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14. Risposte

La paura è di natura istintiva, primordiale, tesa alla sopravvivenza e alla preservazione dell'individuo dal pericolo. Io avevo paura perché il mio pericolo era appena a un passo da me.

Indietreggiai e incrociai il suo sguardo. Non c'erano parole per descrivere quanto oscuri quegli occhi fossero, non c'era colore per dipingerli: il nero era troppo chiaro. L'ansia mi bloccava la saliva nella gola impedendomi di deglutire, si annodava fino a rendermi faticoso il respiro.

Non mi stupivo che quelle iridi fossero state presenti nei miei peggiori incubi. 

Che Edward centrasse con il mio problema era ormai una certezza, l'unico dettaglio che mi sfuggiva era il come. Non trovavo spiegazioni razionali e le sue parole erano incomprensibili.

Sostenendo quello sguardo tetro mi chiesi in che senso lui fosse il mio incubo ma non trovai una risposta.

"Sei confusa, lo so. Se saprai credermi però potrai capire tutto". Le parole di Edward dopo il lungo silenzio furono come l'inizio di uno dei miei incubi. Solo in parte consapevole che ci fosse qualcosa di strano, credevo a ciò che mi si presentava davanti un po' alla volta.

E un po' alla volta cadevo nelle trame appiccicose di una pericolosa ragnatela.

Non c'era più un confine tra realtà e fantasia, tutto intorno a me era annebbiato e assurdo. Volevo così tanto capire che ero disposta a mettermi nelle sue mani.

Lui intuì la mia decisione e mi porse la mano, che guardai con mille pensieri che mi si affollavano in testa: stavo facendo la cosa giusta? Forse mi stavo solo cacciando nei guai. Il mio braccio si alzò comunque, ma prima che il mio palmo potesse toccare il suo una voce alle mie spalle mi bloccò.

Qualcuno mi stava chiamando.

Mi girai verso la strada dalla quale provenivo, dove i lampioni illuminavano solo un marciapiede deserto. La voce mi chiamò ancora, questa volta era più forte e più chiara, e in pochi istanti una ragazza con una giacca buttata sulle spalle e i capelli rossicci spettinati dal vento fece capolino dalla curva.

Si riparava dall'aria tenendo la testa bassa, non poteva vedermi. Non mi aveva vista. Sussurrai delle scuse che mi pesarono nel petto, poi afferrai la mano di Edward.

I rintocchi dell'orologio mi scossero di colpo e io mi sentii come reduce di una lunghissima dormita. Mi guardai attorno senza capire, con gli occhi sbarrati e il cuore che mi martellava nel petto. Riconobbi all'istante il monumento alla mia sinistra e la porta medievale qualche incrocio più avanti di me: non c'era dubbio, ero nella piazza principale di Winchester. 

Il sole era pallido e completamente nascosto da una rete di nuvole piatte e grigie, riuscivo a guardarlo direttamente da quanto debole fosse. L'orologio segnava appena le tre e questo mi infuse una tranquillità irragionevole, tanto che le domande cominciarono ad assillarmi la mente solo quando cominciai a passeggiare per le vie della città. Non sapevo cosa ci facessi lì. Mi domandavo come fossi arrivata fino a là. Con gli occhi perseguitavo i passanti, che seguivo ossessivamente fino a che non scomparivano dietro le mie spalle, in cerca di spiegazioni.

Avevo solo un vago ricordo, quello di una festa a cui non volevo andare e di un vestito che forse avevo fatto male a comprare.

Le troppe domande mi appesantirono la testa fino a farmela girare, sentii il bisogno di sedermi. Girai bruscamente a sinistra e aprii di peso la porta in vetro del bar. Non avevo letto l'insegna, ma mi era sembrato che fosse 'Costa'. Barcollai tra i tavolini tutti occupati premendo con forza una mano sulla fronte, finché una chioma ramata catturò la mia attenzione.

Dimenticai il giramento di testa e, dopo un attimo di esitazione, mi avvicinai al tavolino dove era seduta la ragazza. Sebbene fosse appoggiata sui gomiti e i capelli le cadessero davanti al viso, la figura di Annabelle era inconfondibile. Mi sedetti sulla sedia vuota davanti a lei con il cuore in mano, sperando in delle risposte alla mia confusione. Ricordavo che lei non fosse andata alla festa, ma che avesse preferito starsene in camera sua davanti al computer, tuttavia la speranza non mi abbandonò.

"Ciao" la salutai, cercando di attirare la sua attenzione. Lei non si mosse di un millimetro, tenendo lo sguardo basso e le mani tra i capelli non mi permetteva di vederla in viso. Guardai sotto la cascata color carota, ma i suoi occhi erano chiusi e le labbra serrate ermeticamente. Mi ritrassi con discrezione dopo aver notato le sue sopracciglia corrugate e le guance rigate dalle lacrime.

"Vai via" sussurrò a denti stretti.

Mi sentii spaesata. Forse avevo sentito male.

"Come scusa?"

Ci fu un attimo di silenzio, poi la sentii tirare su con il naso. "Devi andartene. Altrimenti penseranno che anche tu lo sia". Borbottò quelle parole con la voce rotta, abbassando sempre più il tono fino a fischiare le ultime parole.

"Che io sia cosa?"

Lei deglutì a fatica, tirò su ancora un paio di volte con il naso e poi riemerse con il viso dai boccoli spettinati. Aveva gli occhi lucidi e arrossati, ma non rivolse a me lo sguardo. Lo puntò piuttosto sul bicchiere di carta davanti a lei e senza vederlo davvero lo prese tra le dita come un automa. "Non sto scherzando" riuscì a dire in un soffio, prima di portare la cannuccia alle labbra.

Aveva una faccia disgustata e arresa, ma bevve lo stesso per qualche secondo prima di allontanare di fretta la bevanda, coprendo con l'altra mano la tosse e gli sputi.

Mi allarmai e le tolsi velocemente il bicchiere. "Che succede? Ti senti male?" quasi urlai, vedendo però che l'attacco andava scemando con i secondi che passavano. Venni raggiunta solo in quel momento da un odore acre e forte, forse per l'alito di Annabelle che mi veniva sputato in faccia o forse per il bicchiere ormai sotto al mio naso.

Tolsi il coperchio di plastica e con orrore vidi il suo interno, ormai semivuoto, macchiato di strani segni. Il fondo del bicchiere era una sostanza nera, disgustosa a pelle, formata da una sovrapposizione di parole, parole, parole. Dove il liquido era passato per arrivare alla sua bocca ne era rimasta attaccata qualcuna. Tra le tante, appena sul bordo di carta increspata, lessi 'lesbica'.  "Che cazzo è 'sta roba?" Urlai ad Annabelle, che girò velocemente lo sguardo da un'altra parte.

Tossì ancora un paio di volte, poi deglutì con uno sforzo immane. "Devo farlo". Rigurgitò quelle parole come se stesse vomitando le stesse ingerite. "Per il mio problema... lo devo fare".

Mi sentii morire. Non poteva star parlando seriamente.

"Non dirmi che ti lasci influenzare davvero da ciò che pensa la gente!" le urlai in faccia, sia per la rabbia che per la preoccupazione. 

"Ma lo vogliono loro" sussurrò ancora, abbassando lo sguardo sul tavolino. "Osservano tutto, loro sanno... ciò che è bene per me. Quello che devo fare. Perché mi vogliono bene".

Istintivamente venni portata ad alzare lo sguardo. Mi sentii gelare il sangue. Ogni singola persona della sala era immobile, con gli occhi puntati sulla figura debole e curva di Annabelle. Erano una ventina, ma i volti ripresi su ogni faccia erano solo due, quello di una donna e quello di un uomo. Una aveva le sopracciglia ramate di Annabelle, l'altro i suoi occhi verdi. L'espressione era impassibile, ma trasmetteva la crudeltà più opprimente che avessi mai visto.

Mi girai di scatto verso la ragazza, con il sangue che bolliva nelle orecchie. "Sei stata tu a dirmi di non ascoltare gli altri, di fregarmene e dare retta solo a me stessa! Non sono forse state le tue esatte parole?!" Con un gesto di rabbia le afferrai i polsi, costringendola ad alzare lo sguardo. "Tu non sei così, non hai paura!"

Mi sentivo male, tanto male, quasi da soffocare. Gli occhi di quei due individui erano critici, trapelavano superiorità, come se fossero stati davvero capaci di stabilire il giusto e sbagliato. Ma loro in realtà non sapevano nulla, non avevano e non avrebbero mai avuto il potere di comandare gli altri. Nemmeno se si trattava di loro figlia. 

I giudizi, io lo sapevo bene, erano più importanti di quanto si potesse negare, pesano sul pensiero indipendentemente dalla forza di volontà. Ma appunto perché io conoscevo quella sensazione di inferiorità non avrei mai permesso che qualcun altro la provasse sulla sua pelle, a maggior ragione quella ragazza terrorizzata.

Lei mi guardò con gli occhi sbarrati, senza riuscire a dire una parola. Pochi secondi dopo la sua bocca si schiuse in un sorriso sincero, poi Annabelle scomparve.

Le mie mani strinsero l'aria per un istante e si chiusero subito a pugno. Rimasi impietrita. Anna non c'era più. Fissai il suo posto vuoto senza pensare, senza collegare. Capire fu una salvezza e una condanna. Mi alzai di scatto, facendo cadere la sedia dietro di me. Nel locale non c'era più nessuno.

Ritornai velocemente sui miei passi ma appena mi girai non vidi più nulla. Sentivo le mie braccia bloccate, non capivo e mi divincolai inutilmente cercando di liberarmi, scalciando e mugugnando parole bloccate da quella forza costrittrice.

"Karin, adesso calmati". Le parole mi vennero sussurrate con decisione all'orecchio e i miei arti smisero di ribellarsi. Sentii le lacrime cominciare a rigare le mie guance, nella gola i singhiozzi grattavano per poter uscire e io, che avevo dimenticato cosa fosse il ritegno, mi lasciai scoppiare in un pianto di disperazione.

Edward allentò la presa senza lasciarmi, permettendomi di bagnare il suo petto con lacrime di paura.

"E' un incubo?" riuscii a balbettare a fatica, stretta su quella giacca.

"Non il tuo. Cerca di riprenderti, avrai le tue risposte".

Riemergere dalla mia crisi fu come ricevere una secchiata di acqua gelida. L'istintività che mi aveva condotta fino a lì venne messa da parte e lasciò posto a qualcosa di peggiore, qualcosa di me stessa che avevo da sempre tentato di evitare e con cui ancora non ero capace di convivere.

Il più alto stadio della mia paura, quando questa diventava apatica.

Mi sedetti con Edward sul bordo del marciapiede. Sulla strada non c'era nessuno, eravamo completamente soli. Mi passò tra le mani un bicchiere d'acqua che portai alle labbra solo per bagnarle.

"Cos'è questo posto?" domandai in un sussurro, con lo sguardo fisso davanti a me.

Edward mi guardava, teneva d'occhio con discrezione che la mia apparente calma non sfociasse nuovamente in una crisi. "E' il mondo dei sogni".

Schioccai la lingua sul palato con sarcasmo, puntando lo sguardo altrove. Il mondo dei sogni, certo. Era così stupido che non rientrava nemmeno nelle mie possibilità. Edward si piegò in avanti e rientrò nel mio campo visivo.

"Ricordi di aver accettato di prepararti a qualsiasi risposta, verosimile o meno?"

Sospirai profondamente e mi rigirai il bicchiere tra le mani. "Hai ragione, scusa" ammisi abbassando lo sguardo sui miei piedi, stretti l'uno contro l'altro. "Hai detto mondo dei sogni?"

"È l'altra faccia del mondo, un posto astratto e mutevole dove l'inconscio umano da forma ai pensieri. Nulla in questo posto ha una razionalità o è sottoposto a leggi fisiche e per questo nulla è stabile e perenne: in fondo a questa strada potresti trovare Tokyo, oppure potresti salire una scala fino a toccare il cielo".

Guardai le mie dita rosse per il continuo sfregamento, poi guardai Edward dritto negli occhi. Non riuscivo a obbiettare ciò che diceva, non trovavo un argomento per contestarlo e sapevo già il perché. La mia vita non aveva mai avuto una spiegazione razionale e le parole che uscivano dalla sua bocca andavano a incastrarsi con la mia esistenza e diventavano un prolungamento di questa.

"Quindi... è un posto inesistente e anarchico". Constatai dopo una breve riflessione. "Le persone vengono qui e fanno quello che vogliono".

"Non è anarchico, nulla succede per caso e tutto è controllato. La mente umana non è libera di fare ciò che vuole, altrimenti avrebbe già distrutto questo posto".

"Controllato da chi?"

Lui si ricompose e sembrò diventare improvvisamente più interessato. Immaginai cosa stesse per succedere e allora ricordai a me stessa la promessa fatta prima di arrivare lì.

"Gli umani sono degli ospiti in questo posto, vivono passivamente gli stimoli che vengono loro imposti. C'è chi invece qui può muoversi in totale autonomia. Sono chiamati comunemente 'sogni' e 'incubi' e sembrano in tutto e per tutto umani, ma propriamente il loro vero mondo è questo, perciò hanno  così tanta libertà nei sogni. Loro sanno qual'è il loro compito, ovvero guidare gli umani nei loro pensieri e nei loro desideri, creando quindi gli incubi e i sogni, ma difficilmente ricordano tutto questo anche al loro risveglio. Il poco tempo che hanno per riflettere durante la giornata non lascia spazio per questa consapevolezza e spesso basta la convinzione di aver fatto un sogno strano per calmare i dubbi".

Fissai l'asfalto senza dire una parola. Mondo dei sogni, sogni e incubi. Incubi e sogni. Incubi. 

Pensavo alla mia vita e ogni secondo che passava qualcosa veniva messo in dubbio. I miei incubi. Le mie paure. I referti medici. La mia famiglia. Me stessa. Qual'era la verità? Qualcuno me l'aveva mai detta, o avevo sempre vissuto nel mio tenero mondo di bugie?

Oppure era proprio quella nuova realtà che mi era stata schiaffata in faccia l'errore?

"Come faccio a sapere che questa è la realtà?" sussurrai piano, quasi incorporando le mie parole al vento che soffiava leggero tra i palazzi. 

"Hai presente l'acchiappasogni che tenevi in camera tua?"

Annuii piano, pensando distrattamente al momento in cui Juno me l'aveva regalato e al fatto che fosse scomparso. Quasi subito però mi ridestai da quello stato di trance e  mi girai di scatto verso Edward, con il volto allarmato proteso in avanti. "E tu come cazzo fai a saperlo?"

"Mi pare tu abbia dormito serenamente dopo averlo appeso sopra alla tua testa. Pensi davvero che se i sogni fossero solo allucinazioni possa succedere una cosa del genere?" Continuò lui, noncurante della mia reazione.

Quell'atteggiamento mi fece alterare, sentii il sangue ribollirmi nelle orecchie e il respiro farsi affannoso. Scattai in piedi e lasciai che il bicchiere cadesse e si frantumasse sull'asfalto, ottenendo finalmente la piena attenzione del ragazzo.

"Ammesso e concesso che tutta sta storiella possa essere reale, ti rendi conto di quanto inverosimile è? Di quanto è tirata?" Gli urlai in faccia, sputando finalmente fuori tutte le emozioni che mi stavano lacerando lo stomaco. "Cazzo, mi stai dicendo di credere a una cosa assurda! Come la metti con Freud? Perché sai di Luke e di Lana? Come diavolo fai a sapere dell'acchiappasogni?!" 

Edward mi fissò per qualche secondo, nella più completa impassibilità. Aveva le labbra serrate e le braccia tranquillamente appoggiate sulle ginocchia, come se la mia reazione fosse una prassi scontata. "Sono un incubo e vengo ogni notte in camera tua".

Le sue parole nemmeno mi sorpresero, aprii le braccia e con rassegnazione le lasciai cadere sui fianchi. "Lo vedi? Per te è facile, parli in modo enigmatico perché sai già tutto. Io invece non ci sto capendo niente".

Un rumore secco alle mie spalle mi fece gelare il sangue per un istante. Di riflesso girai lo sguardo verso Costa, da dove una ragazza dai lunghi capelli castani era appena uscita sbattendo la porta così forte da incrinare il vetro. 

"Coline" commentò a bassa voce Edward. 

Mi girai verso di lui. "Chi?"

Lui mi fece un segno vago, invitandomi a risedermi accanto a lui, consiglio che ignorai completamente. "Nulla, per tua fortuna se n'è già andata. Devi averla fatta incazzare parecchio".

"Ma io?" Domandai confusa, guardandomi di nuovo alle spalle e vedendo la strada completamente vuota. Riportai lo sguardo su Edward, senza parole.

Un sorriso divertito si aprì sulle sue labbra, spiazzandomi per qualche istante.

"Dici che per me è facile, ma non hai idea di quanto sia in realtà complicato cercare di farti capire" si lamentò, perdendo poco a poco il sorriso e lasciando spazio alla sua solita espressione seria e pensierosa. "Ora sei una tabula rasa, devo ricordarmelo".

Presi il suo commento sul personale e lo fulminai con lo sguardo. "Potresti cominciare dall'essere meno teorico e più pratico, per esempio".

"Più pratico?" Lui sembrò pensarci su un momento, con gli occhi puntati nel vuoto. "Okay, mi è venuta un'idea" decise alla fine, alzandosi da terra. Mi porse di nuovo la mano, dalla quale però io mi allontanai con sospetto. Dall'ultima volta in cui mi ero fidata e l'avevo afferrata non avevo più capito nulla, nella mia testa giravano una miriade di nozioni scollegate e incomplete.

"Capirai veramente, ora" aggiunse lui, intuendo la mia diffidenza.

Quelle parole, ancora una volta, mi fregarono con troppa facilità. All'idea di poter dare una logica alla mia strana vita non ci pensai una volta di più e spostai con decisione la mia mano dal mio fianco alle sue dita.

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