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12. Non si può riniziare

ATTENZIONE!!

Il nome di Kaede é stato cambiato in Jimi (anche in tutti i capitoli precedenti). Mi scuso per questo cambiamento solo nel capitolo 12. Spero di non crearvi casini ^^ potete picchiarmi, volendo.

Sopra: "L'Incubo" di Johann Heinrich Füssli c:

Il bianco del soffitto era accecante, gli occhi mi facevano male, eppure non li distoglievo lo stesso da parecchie ore. O forse erano giorni? Probabilmente potevano trattarsi di pochi minuti, la concezione del tempo é soggettiva, specie nella mia situazione.

Le coperte del mio letto sfatto e disordinato coprivano solo in parte una mia gamba, ferma in posizione supina come il resto del corpo.

Non avevo freddo, non avevo caldo, non sentivo nulla, percepivo attraverso i sensi solo lo stretto indispensabile, o solo ciò che più riusciva, per quanto potesse, a liberarmi in parte dai miei pensieri.

Le lacrime non solcavano più il mio viso, che restava apatico mentre restava rivolto verso il soffitto. Non ero dominata dallo sconforto, né dalla tristezza che mi aveva sequestrato la lucidità il giorno prima, sul letto d'ospedale. Dentro me ristagnava solo un putrido e pesante vuoto, che mi costringeva contro il materasso e mi impediva di alzarmi.

Le ore che precedevano quel momento erano state per me le più disorientanti che ricordassi da quando avevo memoria.

Quella che avevo perso non era solo la mia famiglia, era la mia vita. Aveva ricompensato tutto ciò che mi era stato tolto, o ciò di cui io stessa mi ero privata, e la cosa più ridicola era che riuscii ad accorgermene quando il suo appoggio era venuto a mancare.

Avevo perso il conto di quante volte avessi provato a chiamarli al telefono. Non mi era mai stata data una risposta.

In compenso, per tentare di negare le parole del dottore, avevo perlustrato ogni centimetro della stanza, alla ricerca di quel fantomatico numero del suo studio che secondo la sua versione dei fatti mi era stato dato da mia madre. L'avevo trovato, piegato più volte su se stesso, nella cover del mio cellulare.

Quando mi era capitato tra le mani mi ero sentita morire, e la sensazione era sempre la stessa quando lo leggevo e lo rileggevo ancora una volta, due o tre, speranzosa di non trovare più da un momento all'altro quell'angoscioso contatto scritto con la calligrafia disordinata e stretta di mia madre.

In seguito non avevo fatto nulla, se non sdraiarmi supina sul letto e rimanere ferma e vigile per la notte.

Mi ero addormentata solo quando il sole, pallido e oscurato da una fitta rete di nuvole grigie, era timidamente spuntato all'orizzonte, illuminando di giorno una mattina che avrei passato in compagnia della causa della mia nuova paura: essere sola.

Il mio sonno era stato disturbato dagli incubi, che mi avevano reso il momento del riposo peggiore della veglia travagliata.

Al mio risveglio avevo rivolto con fare accusatorio la mia attenzione sulla parete sopra la mia testa, in un istante la mia rabbia era diventata sorpresa. L'acchiappasogni era sparito, al suo posto era rimasto solo il chiodo che lo aveva retto.

Non avevo avuto le forze di chiedere spiegazioni a Juno quando era entrata nella mia stanza quella mattina presto.

Sospirai profondamente, chiudendo per un istante gli occhi per inumidirli un poco. Sciolsi la mano sinistra dall'intreccio con la destra sopra il mio petto e la infilai appena sotto il cuscino. Portai alla luce soffusa della stanza l'origine dei miei intricati pensieri, lo scatto che avevo sottratto al dottore.

Sotto i miei polpastrelli gli angoli del pezzo di carta risultavano farinosi e consumati, testimoniavano la maniacale ossessione alla quale quella foto era soggetta.

L'avevo presa in mano più volte, vista e rivista, girata e messa in controluce, alla ricerca di un dettaglio sfuggito, che potesse chiarirmi la situazione. Le iridi scure di Juno avevano incastrato la falsità di quel momento, era stato il piccolo particolare che mi aveva aiutata a non credere alle parole del dottore.

Ormai ero sicura, non ero malata come il dottor Darren voleva farmi credere. Non mi ero sottoposta a quella terapia d'urto volontariamente, e la mia famiglia si era trasferita a Winchester esattamente come ricordavo. Doveva essere successo qualcosa subito dopo il trasloco, mi sfuggiva cosa e perché, ma i miei genitori erano stati allontanati contro la loro volontà. Non mi avrebbero mai lasciata da sola in un momento del genere, e questa era la mia assoluta, unica certezza.

Con il pollice sfiorai gli occhi di Juno, neri e penetranti. Erano scuri come il petrolio, falsi e inquietanti.

Ciò che mi faceva più paura era il fatto che io li avessi già visti in un mio sogno. La situazione era simile, il soggetto diverso. L'incubo sotto forma di mia sorella minore era un fantoccio con due buchi neri al posto degli occhi, che ricordavo perfettamente e con una lucidità paragonabile a un ricordo recente.

Ancora più angosciante il fatto che li avessi già da tempo collegati a una persona, che ormai ritenevo sicuramente coinvolta in quel susseguirsi di eventi incomprensibili.

Sentii la chiave della porta girare e mi affrettai a nascondere la foto sotto le coperte.

La figura di Juno sbucò dall'uscio, con una vaschetta di plastica in una mano e cianfrusaglie varie nell'altra. Si fece strada verso la scrivania con fare orgoglioso, lasciando che la porta si chiudesse automaticamente alle sue spalle.

Aveva ancora indosso l'impermeabile giallo canarino, con il cappuccio tirato sulla testa, che copriva una cascata di capelli bagnati.

Doveva essersi tolta gli stivali da pioggia all'ingresso, perché i suoi piedi erano scalzi e i jeans larghi erano stati arrotolati frettolosamente fino a sotto le ginocchia.

"Ho fatto un salto alla caffetteria. Immagino che tu non abbia intenzione di venire in mensa nemmeno sta sera, quindi ho comprato qualcosa per prevenzione" cominciò lei, appoggiando il contenitore sulla scrivania, accanto a una pila di libri scolastici. "Ho anche gli appunti di oggi. In realtà ho fotocopiato quelli di Shelly, ma il merito va a me che te li ho portati".

Cercò un posto per i fogli rinchiusi in una busta trasparente e lo trovò accanto alla colazione che mi aveva procurato, ancora intatta.

Lasciò i fogli senza staccare gli occhi dalla brioche burrosa, dalla banana ormai leggermente scura e dal tè che aveva lasciato un alone nero sulla tazza bianca.

"Cos'è 'sta storia?" Mi rimproverò voltandosi, mentre si liberava dall'impermeabile. "Neanche ieri hai toccato cibo. Potrei strozzarti con le mie stesse mani, tanto non avresti nemmeno le forze di ribellarti".

Lasciò l'indumento bagnato sulla sedia, poi si avvicinò al mio letto. Mi squadrò indagatrice, tenendo le braccia incrociate davanti al petto.

"Sei pallida".

"Sono sempre stata pallida, non so quante volte l'avrò detto".

"Dico più del solito. E poi hai delle occhiaie orribili, anche quelle peggio degli altri giorni. Hai dormito un po'?" Alzò lo sguardo sul muro, sopra la mia testa. "E dov'è finito l'acchiappasogni?"

"Non chiedermelo, non ne so niente. Non sto capendo più nulla da quando sono tornata" farfugliai, tenendo gli occhi fissi sulle mie dita, di nuovo incrociate sul mio stomaco. Le unghie erano corte e irregolari, qualche dito era anche leggermente sporco di sangue. Avevo passato la notte a pensare con le dita tra i denti, non mi ero accorta di aver esagerato. "Ma la cosa che davvero mi infastidisce é che tu non mi dica quella cosa".

Con la coda dell'occhio la vidi sussultare, ma cercò di non darlo molto a vedere e per questo si strinse ancora di più tra le braccia, assumendo un'espressione seria e autoritaria.

"Non sei nelle condizioni. Hai bisogno di tranquillità, ed é tutto ciò che quello non può darti, semplicemente non é il momento giusto".

Ancora quella risposta sfuggevole.

"No, non é vero" ribattei decisa, portandomi seduta con l'aiuto delle mani. "Non ho bisogno di tranquillità. Ho bisogno di risposte, ma nessuno qui ha intenzione di darmele, e se me le danno sono solo montagne di bugie". Sentivo gli occhi inumidirsi, la gola bruciare, le mani tremare senza controllo. "Hai aggredito un uomo. Non sono stupida, non ti conosco nemmeno da molto, ma sono sicura che nessuno reagirebbe come hai fatto tu senza un motivo. Quel dottore in pochi minuti mi ha rovinato la vita, e tu ne sai qualcosa. Devi dirmelo, devi farmi capire".

Presi un grosso respiro, alzando il viso verso il soffitto, impedendo alle lacrime che si stavano accumulando tra le ciglia di scendere.

I miei genitori non rispondevano, il medico si inventava storielle, il mio legale si era spinto solo a mandarmi per email la copia dei documenti che mi affidavano sette giorni su sette, dieci mesi all'anno, all'istituto.

Nessuno mi veniva incontro.

"Almeno tu..." riuscii a sussurrare, mentre le lacrime presero a scendere copiose lungo le guance.

Volsi lo sguardo a Juno, sentendomi inerme e tremendamente patetica. Alla fine però era solo ciò che ero davvero. Sola, incapace di trovare una via d'uscita.

Juno era scossa. Mi fissava senza aprire bocca, mentre le gocce d'acqua scivolavano dalle punte dei capelli, atterrando silenziosamente sulla moquette.

Tirò su con il naso e si pulì il viso bagnato con la manica del maglione, mentre i suoi occhi oscillavano da me al vuoto alle mie spalle.

"Va bene".

Si tirò i capelli bagnati dietro alle orecchie, sciogliendosi dalla sua posizione rigida e distaccata e assumendo un'espressione compassionevole, ma altrettanto preoccupata.

"Te lo dirò, se questo può farti stare meglio. Ma non adesso, ho bisogno di pensarci su". Si arrese definitivamente, lasciando cadere le braccia lungo il busto. "Ma non devi dire nulla a Jimi. Davvero, quando dico niente intendo seriamente niente. Come se non avessimo mai incontrato quell'uomo, come se questa discussione non ci fosse mai stata. Come se fosse tutto normale".

Mi pulii frettolosamente gli occhi con le mani, cercando di soffocare il magone che mi stringeva la gola e mi impediva di respirare. "Okay".

Juno sorrise, cercando inutilmente di nascondere quel velo di preoccupazione negli occhi.

"Fine della storia. Fino ad allora, ti dovrai impegnare a non stare troppo male. Ma soprattutto non devi credere alle parole del dottore. Credi solo alle mie, anche se può sembrare una condanna a morte". Le sue parole mi provocarono un piccolo sorriso, lei se ne accorse e ne rimase compiaciuta.

Si avvicinò al mio letto e si inginocchiò per arrivare alla mia altezza. "I tuoi non ti hanno lasciata da sola, Karin. Ricordatelo" scandì bene le parole, tenendo lo sguardo fisso nei miei occhi.

Fissando le sue iridi ambrate non riuscii a fare a meno di crederle. Quegli occhi così sinceri, quell'ingenuità che non avrebbe mai potuto celare bugie, avevano un effetto terapeutico sulla mia mente.

"Lo so. Non lo farebbero mai".

Lei mantenne il sorriso, spostò lo sguardo sulla parete vuota sopra alla mia testa e allora lentamente lo perse.

"Okay, devo seriamente asciugarmi, prima che mi becchi qualcosa". Si aiutò con le mani ad alzarsi, ma prima di dirigersi verso la porta mi lanciò un'occhiataccia, poi la lanciò alla scrivania, dove la vaschetta di cibo precotto fumava ancora. "Anche se ho da fare con il parrucchiere e con Jimi verrò a sapere se hai mangiato. Attenta a te".

La rassicurai con un cenno d'assenso, permettendo che si sentisse libera di raggiungere la sua stanza senza preoccupazioni.

Quando fui di nuovo sola sospirai e mi asciugai una seconda volta gli occhi.

Senza perdere tempo recuperai la cena dalla scrivania, portandola sul letto insieme alla forchetta che Juno mi aveva preventivamente procurato.

La confezione era già stata aperta e un profumo di pollo al curry, che prima era troppo lontano da me per essere percepito, raggiunse le mie narici.

In quel momento la mia mente aveva come priorità il pensiero dei miei genitori, e l'ansia che lo accompagnava si manifestava con un forte nodo allo stomaco, che mi impediva di provare appetito normalmente.

Lo mangiai di forza, rifilando i pezzi più grassi e nervosi a Nosferatu, che invece aveva apprezzato notevolmente il pasto alternativo dal primo momento in cui Juno aveva varcato la soglia. Aveva aspettato pazientemente che io prendessi tra le mani la vaschetta per posizionarsi strategicamente ai miei piedi, immobile come una statua.

Lasciai infine che pulisse la vaschetta dal curry, osservandolo mentre entrava direttamente con le due zampe anteriori nel sugo.

Guardarlo faceva affiorare nella mente un volto che volevo sia conoscere che dimenticare. Edward era strano, intrigante e odioso, ma soprattutto mi faceva pensare molto.

A primo impatto sembrava solo che i miei ormoni semplicemente impazzissero per via dell'età. A mente fredda e lucida invece non collegavo più il suo nome ai suoi bei lineamenti, ma a un paio di inquietanti, gelidi occhi neri.

No, non uno, due paia.

Decisi di lasciare perdere Edward. Non mi sentivo affatto riposata dopo le poche ore di sonno, avevo bisogno di dormire e di non pensare a nulla.

Raccolsi la ciotola ormai pulita e la buttai nel cestino, lasciando che Nosferatu si lavasse da solo le zampe.

Infilarmi sotto le coperte fu diverso rispetto a qualche ora prima, alla fine la mia mente si era convinta a lasciare riposare il mio corpo, stremato e desideroso di tranquillità. Servì poco per addormentarmi, mi bastò chiudere gli occhi e lasciare che i miei pensieri si calmassero.

La mattina dopo alzarmi dal letto fu più difficile del previsto. Non volevo andare a scuola, ma quella mattina mi aspettava un test che non avrei potuto rimandare. Il Natale era alle porte e solo pochi giorni mi separavano dalle vacanze, decisi quindi di fare uno sforzo.

Sentivo i jeans troppo aderenti alle gambe e la felpa troppo corta, ma presi lo stesso le chiavi e uscii dalla mia stanza. Juno non rispose ai miei battiti sulla porta e allora lasciai l'edificio senza insistere.

Dopo una corsa sotto la pioggia mi ritrovai davanti alla porta della mia classe con i capelli fradici e le dita rosse e gelate. Nonostante fossi in anticipo i miei piedi non muovevano un solo passo verso la porta spalancata. Stavo semplicemente in piedi accanto allo stipite della porta, con i pugni serrati sulla cinghia dello zaino e con il labbro tra i denti.

Lasciai passare un paio di persone di cui non mi ricordavo né volto né nome, poi approfittai di un gruppo di ragazze per nascondermi mentre scappavo verso il mio banco.

Passai le prime file adocchiando subito una testa azzurra accanto alla finestra, ma il sorriso che mi si stava creando sulle labbra si smorzò in un secondo quando vidi il banco accanto al suo già occupato.

Annabelle aveva sistemato i libri della prima ora sul ripiano ed era seduta accanto a essi con le gambe accavallate, mentre si passava tra le dita i capelli più vivi e corti di Juno. Entrambe sorridevano, entrambe erano spensierate. Volevo avvicinarmi per dire a Juno che il nuovo taglio le stava bene, invece girai nella direzione opposta e mi sedetti su un banco vuoto.

Non riuscivo a non pensare al sorriso di Juno e a paragonarlo con l'espressione seria e malinconica che il giorno prima aveva avuto per causa mia.

Non sapeva che sarei tornata a scuola e stava passando un po' di tempo con una sua amica. Aveva altro a cui pensare e io dovetti accettarlo come un peso sullo stomaco.

Il banco accanto al mio rimase vuoto. Sapevo di essere fin troppo esposta, ma la conferma mi venne data dallo sguardo del professore di fisica, che subito si concentrò su di me. Abbassai la testa lasciando cadere le ciocche di capelli davanti al mio viso e mi strinsi tra le braccia.

"Price, finalmente sei tornata dalla malattia" osservò lui dopo essersi sistemato dietro alla cattedra. Gli occhi della classe furono tutti sulla mia figura. Persi all'istante la lucidità. "Stai meglio?"

Annuii. Gli sguardi non si spostarono. Mi mancava l'aria.

"Ho sentito che sei stata in ospedale per un attacco di panico" continuò.

Sentii un formicolio al petto e il mio sguardo scivolò automaticamente verso Juno. Lei guardava avanti con l'aria svogliata. Non era possibile. Non era stata lei. Non poteva.

"Non preoccuparti, tutti sanno cos'é successo. Sei stata sui giornali per la storia della proprietà privata... mi sfugge solo perché tu neghi l'evidenza nascondendoti dietro questa bugia degli incubi".

Alzai lo sguardo sul professore. Vestiva di verde scuro e guardando il suo doppio mento e la pancia gonfia lo associai a un rospo, un viscido rettile squallido e sgradevole. Un odore putrido e stagnante in quell'aula mi impediva di pensare razionalmente e mi ritrovai a tossire. Sembrava venire dalla sua bocca.

"Non é una bugia" sussurrai in mia difesa, mentre le unghie delle mie dita si conficcavano nei palmi con forza. Juno non reagiva.

"Non lo é?"

"No. Adesso mi scusi, ma devo chiederle di lasciarmi andare in bagno". Sentivo la gola acida, forse per il rigetto o forse per quell'odore insopportabile, ma non potevo più stare lì dentro.

"E' la prima ora, anche se sei stata abbandonata dai tuoi genitori non significa che avrai aggevolazioni. Resti qui".

Ormai le mie mani tremavano e sentivo la fronte scottare. Sapevano anche quello.

"La prego, non sto bene".

"Perché hai aggredito Lana Anderson?"

A quel nome un getto acido mi risalì in bocca, ma lo costrinsi di nuovo in giù ingoiando un fiotto di saliva amara. Non potevano sapere quelle cose. Qualcuno doveva averle dette ai giornalisti. Il dottor Darren? Juno?

"E Luke Hall? Entrambi ti stavano antipatici e per questo li hai perseguitati? Dando la colpa agli incubi?"

Gli occhi mi facevano male. "Lei sta mentendo". Le lacrime che mi oscuravano la vista mi entravano in bocca. Sentivo la mia testa che scoppiava.

Una ciocca di capelli scivolò da dietro il mio orecchio e in quel momento sbarrai gli occhi. Alzai lo sguardo e seduto sulla sedia dietro la cattedra c'era un rospo scuro e verrucoso dagli occhi neri. L'enorme rettile gracidò con tono grave e io balzai dal mio posto. Nessuno aveva fatto una piega. Cercai la ragazza dai capelli azzurri, ma non era lei a sedere accanto ad Annabelle.

Con i capelli gocciolanti di pioggia e le iridi come il petrolio rivolte verso me c'era Edward.

Quando Juno riuscì a girare le chiavi nella serratura era troppo tardi e anche fiondandosi nell'atrio il danno ormai era fatto. La sua colazione era in un bagno di pioggia e il sacchetto che avrebbe dovuto proteggerla si presentava come un colabrodo.

Si liberò con stizza degli stivali lanciandoli in aria e lasciandoli cadere in mezzo alla stanza, tanto a quell'ora sarebbero dovuti essere tutti svegli. Si sfilò l'impermeabile e lasciò anche quello a terra ma non prima di aver sfilato dalla tasca il secondo sacchetto di carta.

Era riuscita a salvare dalla pioggia solo la brioche di Karin e questo le faceva passare la fame. Si sentiva in dovere di farsi perdonare per averla abbandonata la sera prima e portarle la colazione era il minimo.

Si fece strada nel corridoio tenendo orgogliosamente il sacchetto stretto tra le braccia, con un sorriso stampato sul volto. Non vedeva l'ora di mostrarle il suo nuovo taglio, aveva aspettato fino all'ultimo minuto per essere perfetta per la festa di Natale e l'attesa ne era valsa la pena.

Entrò nella stanza di Karin e la vide ancora a letto.

Non poteva permetterle di passare un'altra giornata chiusa in camera. Posò il sacchetto sulla scrivania e subito dopo notò Nosferatu rannicchiato in un angolo sotto di essa.

Si abbassò e gli tese un dito, ma lui non si avvicinò come era solito fare. Restò raggomitolato su se stesso a tremare, con gli occhi a palla e il pelo dritto. Si teneva distante dal letto.

Juno si girò verso Karin e le tolse le coperte in un colpo solo. Era in un bagno di sudore.

Con le sopracciglia aggrottate mugugnava tra le labbra secche mentre le lacrime si mescolavano alle gocce di sudore. La ragazza in piedi cercò tra le sue dita senza risultati e si sentì morire. Karin non aveva l'anello.

Juno tentò di non farsi prendere dal panico e si inginocchiò accanto al suo viso, poi le poggiò una mano sulla testa. Guardò fissa per pochi istanti, poi decise.

Le spostò una ciocca dall'orecchio e sussurrò, soffiando quanta più aria possibile con delicatezza.

Lei ebbe una risposta quasi immediata e qualche secondo dopo scattò in avanti con il respiro pesante e veloce. Si guardò intorno spaesata e appena notò Juno ebbe un sussulto, ma dopo un secondo di incertezza i suoi occhi si riempirono di lacrime e si lasciò andare a un pianto liberatorio sulla sua spalla.

Juno guardò il chiodo sul muro, poi le dita di Karin, e non trovò ciò che cercava.

Non poteva più aspettare.

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