11. Realtà
L'aria nella modesta e silenziosa stanza dell'ospedale era diventata pesante, opprimente, mi schiacciava sul materasso affaticandomi il respiro e facendomi sentire piccola e insignificante in quella questione.
Da quando il dottor Darren aveva pronunciato quelle ultime parole, nel silenzio che lo aveva seguito io non avevo fatto altro che riflettere.
Avevo pensato a ciò che aveva appena detto, più e più volte mi ero ripetuta nella mente il suo discorso, ma questo aveva così tante pieghe da non avere quasi possibilità di essere preso in considerazione. Eppure io ci avevo provato, per un momento avevo anche esitato, ma mi ero accorta abbastanza in fretta dell'infondatezza delle sue parole e mi ero anche data della stupida per averci quasi creduto.
Il dottore aspettava ancora una mia reazione, e sicuramente se l'era immaginata diversa da quella che invece gli si presentò davanti.
Portai entrambe le mani alla mia faccia, trascinando le dita aperte lungo le guance, premendo il più possibile per eliminare l'intorpidimento fastidioso.
"La prego di non prendermi in giro" asserii stanca, mentre i polpastrelli scavavano ancora nella carne della mandibola.
"Perché credi che io ti stia mentendo?"
"Perché é abbastanza evidente che ciò che dice non possa essere altro che falso. Non so perché stia facendo questo, forse vuole farmi uno scherzo per rompere il ghiaccio, ma se davvero lei segue il mio caso, allora dovrebbe sapere che prendo i miei problemi molto seriamente".
Sibilai quelle parole con molta freddezza, restando il più possibile in un dignitoso contegno.
Non volevo essere maleducata, né tantomeno insinuare di essere più competente di un medico, ma non avrei permesso che la mia debolezza venisse derisa o presa leggermente.
"La tua convinzione mi suggerisce solo che la tua condizione sia più grave di quanto pensassi".
Corrugai le sopracciglia, mentre lui allineava i fogli che aveva in mano picchiettandoli insieme sulla gamba.
Non aggiunse altro, semplicemente prese una delle buste di plastica trasparente dal blocco di carta e me la porse.
"Cos'é?" domandai dubbiosa, prendendola con cautela.
"Qualcosa che potrebbe aiutarti a ricordare".
"Cosa?" chiesi ancora, ma a quella domanda non ricevetti risposta. Già in trasparenza, attraverso il foglio opaco, avevo capito di cosa si trattasse, ma la risposta definitiva l'ebbi quando rovesciai il contenuto della busta sul letto. "Sono... foto?"
Cominciai a passarle in rassegna una a una, dando attenzione a ciascuna per non più di una manciata di secondi.
In tutte le foto, che fossi da sola o in compagnia, uno dei soggetti ero io. Erano state scattate tutte piuttosto di recente, eppure nessuna mi suggeriva un solo ricordo. Vedevo la mia figura immobile nella scena, ma non ero davvero io.
Karin che abbracciava sua sorella sul vecchio divano di Lincolshire, Karin nella sua vecchia camera che preparava le valigie, Karin e sua madre che si abbracciavano.
Tra le tante foto osservate, me ne capitò tra le mani una che catturò maggiormente la mia attenzione.
Karin e suo padre con in mano un trasportino, davanti all'entrata del dormitorio della scuola, con un angolo della foto rovinato da un dito messo sull'obbiettivo. In quella dopo, il viso allegro di Juno, vestita con il suo pigiama con gli alieni e le galassie, spuntava su un lato della foto.
Quei due scatti risalivano al giorno in cui mi ero trasferita al dormitorio, eppure non ricordavo di essermi messa in posa per farmi fotografare. Probabilmente non l'avrei nemmeno mai fatto.
"Come fa ad avere queste foto?" domandai, guardando gli ultimi scatti, che come i precedenti non mi dicevano nulla. "Quando sono state scattate?"
"Me le hanno date i tuoi genitori, non appena hanno saputo della tua crisi. Altre me le sono fatte dare dalla tua amica ieri sera".
"E adesso loro dove sono?"
Il dottore mi fissò per qualche istante, serio in volto. "A casa loro, dove sono sempre stati. A Lincolshire".
Il silenzio rispose per me. Mille parole non sarebbero bastate per rendere ciò che il mio sguardo, in quel vuoto sonoro, disse al dottore.
"Le ho detto di non prendermi in giro".
"Posso dimostrarti che ciò che ti ho detto, e che ti dirò, é la mera verità" rispose lui senza esitazione. Io lo guardai di sottecchi.
Non avevo idea di dove volesse arrivare, ma notandolo in attesa della mia risposta, accennai a un gesto d'assenso con la testa. Lo osservai mentre girava appena il busto verso i piedi del letto, dove aveva appoggiato la giacca appena era entrato nella stanza.
Prese qualcosa dalla tasca di essa, e non appena l'ebbe tra le mani si girò di nuovo verso di me e me lo porse. Inizialmente non capii cosa fosse, ma quando lo realizzai, un tuffo al cuore mi portò a piegarmi leggermente su me stessa.
Quella era la reazione che lui aveva sperato. Io con la mano stretta a pugno sul petto, il volto pallido e lo sguardo perso nel vuoto.
"Non é stato un sogno, Karin" scandì lentamente le parole, nel tentativo di ottenere la mia attenzione. Strinse tra le dita il pomello dorato che per settimane mi aveva dato filo da torcere ogni volta che dovevo entrare in casa, ritraendo il braccio che aveva teso nella mia direzione. "Mi ascolterai, adesso?"
Ciò che diceva non aveva senso. Com'era possibile che fosse venuto a conoscenza del mio sogno? Non avendo speso una parola a riguardo, era da escludere che qualcuno gliel'avesse riferito.
Ricordavo benissimo il mio incubo. Io non ero riuscita ad aprire la porta, Juno aveva fatto un tentativo ed aveva staccato di netto il corredo della serratura, che le era rimasto in mano.
Ma il tutto si era limitato a svolgersi nella mia mente, quella maniglia non poteva essere davvero lì.
Mi accorsi di stare tremando, presi bruscamente la mano sinistra con la destra e la strinsi in un pugno.
"Parla" sussurrai appena, con lo sguardo fisso sul lenzuolo.
"Non so quale sia il tuo confine tra realtà e allucinazione, ho bisogno che tu mi dica cos'hai fatto nelle ultime tre settimane".
"Mi... sono trasferita con la mia famiglia, qui a Winchester. Ho iniziato ad andare a scuola, ho conosciuto Juno e... mi sono trasferita al dormitorio a metà settimana".
Dopo aver pronunciato quelle parole, io stessa dubitai della veridicità di esse. Non perché mettessi in dubbio la mia memoria, ma dopo la maniglia la mia mente era andata in confusione, e faticavo molto a restare concentrata.
"Cosa c'é di sbagliato in tutto questo?" Domandai, con un solo sottile filo d'aria che permetteva alle parole di essere percepite appena.
"Quasi tutto. Non ti sei mai trasferita con la tua famiglia, sei qui per una cura a cui sei stata sottoposta per tuo volere" cominciò il dottore, ma io avevo già perso il senso del discorso.
"Non capisco".
Lui si sistemò sulla sedia, accavallando le gambe e ricomponendo il pacco di fogli.
"Se ti dico Lana Anderson ricordi qualcosa?"
Quel nome fu il colpo di grazia. Ripensare a quella ragazza scatenava puntualmente in me una rabbia indescrivibile, che da quando abitavo a Winchester ero riuscita a opprimere, se non a cancellare del tutto. Il fatto che fosse passato così poco tempo da quel giorno però non aiutava.
Non avevo dormito nemmeno quella notte. Un mio compagno di classe, durante l'ora di ginnastica del giorno prima, si era rotto un dito con la palla da basket, e io avevo sognato solo le mie articolazioni che si piegavano nel verso sbagliato.
Avevo resistito le prime cinque ore, durante la pausa pranzo avevo ceduto.
Mi ero appisolata sul tavolo della mensa, con il piatto di pollo al curry e cetrioli ancora intatto alla mia sinistra.
Avevo sognato ancora i miei gomiti piegarsi su loro stessi nella direzione opposta, con le ossa che scricchiolavano e i tendini e le vene che saltavano uno dopo l'altro come sottofondo alle mie grida.
Non era strano che esternassi i miei sogni, quando questi si facevano particolarmente pesanti. Lana Anderson, appena al secondo anno, aveva trovato divertenti i miei gesti spastici e i mugolii spaventati, e per ricordarli aveva pensato bene di immortalarli in un video.
Mi ero svegliata di soprassalto, con l'obbiettivo del suo cellulare a poche decine di centimetri dalla mia faccia.
Non avevo nemmeno provato a trattenermi. Le ero saltata addosso, cercavo di sottrarle il telefono e al contempo di resistere ai suoi tentativi di ribellarsi. La colpa di quel disastro era ricaduta su di me, poi sulla mia difficoltà certificata.
Il video in cui dormivo era stato cancellato, ma in circolazione ce n'era uno in cui aggredivo, senza un apparente motivo, una ragazzina bassa e carina, dai lunghi capelli biondi e dall'aria innocente e spaventata.
Quel nome lo ricordavo eccome.
"Non sei andata a scuola per un mese, dopo quell'avvenimento".
"Sì, ma subito dopo ci siamo trasferiti, e non l'ho più rivista".
"Ti sei trasferita" puntualizzò il dottor Darren, catturando la mia attenzione. Si aiutò con uno dei tanti fogli che ancora aveva in mano, porgendomelo dopo aver dato un'occhiata al contenuto. La prima cosa che notai fu sicuramente la mia firma a piè di pagina.
"Hai deciso di cambiare scuola, e pur di farlo hai convinto i tuoi genitori a venire qui da sola, alloggiando nel dormitorio della scuola. Per quanto i resoconti riferiscano, questa decisione é stata un grande passo avanti contro la tua avversione per questo genere di posti" continuò, mostrandomi appena un secondo documento, che immaginai si riferisse a ciò che, parecchi anni prima, mi aveva tenuta lontana dai dormitori, almeno fino a quel momento.
"Certo che ne hai combinati di disastri" commentò poco professionalmente, sfogliando le pagine dei fascicoli con aria interessata.
Finsi di non avere sentito.
"Non ricordo in alcun modo di aver preso una decisione del genere" risposi, tornando sul discorso.
"Ed é ciò che mi preoccupa". Lui divvenne di nuovo serio, smettendo di dare aria al mio scandaloso e preferibilmente dimenticabile passato. "Quelle foto sono state scattate nei giorni della tua partenza, sono ciò che più ti dovrebbero aiutare a ricordare".
Presi in mano ancora una volta un paio di foto, quella in cui preparavo le valigie e quella dove abbracciavo, con il volto segnato dalla serenità, mia sorella.
La mia teoria che fossero state scattate recentemente, secondo le parole del dottore, tornava. La valigia era quella che mi ero portata in dormitorio, e i vestiti che indossavo nella foto con mia madre ricordavo fossero gli stessi con i quali ero arrivata per la prima volta nella mia nuova stanza.
Solo la mia memoria era l'insormontabile piega che bloccava tutta quella successione di eventi. Non ricordavo assolutamente nulla, da quella mia fantomatica decisione di partire alla macchina fotografica che aveva immortalato la mia partenza. Niente.
Tuttavia non ebbi nemmeno la forza di contestare le sue parole, quella stessa forza che mi aveva resa scettica poco prima della sua spiegazione.
Il mio passato era costellato di allucinazioni e visioni dovute alla mancanza di sonno, che erano state più o meno gravi, ma mai una si era spinta a quei livelli preoccupanti.
Guardai la foto in cui ero con mia sorella, e sentii un tuffo al cuore. "La mia famiglia?"
"Come ti ho detto, é rimasta a Lincolnshire per motivi di lavoro. E' preferibile che tu non torni da loro, almeno fino a quando questa storia non sarà... finita".
"Questo chi l'ha deciso?"
"Tu stessa. Quando hai firmato quel foglio".
Guardai il documento nella mia mano destra, stretto tra le dita fino al punto di risultare quasi per metà stropicciato. Il nome scritto sotto a quello di mia madre e di mio padre sembrava quello di qualcun altro. Non poteva essere la stessa Karin che in quel momento guardava il pezzo di carta senza riconoscerlo.
Ciò che mi stava accadendo era di una inverosimilità assurda. Di mia spontanea volontà avevo fatto le valigie e avevo cambiato scuola, scegliendo di allontanarmi per un tempo indefinito dalla mia famiglia, unica forma di stabilità e controllo nella mia vita. Tutto il resto era stato unicamente frutto della mia immaginazione.
Era assurdo, inconcepibile. Mi conoscevo abbastanza da sapere quali fossero i miei limiti, e secondo quel resoconto li avevo largamente superati.
Qualcosa non tornava, ma non era trasparibile da ciò che mi aveva appena raccontato il dottore.
"Se fai fatica a distinguere la realtà, possiamo ricominciare con i farmaci. Aiutano molto a restare con i piedi a terra" continuò il dottor Darren, serio da fare paura.
Farmaci. Avevo smesso di prenderli per stare meglio, e in quel momento mi veniva detto che per non stare male avrei dovuto ricominciare una cura.
Non l'avrei mai permesso.
In silenzio, presi tra le dita la foto che più mi aveva confusa e mi aveva fatto pensare. Sullo sfondo, io che prendevo il trasportino con dentro Nosferatu dalle mani di mio padre. Quest'ultimo era apatico, i suoi occhi non lasciavano trasparire alcuna emozione, mentre io invece sorridevo, e gli rivolgevo lo sguardo che lui non ricambiava.
In primo piano il viso sorridente di Juno, con i capelli rossi spettinati e gonfiati dall'umidità che portava la fredda pioggia di novembre.
Non era riuscita a centrarsi nello scatto, e solo metà del suo occhio destro scuro era riuscito a ritagliarsi un angolo della foto.
É falso! Karin, non dice cose vere, é solo un bugiardo!
Mantenni lo sguardo sulla foto ancora per qualche istante, poi la lasciai cadere sul materasso.
"Non é necessario" risposi infine, incrociando le gambe sul lenzuolo. "Ho avuto un piccolo smarrimento, sono ancora stanca per l'attacco di panico che ho avuto, ma adesso, riguardando le foto... mi é tornato in mente il perché sono venuta qui. Ricordo il trasferimento, le carte, tutto".
Non alzai lo sguardo sul viso del dottore, ma dal tono della voce non era per nulla sorpreso.
"E' un ottimo segno".
"Il mio arrivo al dormitorio, Juno che non smetteva di fare foto... ricordo tutto perfettamente. Non capisco perché io sia stata così stupida da immaginarmi cose mai accadute". Mi massaggiai la fronte con una mano, lasciando che i miei capelli cadessero in avanti e mi coprissero il viso.
"Non essere così mortificata, in relazione alla tua situazione sono normali piccoli smarrimenti. L'importante é che tu adesso abbia recuperato la stabilità necessaria, da qui puoi solo migliorare".
Annuii leggermente, senza dargli una risposta.
Lui si alzò dalla sedia, recuperò le foto e i documenti, poi sostò per qualche istante al mio fianco.
"Sei sotto la mia tutela, adesso. Tua madre ti avrà sicuramente lasciato il mio numero di telefono, chiamami non appena si presenteranno problemi simili a questo. Il momento peggiore é superato, ma non dubito che altri vuoti di memoria e allucinazioni ti ostacoleranno la strada della guarigione. Mi raccomando, non esitare a contattarmi, fisseremo una seduta in un istante".
Le sue parole erano quasi meccaniche, gli uscivano dalla bocca come un discorso preregistrato. Non aveva fatto una piega davanti alla mia figura curva e silenziosa.
"Certamente".
Con un saluto cordiale e professionale lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di sé e lasciandomi finalmente libera di respirare. Avevo evitato di farlo perché non notasse i singhiozzi che, nel tentativo di controllarli, mi graffiavano la gola fino a farmi sentire il sapore del sangue.
Le lacrime che scivolavano silenziosamente lungo le guance già da parecchi minuti avevano formato due macchie umide quasi perfettamente circolari sul lenzuolo, ma almeno avevano evitato di atterrare sulla foto che, con accortezza, ero riuscita a nascondere sotto un mio ginocchio.
La presi con una mano tremante e la portai sotto ai miei occhi. Subito una lacrima cadde sulla guancia rosea di Juno.
Il suo volto, tanto caro e rassicurante di solito, in quel momento scatenava in me soltanto sudorazione fredda e tremori.
Mi asciugai il volto con il dorso della mano, liberando un singhiozzo trattenuto un po' troppo.
Cosa sta succedendo? Pensai, passando con le dita sui capelli scombinati della ragazza in primo piano. Chi sei tu? Mi domandai ancora, fermando il polpastrello dell'indice sull'iride seminascosta da un ciuffo di capelli. Juno non ha gli occhi neri.
Mi raggomitolai su me stessa, portando le ginocchia al petto e appoggiandoci sopra la testa dolorante e spaventata.
"Tutto bene, signorina? Devo chiamare un infermiere?"
La voce della signora Owen alle mie orecchie appariva distante ed estranea, non riuscii nemmeno a pensare di doverle rispondere.
La porta della stanza si aprì, e dei passi leggeri e veloci raggiunsero il letto accanto al mio.
"Martha, la ragazzina appena arrivata sta male, devi visitarla" la voce dell'anziana interruppe ancora una volta il silenzio nella stanza.
"Non si preoccupi, signora. Venga con me, andiamo a fare una passeggiata".
Seguirono pochi secondi di rumore, forse l'infermiera che spostava l'anziana paziente sulla sedia a rotelle, poi la porta della stanza si chiuse per l'ultima volta, lasciandomi sola e persa nelle mie paure.
Hola a tutte, mie piccole lontre. Sono quasi in orario, e tutto ciò mi commuove assai c:
Anche se il capitolo é relativamente corto, mi ha dato non pochi problemi, non so perché percome e percosa, ma tralasciando questo, ormai sono qui e siamo tutti happee. (La smetto.)
Insomma, il prossimo capitolo arriverà alle sette e sette del giorno sette. Chi ha capito avvisi, che gli recapito i migliori omaggi per il futuro.
Anyway, adiós.
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