13. Non posso andare avanti
Alzai gli occhi dal foglio e constatai che il disordine aveva raggiunto il livello inumano. Non avevo più un pavimento, solo una distesa fitta di vestiti sovrapposti e stropicciati.
Nosferatu aveva trovato un abito scuro parecchio comodo e vi si era acciambellato sopra per dormire.
Juno adocchiò il mio disinteresse per la stanza e io mi costrinsi a riportare lo sguardo sulle mie dita nere e sul disegno che esse stavano creando.
"Non sei d'aiuto".
"Ti ho già dato il mio parere, sei tu che non sai deciderti" risposi con gli occhi fissi sul foglio.
"Dire che tutti sono belli anche se non li indosseresti mai non é un consiglio, é un tentativo di evitare un minimo ragionamento".
"Juno, con il tuo fisico stai bene con tutto, cerca di non lamentarti".
Lei non rispose e io procedetti con il mio lavoro, sfumando con il dito un dettaglio. Contemplai un istante il disegno, poi strappai con decisione il foglio dall'album e lo lasciai cadere sul materasso. Non mi riusciva, non sapevo come rappresentarlo. Per la prima volta ero in difficoltà nel dare forma a un mio pensiero e la cosa mi metteva agitazione.
Mordicchiai la matita ormai ridotta all'osso mentre fissavo la carta bianca. Era troppo chiara, quello non andava bene. Non potevo rappresentare fedelmente una cosa del genere su una superficie così candida.
Juno lasciò a terra i due abiti sui quali era indecisa e si avvicinò al letto con l'attenzione fissa sulle decine di fogli. Ne prese un paio e li sfogliò con reale interesse.
"Sono tutti cavalli" sussurrò dopo aver raccolto qualche altro disegno.
"Sì" risposi togliendomi la matita dalle labbra. Qualche pezzo di legno mi era rimasto sulla lingua e grattava contro il palato. "Non lo so, dovendogli dare una determinata forma non posso che pensare al cavallo".
Juno prese l'ultimo foglio strappato e lo esaminò sorridendo. "Questi disegni sono incredibili, mettono un'inquietudine assurda. Eppure vai avanti da giorni dando l'impressione di non aver concluso nulla".
"E' così". Lasciai perdere il foglio ancora lindo e guardai Juno, ancora intenta ad ammirare l'ultimo scarto.
Era inutile, non potevo rappresentare il senso di vuoto e abbandono che quell'oscurità mi aveva lasciato dentro. Disegnare qualcosa significava dargli una forma e un peso, caratteristiche che gli incubi non avevano. Il nero poi non era abbastanza nero, tentavo di ricalcare per rendere l'effetto ma avevo sempre come unico risultato un buco nel foglio.
"Sai, il cavallo é uno dei simboli degli incubi" iniziò Juno senza distogliere l'attenzione dall'equino. "Una leggenda vuole che gli incubi raggiungano i malcapitati in groppa a un cavallo. La tua interpretazione non é infondata".
Guardai uno dei tanti disegni, il muso frontale di un cavallo con gli occhi bucati dal tratto della matita.
"Non sapevo... pensavo solo di sfogarmi, é venuto in automatico".
Lei lasciò finalmente andare i fogli e tornò quella di sempre.
"Ci sono tanti modi per sfogarsi, non solo disegnare. Potresti metterti quel vestito e venire alla festa con me e Jimi questa sera, per esempio. Urlare con la musica alta aiuta".
Con la coda dell'occhio controllai l'abito che Juno aveva scaricato sulla sedia della scrivania parecchie ore prima. Il tubino nero in pizzo mi fece subito accapponare la pelle e scossi la testa con decisione.
"No, non lo indosserò. E poi odio le discoteche".
Juno si lasciò andare di peso sul materasso e mi fulminò con lo sguardo.
"Basta con questa storia di Edward. So che l'hai preso con lui, ma é un normale pezzo di stoffa preso in un ordinario negozio della città, incubo o meno non ha nulla a che fare con lui. Basta lagne".
Mi sfilò il blocco da disegno dalle dita e lo lasciò ai piedi del letto sotto il mio sguardo annoiato.
"Sono tornata solo da un paio di giorni a scuola e già faccio fatica con venti persone in un'aula, pensi che con centinaia di corpi ammassati la cosa cambi? Oltretutto il reggaeton non mi piace e non mi metterei mai a ballare, la mia presenza sarebbe inutile" tentai di convincerla, lei però non cambiava espressione.
"Con me ogni cosa diventa divertente. Ti ho convinta a fare ginnastica a scuola, vuoi che non riesca a trascinarti in un locale?"
"Non voglio rischiare di incontrare Edward".
"Fidati, rischi di più restando chiusa a chiave in camera tua. Non andrebbe mai dove c'é la gente".
Feci per ribattere, ma Juno si illuminò e mi precedette zittendomi. "Se non vieni non ti dico quella cosa".
La fissai negli occhi sconcertata, lei invece era entusiasta e fiduciosa. Era evidente che non fosse sprovveduta come avrebbe potuto dare a vedere, sapeva su quali punti premere per farmi reagire.
"Stai scherzando? Me l'avevi promesso".
"E io rimangio tutto" si alzò dal letto gonfiando le guance con fare teatralmente drammatico, prese Nosferatu dalla montagna di vestiti e se lo strinse al petto. "Capito gatto obeso? Non diremo nulla a Karin e lei rimarrà per sempre senza risposte".
Il mio gatto sprofondò beato tra le sue braccia dando chiaramente a vedere da che parte stesse.
"Fai sul serio?"
"Io non sono mai seria".
Lei continuò a coccolare tranquillamente Nosferatu senza più rivolgermi la parola, solo tenendomi d'occhio con discrezione. Sospirai, lasciando cadere anche la matita sul materasso. "Il vestito chiaro ti sta meglio di quello blu".
La discoteca rappresentava ancora per me uno dei più grandi dubbi che mi trascinavo dietro da anni senza potere mai trovare una risposta soddisfacente.
Nei film era luogo di sfogo, dove spesso la trama assumeva una sfumatura drammatica o romantica. Stupri, droga, sballo, una sana dose di alcool e tanto, tanto sesso. Ma quello era il ritratto che il cinema aveva dipinto, quello che contribuì ad accentuare il mio disorientamento quella sera.
Vedevo solo persone, soprattutto ragazzi, riuniti nello stesso luogo con addosso il carico di stress della settimana da consumare ballando e scatenandosi. Erano divisi in molti gruppetti, ma tra questi c'erano persone che conoscevano gente di un altro gruppo e via dicendo, creando in questo modo una rete di relazioni fittamente collegata.
Era il terzo punto della mia lista Confusione. Il primo era la mia totale inesperienza di quell'ambiente.
Mi sentivo osservata, prima per il vestito dissonante con il mio stile e poi per il mio deambulare lento e traballante. Probabilmente la domanda che in molti si stavano facendo era Perché una come lei é qui? e purtroppo era ciò che mi stavo chiedendo anch'io.
"No, non ce la faccio" conclusi con un nodo alla gola, fermando la mia camminata sghemba.
Juno, con la mano stretta sul mio polso, non sentì la mia protesta ma si accorse della resistenza che stavo opponendo. Si girò nella mia direzione e mi guardò dubbiosa. "Che succede?"
"Non me la sento di entrare. Non mi sembra opportuno".
Lei inarcò un sopracciglio e contorse le sue labbra in una smorfia. "Non ti sembra opportuno... che tu stia in mezzo alla gente? Che tu provi qualcosa di diverso? Oppure che tu tenti di affrontare le paure e i pregiudizi? Avrei da ridire su ogni singolo punto".
"Non mi sento a mio agio, so già che non ballerò. Cosa dovrei fare qui allora?"
Tenni lo sguardo dritto nei suoi occhi, nemmeno quella sera coperti da un minimo di trucco. Lei sì che sembrava nel suo ambiente, portava con disinvoltura il vestito argentato e i tacchi alti. Era guardata non solo per il bell'abito o per i capelli eccentrici, ma perché sapeva muoversi in quelle scomode condizioni come se la cosa non le pesasse nemmeno.
Io avevo un bel vestito, ma era ovvio che non era l'abito a fare il monaco. La mia insicurezza traspariva da ogni poro della pelle e il mio tentativo ridicolo di nascondere l'occhio sotto un ciuffo di capelli era per l'appunto semplicemente tale.
Avrei voluto solo essere invisibile agli occhi della gente.
Juno prese anche l'altra mia mano, tutta sudata e stretta su un lembo della mia giacca. Mi guardò severa ma anche comprensiva. Quando succedeva sapevo già che non sarei stata d'accordo con le sue parole.
"Hai bisogno di distrarti, Karin. Hai bisogno di staccare e conoscere nuova gente, non puoi vivere rimurginando ogni secondo. Per questa sera prova a non pensare a nulla, al resto penseremo domani".
"Ho solo bisogno di capire qualcosa. E dei miei genitori, nient'altro".
La fermezza non abbandonò gli occhi di Juno nemmeno in quel momento. "Domani." ripeté solamente.
Domani. Perché dovevo rimandare ciò di cui avevo bisogno all'istante? Annuii lo stesso, più per concludere subito la questione che per darle ragione. Lei mi sorrise e mi riprese di nuovo per un'unica mano, trascinandomi dentro il locale notturno pieno di gente.
"Non ti ho nemmeno costretta a sistemarti i capelli e le scarpe, pensavo mi fossi riconoscente" continuò lei e io non potei fare a meno di abbassare lo sguardo sui miei piedi. Le vecchie converse grigie logore spiccavano come un pugno in un occhio accanto ai tacchi bianchi ed eleganti di Juno.
"Solo perché mi sono opposta".
"Non lamentarti".
Mi portò al guardaroba e lasciò lì la sua giacca. Io non me la sentivo di togliermela e Juno non fece nemmeno troppe storie, lasciandomi indossare quell'indumento protettivo nonostante l'aria viziata della sala mi stesse già facendo sudare.
In pochissimo tempo avvistò Jimi con un gruppo di amici e lo raggiunse con una corsetta, lasciandomi inconsapevolmente in preda all'angoscia più totale.
Non me la sentivo di raggiungerla per fare da terza incomoda, ma nemmeno di restare in mezzo alla pista completamente da sola, così mi ritirai e raggiunsi le poltrone. Era ancora presto e queste erano solo per metà occupate, quindi per un po' di tempo restare lì non mi pesò molto. Questo fino a quando, neanche mezz'ora più tardi, la pista era così piena da riversare la gente nello spazio tranquillo che mi ero ritagliata.
Mi sentivo fuori luogo, soffocata dall'ansia. Da sola occupavo un intero divanetto dove magari qualcuno avrebbe voluto sedersi. Me ne sarei andata volentieri se avessi avuto la garanzia di un nuovo posto più calmo.
Il cellulare stretto tra le mie dita sudate iniziò improvvisamente a vibrare. Subito pensai a Juno e feci per portarmelo all'orecchio, ma il numero sconosciuto sullo schermo mi paralizzò prima che potessi fare qualsiasi cosa.
Dopo pochi secondi di vuoto un unico pensiero si fece spazio nella mia mente. I miei genitori.
Scattai in piedi e mi precipitai fuori dal locale, urtando quasi tutti sulla mia via ma non girandomi neanche una volta per scusarmi. Nemmeno quando l'aria fredda mi investì in pieno schiacciai il pulsante verde: c'era troppa gente, troppo rumore.
Mi allontanai di un paio di decine di metri, poi finalmente mi fermai e con il dito tremante accettai la chiamata.
Non fu la voce rassicurante di mio padre o quella preoccupata di mia madre a chiamarmi dall'altra parte del telefono.
"Karin Price? Sono il dottor Bowie".
Rimasi in silenzio, con il fiato fermo nei polmoni.
"Non hai mai chiamato, ho bisogno di sapere se la situazione é migliorata o peggiorata".
Riagganciai e restai con lo sguardo fisso sul vetro mentre la schermata con il numero sconosciuto scompariva dalla mia vista. Non avevo né parole né pensieri riguardo a ciò che era appena successo. Lasciai che il vento gelido mi scompigliasse i capelli e mi facesse venire la pelle d'oca, mentre mi davo della stupida per non essermi accorta prima della conosciuta successione di numeri.
Cacciai il telefono in tasca, tuttavia rimasi dov'ero.
Non volevo tornare in discoteca. Non volevo nemmeno pensare. Volevo solo andare nella mia stanza, infilarmi sotto le coperte e svegliarmi la mattina dopo come se nulla fosse successo.
Mossi un piede nella direzione del dormitorio senza riflettere oltre, poi lasciai che l'altro lo seguisse a ruota.
Volevo andare in camera.
Mi strinsi nella mia giacca aperta e avanzai verso il dormitorio tenendo gli occhi bassi. Le mie scarpe affogavano nelle pozzanghere accanto al marciapiede, la tela si inzuppava, l'acqua impregnava i calzini e io non facevo nulla per impedirlo. Non le evitavo. Avanzavo con lo sguardo vago seguendo solo la strada conosciuta.
Attraversai la strada deserta e, ormai alle soglie del dormitorio, finalmente mi fermai.
La luce dei lampioni era troppo debole per annientare l'insicurezza che il buio della notte mi buttava addosso e lo sgocciolare dei rami degli alberi era amplificato dal silenzio quasi assoluto. Non era però lo scenario a farmi paura.
"E' tardi" dissi all'improvviso.
"E' tardi anche per te".
Guardai le mie scarpe fradice, cominciando a sentire davvero tanto freddo ai piedi. "Infatti sto andando in camera. Torno da una festa".
"Capisco. Non sono tipo da feste".
Alzai gli occhi e guardai Edward, appoggiato alle mura del dormitorio a pochi metri da me.
"Lo so".
Lui mi fissò senza dire una parola e io feci lo stesso. Non sembrava avere nulla da fare se non restare a ridosso del muro a braccia conserte, con il vento che gli scompigliava le lunghe ciocche di capelli e con un'espressione neutra.
In quel momento avevo davanti a me tutto ciò che conoscevo di lui: che non avesse mai nulla da fare, che raramente lasciasse trasparire un'emozione e che comparisse ogni volta che mi ritrovavo a essere da sola, ma soprattutto che giorno dopo giorno mi facesse sempre più paura. Guardai i suoi occhi illuminati dalla luce tenue di un lampione e rabbrividii.
"Dimmi la verità".
Le parole erano scappate dalle mie labbra prima che potessi rendermene conto. Me ne pentii solo per il primo istante, poi sostenni il suo sguardo con fermezza.
Lui non fece una piega, non fu sorpreso della mia domanda. "La veritá?"
"Sì". Mi massaggiai il naso che pizzicava per il freddo, poi presi un grosso respiro. "All'inizio pensavo che fosse solo una coincidenza, ma quando é diventata una regola... io conosco i miei incubi, sono parte della mia vita da quando ho memoria, non ci ho mai fatto caso, ma ora che me ne accorgo é così ovvio. Sembra una stronzata questo ragionamento, ma nessuno tranne me può farlo ed esserne sicuro, non vivendolo ogni giorno non si può capire. Sto male, senza i miei genitori non ce la faccio. Ho bisogno di chiarezza, ho tante domande e così poche risposte, voglio chiarire una volta per tutte questa storia... quindi, ti prego" la mia voce era rotta, avrei pianto se avessi potuto. "Sei tu il mio incubo?"
Edward si allontanò dal muro e mi raggiunse con passi lenti.
"Cosa ti fa pensare che io sia coinvolto in questa storia?"
"I tuoi occhi" risposi subito, sentendomi in soggezione sotto il suo sguardo indecifrabile. "Sono dappertutto. Li riconoscerei ovunque".
Lo fissai cercando di capire cosa pensasse, ma più mi sforzavo e meno di quel ragazzo riuscivo ad afferrare. Si fermò a un passo da me senza smettere di osservarmi, la cosa stava diventando insopportabile.
"Non starai mica delirando?" Commentò con tono sarcastico. Volli ribattere, ma non riuscii ad aprire la bocca in tempo. "Non inizierai mica a picchiarmi, come con Lana Anderson? O preferisci farmi impazzire come Luke Hall?"
Mi sentii sbiancare e lui si dimostrò soddisfatto della reazione ottenuta.
Le sue labbra erano appena ad una spanna dal mio orecchio e il suo respiro caldo mi causò una scarica di brividi di terrore.
"Sì, Karin. Il tuo incubo sono io".
Yey ^u^
Ammetto di essere perennemente e irrimediabilmente lenta, ma non si può dire che io non stia migliorando. Sono stata spronata per terminare le revisioni entro i primi di marzo, rido ancora malissimo perché sono a 13 capitoli su 47 ma mentre mi diverto per le vane speranze ci provo.
Quindi. Chissà, magari ce la faccio. In teoria i capitoli verranno pubblicati più spesso, in pratica chi vivrà vedrà.
Bye òwò
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro