bocca. Sbattei le palpebre calde e il movimento fece cadere le lacrime sulle guance.

"Edward". Volsi lo sguardo al ragazzo, ancora nella stessa posizione in cui l'avevo lasciato. Il suo viso mi stava già dando la risposta. "Sono il coma di questa ragazza?"

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