10. Incubo
Varcata la soglia di casa mia, un brivido freddo che partì dal cuore mi attraversò tutta la schiena, dalla nuca fino alla fine della spina dorsale. Odiavo avere brutti presentimenti, mi svuotavano completamente la mente, lasciando spazio unicamente per l'ansia e la paura.
Mi ritrovavo in quel momento a percorrere un corridoio ormai divenuto noto con la certezza di essere nel posto sbagliato, nel momento sbagliato. I miei passi risuonavano ovattati sulla moquette blu notte, provocandomi uno stretto nodo alla gola che con la bocca secca faticai a mandare giù.
Mi guardavo attorno, eppure non riconoscevo il posto. C'era qualcosa di sbagliato, in quella casa.
«Che silenzio».
Il commento di Juno, che camminava al mio fianco, fece sussultare il mio cuore.
«Già. Non dovrebbe essere così».
Per quanto ricordassi, mio padre poteva essere già sul posto di lavoro, ma mia madre e i miei fratelli dovevano quasi di certo essere in casa.
Mi sembrava semplicemente impossibile che regnasse un silenzio simile in quel posto.
Non che credessi alla mia ipotesi, ma forse si trovavano ancora ognuno nella propria stanza, a godersi l'unico giorno della settimana in cui potevano dormire fino a tardi.
Quasi convinta della teoria, mossi i passi verso le scale con più decisione.
«Karin...»
«Aspettami qui, Juno. Vado un attimo di sopra a chiamarli». La liquidai velocemente, prima di cominciare a salire le scale facendo i gradini a due a due.
Al primo piano il silenzio era più devastante di quanto già fosse pochi metri più sotto. Avrei sbattuto con forza i piedi a terra per rompere quel velo sottile di mutismo, se solo il mio corpo non stesse tremando senza controllo e le mie gambe mi tenessero su per miracolo. La paura mi stava consumando, ma non ne capivo ancora esattamente il motivo. I miei stavano solo dormendo, nulla di più. Li avrei svegliati e quell'incubo sarebbe finito lì.
Davanti alla stanza dei miei genitori, con una formalità che non mi era propria, bussai alla porta. Le mie nocche la prima volta sfiorarono appena il legno chiaro, la seconda lo incontrarono con molta più decisione.
Strinsi la mano tremante nell'altra, per fermare quella sciocca reazione. «Mamma?»
I secondi di silenzio che seguirono la mia voce furono lenti e pesanti. Riprovai una seconda volta, con il medesimo risultato.
Deglutii di nuovo un po' d'aria con una goccia di saliva, che non bastò a inumidirmi la gola per poter parlare con la voce chiara. «Sto entrando».
Abbassai la maniglia e spinsi appena la porta. Un raggio di luce entrò nella stanza, illuminando il nulla. Spinsi ancora, fino a spalancarla del tutto e finalmente la luce incontrò il ferro del letto matrimoniale dei miei genitori. Un freddo, grigio e nudo letto, privo del materasso.
Era l'unico mobile in quella stanza.
Immediatamente non pensai di reagire, dopo aver osservato la stanza vuota chiusi solo la porta, abbassando prima la maniglia per non far rumore.
Le mie gambe mi trascinarono verso la parte opposta del corridoio, davanti alla stanza di mio fratello. Abbassata la maniglia, lo scenario era identico al precedente. Sbattei la porta alle mie spalle e corsi verso la stanza in fondo, quella che dava alla strada. La mia.
Mi feci strada nella camera con foga, lasciando che la porta sbattesse contro il muro e tornasse indietro, socchiudendosi dietro di me. Il comò, l'armadio a quattro ante, il comodino e il letto, tutto esattamente come l'avevo trovato il giorno del mio arrivo a Winchester. Vuoto, senza traccia degli oggetti che avevo lasciato.
Il tremore che si era impossessato del mio corpo era cresciuto e diventato insostenibile, le mie gambe non ressero più il mio peso e mi lasciarono cadere a terra, in ginocchio.
Nella mia testa, il disastro e il nulla.
Non riuscivo a connettere ciò che mi si presentava davanti, la mia mente rifiutava ciò che invece i miei occhi mi mostravano crudamente.
Tutte le camere erano vuote. Non poteva essere vero. Era assurdo, inconcepibile. Insensato. Impossibile.
Era irreale.
Non era altro che un incubo. Sì. Un terribile, angosciante incubo, che mi aveva fatto credere di essermi alzata quella mattina e di aver ringraziato il cielo di aver passato un'altra notte tranquilla.
Uno di quei miei soliti stupidi incubi, che non riuscivo a distinguere dalla realtà, uno di quelli che mi aveva rovinato gli anni delle elementari.
Avevo osservato con ammirazione l'acchiappasogni appeso sopra il mio cuscino, stupendomi che mi avesse protetta anche quella notte. Ma avevo sbagliato. Avevo frainteso, quell'oggetto non mi aveva salvata da un bel niente, era inutile come i miei incubi. Avevo diffidato da quell'aggeggio, ma ingiustamente poi mi ero ricreduta.
E mi ritrovavo a ricredermi di nuovo.
Nulla impediva al mio inconscio di torturarmi, nemmeno la buona volontà di Juno, e questa cosa l'avevo capita benissimo da sola, parecchio tempo prima.
I miei occhi saettavano da una parte all'altra della stanza, ma li sentivo chiaramente pesanti e stanchi. Nelle mie orecchie risuonava solo un fischio prolungato, ma almeno non sentivo più quel silenzio assordante. I miei arti non erano più miei, in quel momento io ero solo la mia mente, il mio corpo era scollegato da me e non rispondeva ai miei comandi.
La mia schiena pesava indietro, trascinò tutto il resto del mio corpo sulla moquette, senza produrre alcun suono.
Fissai il soffitto bianco per qualche secondo, prima che i miei occhi si chiudessero lentamente e mi lasciassero nel buio più nero e di nuovo nel terribile silenzio.
Quando i miei occhi si liberarono dal giogo dell'oscurità il sole era già sceso da diverse ore. Il buio pesto regnava nelle mie pupille, ogni oggetto appariva come un'ombra sformata e irreale. Faticavo ad orientarmi e la pesantezza delle palpebre non aiutava.
Per quanto avessi cercato di sollevarle, ogni secondo che restavano aperte sentivo sempre più il loro peso e percepivo che dopo averle sbattute, riaprirle risultava più difficile.
Nessun oggetto mi era familiare, nulla riconduceva il luogo in cui mi trovavo ad un posto conosciuto. I bordi dei mobili bianchi ondeggiavano insistentemente, facendosi sempre più opachi.
Prima che le palpebre si facessero troppo pesanti per essere riaperte un'altra volta, una sagoma catturò la mia attenzione. Riconobbi solo che non si trattava di un mobile, la luce tenue di una luna oscurata mi permisero di delineare tratti umani sul viso dell'individuo, ma non potei osservare altro perché caddi nuovamente nell'oscurità.
La seconda volta in cui riuscii ad aprire gli occhi la luce che entrava dalla piccola finestra era biancastra, causata dalla fitta rete di nuvole grigie che bloccavano i raggi del sole.
Il fischio nelle orecchie si era placato e i bordi dei mobili stavano al loro posto. Avevo riacquistato abbastanza lucidità per notare che non ero nella mia stanza del dormitorio, né in quella di casa mia. Alla mia sinistra, un piccolo comodino in plastica bianca reggeva solo una bottiglia di plastica ancora chiusa e un telefono, il mio.
Con uno sforzo non da poco per la mia testa dolorante girai lo sguardo a destra, dove su un letto identico al mio riposava una signora anziana con un'abbondante fascia candida arrotolata intorno alla fronte e un cerotto che occupava tutta la guancia sinistra.
Riportai lo sguardo avanti, confusa ma con già una risposta che non volli tenere in considerazione.
Le mie gambe erano coperte da pesanti lenzuoli bianchi, che soggetti allo spostamento della mia gamba si scomposero in tante piccole pieghe disordinate.
Alzare solo un ginocchio mi era costato parecchia concentrazione e troppa energia.
Non avevo idea di cosa fosse successo e la cosa mi preoccupava.
Notai in quel momento l'insistente brusio proveniente dall'altro lato della porta che si era protratto dal mio risveglio fino in quel momento. Per qualche secondo la voce femminile che dominava nel discorso si fece più alta, con tono seccato sembrò chiudere la discussione, lasciando seguire alle sue parole un lungo silenzio.
La porta in legno chiaro si aprì e con la coda dell'occhio riconobbi la figura di Juno, che senza scrupoli e con l'aria palesemente incazzata si era fatta strada nella stanza.
Lanciò la tracolla sulla prima sedia che trovò lungo il muro e in risposta al rumore secco che provocò al vecchio mobile sbattei gli occhi di riflesso.
Lei incredibilmente se ne accorse e riversò la sua attenzione su di me, tramutando in un secondo la sua espressione in stupore.
«Cazzo, sei sveglia» esclamò, muovendo qualche passo verso il letto. Poi però inchiodò e ritornò nella direzione da cui era venuta. «Non muoverti, vado a chiamare il medico. Torno subito». E così dicendo si precipitò fuori dalla porta, lasciandola spalancata dopo il suo passaggio.
Un rumore alla mia destra catturò la mia attenzione. L'anziana signora che fino a poco prima dormiva profondamente si era rigirata nel letto, ora aveva gli occhi aperti. Erano di un castano scurissimo, del colore della corteccia del nocciolo e mi fissavano con tanto calore quanto disorientamento.
«Cara, avevo paura che non ti svegliassi più» sussurrò lei, con una voce bassa e roca, mentre le rughe intorno alle labbra si accartocciavano di conseguenza ad un sorriso accogliente.
Con ancora la mente annebbiata dal sonno e la confusione che mi impediva di ragionare razionalmente, non potei fare altro che risponderle con il medesimo sorriso, senza riuscire però a dire qualcosa. Sentivo la mia gola secca e asciutta, come trafitta da mille aghi, ma deglutire mi riusciva difficile e doloroso.
«La tua amica mi ha raccontato tutto, è una ragazza tanto cara. Ieri ha litigato con il capo reparto per poter restare anche durante la notte... avessi io qualcuno che mi volesse tanto bene...»
Rimasi incantata negli occhi dell'anziana signora, abbozzando poi un altro mezzo sorriso a labbra secche. La pelle, soggetta alla tensione, sentii che per colpa della perduta elasticità si apriva in tanti minuscoli tagli, di cui non volli preoccuparmi. Avevo altro per la testa, che trascinava via la mia mente dal corpo.
«Cosa le ha detto la ragazza?»
La mia voce risultò ridicolmente simile a quella della signora, per un istante ebbi timore che prendesse il gesto come un'offesa. Lei però non perse il sorriso e senza disturbo rispose alla mia domanda, con l'entusiasmo della trovata compagnia che probabilmente aveva tanto aspettato.
«Ti ha trovata nella tua stanza, in preda alle convulsioni a quanto pare. Quando sei arrivata mi eri sembrata così pallida e smunta, che se i dottori non mi avessero tranquillizzata, avrei continuato a pensare che non saresti più tornata di qua».
In preda alle convulsioni. Non ricordavo nulla del giorno precedente, tranne che brevi tratti di un incubo che mi aveva lasciato una ferita ancora aperta nella mente.
Sapevo che c'entrava la mia nuova casa, che i miei non si trovavano e che tanto, tanto vuoto aveva riempito il mio sonno irrequieto.
Avevo avuto tanta paura, ma sentire le lenzuola morbide e vellutate appena sotto i miei polpastrelli mi rassicurava e mi ricordava che ormai era tutto finito. Ero al sicuro, nel mondo reale, e lì niente avrebbe potuto turbarmi.
Quasi sicuramente mio padre e mia madre mi avrebbero rimproverata, soprattutto mia madre, che mi aveva più e più volte ripetuto di avvertirli non appena avessi avuto problemi. La cosa non mi disturbava, anzi, non mi sfiorava nemmeno. Essere lontana dagli incubi era tutto ciò che richiedevo, non appena fossi stata fuori dall'ospedale non avrei avuto più nulla di cui preoccuparmi.
Sentivo il bisogno di mettermi seduta, la posizione statica e rigida in cui ero stata messa mi aveva quasi completamente bloccato la schiena e mi aveva causato un irrigidimento delle gambe, che sentivo solo perché mi formicolavano senza sosta.
Cercai con lo sguardo l'interruttore a comando del letto e quando lo trovai e lo riuscii a raggiungere, alzai così tanto lo schienale da portarmi praticamente seduta.
Sentivo ancora lo sguardo della signora su di me e girata la testa nella sua direzione ne ebbi la conferma. Aveva ancora la vista assente, vedevo che era sulle sue, ma in qualche modo si dimostrava parecchio interessata ad ogni mio minimo spostamento.
«Mi chiamo Carrie» sussurrò pochi istanti dopo che il suo sguardo aveva incrociato il mio.
«Karin». Mi presentai sinteticamente.
Lei mi sorrise ancora, era lo stesso identico sorriso che mi aveva rivolto pochi minuti prima. «Sei davvero una bella ragazza. Cosa ti è successo, cara? Sei arrivata questa notte?»
Restai inchiodata nelle sue iridi color nocciolo, senza trovare le parole adatte a risponderle.
Lei sostenne lo sguardo tranquillamente, con un'ingenuità caratteristica delle persone anziane. Lentamente, le sue labbra persero la forma del sorriso. I lati della bocca scesero e i denti bianchi ma smussati scomparvero dietro la carne rossa e stropicciata. «Qual'è il tuo nome? Io sono Carrie».
Il mio sguardo si alzò dagli occhi della signora, fino ad arrivare sulla fronte, dove alcuni riccioli bianchi ribelli spuntavano da sotto la spessa rete di trame della fascia candida stretta intorno alla sua testa. Scesi di nuovo lentamente sugli occhi, velati da quell'oscurità che fino a quel momento non ero riuscita a notare.
Le sorrisi, questa volta sinceramente, sperando che la mia reazione la rassicurasse.
«Mi chiamo Karin. Sono arrivata ieri, ho avuto solo un piccolo crollo fisico».
Lei annuì, non troppo convinta, ma prima che potesse aprire nuovamente la bocca nella stanza entrò una donna, seguita a ruota da Juno. La dottoressa era una donna sicura di sé, dalla carnagione chiara e con i capelli biondi tenuti in un carré ordinato e professionale.
«Buongiorno signorina Price. Sono la dottoressa Campbell» mi disse una volta avvicinatasi al mio letto, stringendo tra le mani una cartella clinica e una penna. Si volse poi velocemente verso l'anziana, che guardava incuriosita la scena. «Buongiorno, signora Owen».
La donna mostrò un'altra volta il suo sorriso ancora quasi perfetto, indicandomi con un dito con soddisfazione. «Lei è Karin».
«Lo so, grazie» rispose lei, cordialmente. Poi si girò di nuovo nella mia direzione, dando un'occhiata veloce al foglio ancora quasi del tutto bianco che aveva fra le mani. «Allora, vediamo...»
Dopo pochi istanti appoggiò la cartella sul comò, riversando le sue attenzioni su di me. Juno intanto aveva preso posto ai piedi del letto, osservano con maniacale attenzione i gesti della dottoressa.
Lei afferrò delicatamente il mio polso e attese qualche secondo in silenzio, poi prese dalla tasca del camice una piccola pila.
«Senti per caso qualche rumore fastidioso, un fischio o qualcosa del genere?» Mi chiese, puntandomi la luce prima in un occhio e poi nell'altro.
«Non più».
La dottoressa Campbell fece ancora qualche controllo, per poi recuperare la cartella e annotare qualcosa sopra. Io la osservavo in silenzio, aspettando che finisse i suoi esami con calma.
«Hai avuto un piccolo attacco di panico, nulla di troppo preoccupante» disse finalmente, mentre con la penna tracciava ancora parole incomprensibili sul foglio. «I battiti sono regolari, e c'è risposta riguardo alla sensibilità luminosa. Sei solo disidratata, ma dopo una piccola flebo nutriente stabilizzerai anche gli zuccheri nel sangue».
«A-aspetti» balbettai subito, prima che finisse di scrivere e potesse decidere di lasciare la stanza. «Non è necessaria la flebo. Davvero. Posso bere da sola, le prometto che berrò quanto occorre».
Se mi avesse misurato il battito cardiaco in quel momento, probabilmente l'avrebbe trovato largamente sballato. Al solo udire della parola flebo, avevo sentito un calore improvviso impossessarsi del mio corpo e la sudorazione era aumentata di colpo.
Io non avevo paura degli aghi, non li sopportavo letteralmente sia fisicamente che mentalmente. Ogni volta che durante un ricovero era stata necessaria la flebo non ero riuscita a muovere un solo muscolo per giorni, nemmeno per andare in bagno. Le articolazioni mi si gelavano, non si spostavano di un millimetro.
La dottoressa alzò lo sguardo dal foglio, perplessa. «Devi bere una grande quantità d'acqua e integrare parecchi sali minerali e vitamine... dovresti fare una colazione davvero sostanziosa, non so se riusciresti a reggere...»
«Reggo» tagliai corto, allungando una mano verso la bottiglietta d'acqua accanto al mio telefono. «Comincio da subito».
Lei restò un paio di secondi a fissarmi, poi abbassò nuovamente lo sguardo sul foglio, annotando le ultime cose. «Va bene, ma se a fine giornata l'alimentazione non fosse stata sufficiente, mi troverò costretta a riabilitarti con la flebo. Lo faccio per te».
Annuii, scartando subito quell'angosciosa possibilità, e subito mi accinsi ad aprire la bottiglietta e a portarmela alla bocca. Buttai giù tutto a grandi sorsi, senza respirare, vuotando in poche decine di secondi il recipiente, non prestando attenzione alla mia gola che pungeva e chiedeva magnanimità.
Finito il liquido, riposi accuratamente la bottiglietta accartocciata su se stessa sul comò, accanto al mio cellulare.
La dottoressa aveva finito di scrivere e guardava il foglio con attenzione.
«Il tuo occhio sinistro non sta guarendo?» domandò, mentre le sue pupille seguivano linee di testo stampate fittamente.
«Non lo so» ammisi, la mia voce risultò subito più chiara e limpida. «Sono circa quattro anni che non prendo più farmaci, ma la pupilla resta sempre la stessa».
Lei sospirò, lesse le ultime parole e riportò la cartella sotto il braccio sinistro. «Non posso dirti nulla a riguardo, solo il tuo medico sa esattamente la tua situazione. Lasceremo fare a lui».
Alle sue parole non riuscii a non meravigliarmi.
«Ho un medico?»
«Sì, dovrebbe essere qui a momenti, potrai soddisfare ogni curiosità, dal momento che il dottor Bowie segue il tuo caso da tempo».
«Bowie?»
Il mio sguardo e quello della dottoressa ruotarono all'unisono verso Juno, ancora seduta a gambe incrociate ai piedi del letto. Aveva la sorpresa stampata in volto, ma dopo essersi accorta dei nostri occhi puntati sulla sua figura lo fu ancora di più.
«Ho... parlato ad alta voce?» Sussurrò imbarazzata, ancora soprappensiero. «Scusate, è che devo averlo confuso con un vecchio conoscente. Il mondo non è così piccolo, dopotutto». Si grattò la nuca distrattamente, terminando il discorso con una risata nervosa.
«Arriverà a minuti». La dottoressa concluse il discorso ricacciando la penna nel taschino del camice, senza prestare attenzione a Juno. Lasciò poi la stanza, facendo un cenno cortese di saluto alla signora nel letto accanto al mio, che ricambiò con un voluminoso e amichevole gesto con la mano.
Juno, dal canto suo, non dimostrava un accenno di allegria nello sguardo.
Teneva gli occhi bassi, sulle sue dita che tormentavano il lenzuolo candido, questo già da prima che la dottoressa lasciasse la stanza. Era seria, troppo, lo era diventata ancora di più dopo la sua ultima uscita, che l'aveva costretta ad abbassare lo sguardo e a non rialzarlo per parecchie manciate di secondi.
Quando alzò lo sguardo, sussultai. Avevo un brutto presentimento.
«Karin...»
La porta della stanza si spalancò di nuovo, fermando bruscamente le parole di Juno. Sull'uscio era comparso un giovane uomo, circa sulla trentina, dai lunghi capelli biondo scuro tenuti indietro da una piccola molletta e con una leggera barba di due giorni che gli copriva la mandibola squadrata.
Non indossava il camice, ma una camicia azzurra e un paio di pantaloni scuri, al collo aveva una cravatta blu scuro. Era alto e ben piazzato, davvero un bell'uomo, ma con uno sguardo che mi fece gelare le ossa.
Un'infermiera di origine sudamericana era al suo seguito, ma una volta nella stanza lo precedette e si avvicinò rapidamente al mio letto, sotto lo sguardo curioso della signora Owen.
«Ciao Karin. Lui è il dottor Bowie, il medico che si occupa di te da quando ti sei trasferita. Ti affido a lui, avrete molto di cui parlare». La voce della donna era bassa e i suoi occhi spenti. Ebbi l'impressione che stesse provando pietà per me, ma non riuscii a guardarla in viso ancora per sufficiente tempo per capirlo, che lei si rivolse a Juno.
La ragazza seduta ai piedi del mio letto aveva perso tre tonalità di colore. Non riusciva a distogliere lo sguardo dal dottor Bowie, era quasi pietrificata.
L'infermiera le prese delicatamente il braccio e la invitò ad alzarsi, cosa che Juno fece senza alcuna resistenza, tenendo con attenzione nel suo campo visivo il dottore dallo sguardo freddo e apatico.
«Mi dispiace, ma non puoi restare dentro». La invitò ad uscire la donna, accompagnandola alla porta.
Gli occhi di Juno erano incollati al viso del dottore e quando quest'ultimo ricambiò lo sguardo, in un secondo lei si risvegliò dal suo stato di trance. Si liberò dalla presa dell'infermiera e un istante dopo aveva le mani strette sul colletto del dottore, con i denti digrignati e gli occhi iniettati di sangue.
«Tu». Sputò le parole in faccia a quell'uomo con una rabbia che non era mai stata sua, che non le avevo mai visto impressa sul volto. Fissavo la scena senza capire, incredula e con il cuore che mi martellava nel petto. «Brutto bastardo!»
L'uomo non rispose all'aggressione di Juno, nemmeno quando le dita della ragazza stringevano talmente sul suo collo che le nocche delle sue piccole mani erano diventate bianche come il muro.
L'infermiera reagì velocemente, allontanando di forza Juno dal dottore. «Cosa ti prende? Stai ferma!» Le prese i polsi e li strinse nei suoi pugni, incrociando poi le braccia di Juno sul suo stesso petto per limitarne i movimenti.
Gli occhi di Juno saettarono verso di me. «Non ti fidare di quest'uomo, Karin! Non ti fidare!» Mi urlò dietro, mentre dimenava le spalle per tentare di liberarsi dalla presa della donna.
Quest'ultima strinse la presa, trascinando Juno verso l'uscita. «Fuori di qui, immediatamente!»
Juno cominciò a scalciare con foga, ma la donna era alta e robusta e la sollevò senza problemi.
«È falso! Karin, non dice cose vere, è solo un bugiardo!» Riuscì a urlare Juno, prima che nella stanza irrompessero altri infermieri, che la immobilizzarono e in un secondo riuscirono a portarla fuori, chiudendo la porta e facendo piombare il silenzio.
Solo il respiro pesante dell'anziana signora, che nel frattempo si era riaddormentata, spezzava il vuoto sonoro. Mi resi conto di essere scattata in avanti durante la scena dell'aggressione di Juno, le mie gambe non erano più sotto le lenzuola ma al fianco del letto e il busto era stato spinto in avanti dalle braccia.
Non avevo idea di cosa fosse appena successo.
Juno non aveva mai fatto così. Qualcosa non andava.
Il dottore, che non si era minimamente scomposto, mosse il primo passo verso me, catturando la mia attenzione. Quando mi fu davanti mi porse formalmente la mano, abbozzando a un sorriso professionale. Aveva gli occhi freddi come il ghiaccio, gli stessi che mi avevano pietrificata quando era entrato nella stanza.
«Piacere, sono il dottor Darren Bowie».
Come se niente fosse.
Fissai la mano per qualche istante, poi rialzai lo sguardo. «Cos'è successo?»
«Non lo so. Non conosco quella ragazza, ma non mi sembrava il caso di agire aggressivamente. Ha avuto solo un momento di smarrimento».
«Però sembra che Juno la conosca. Chi è lei?»
«Il tuo medico, te l'hanno detto».
«Non è possibile, il mio medico è la dottoressa Nissen, mi segue da quando avevo dieci anni».
Il dottor Bowie rimase qualche secondo con la mano sospesa in aria, ma dopo aver preso coscienza che la mia diffidenza non mi avrebbe alzato la mano fino alla sua la riabbassò. Prese la sedia dall'angolo della stanza e la portò fino al fianco del mio letto, si sedette e sospirò.
Rigirò tra le mani una busta di carta marrone e me la mostrò.
«Quando sei venuta qui ad abitare, i tuoi genitori hanno cambiato il tuo medico, e questo è il resoconto di sedici anni di sedute e visite che la dottoressa Nissen mi ha procurato. Non ha senso mantenere un medico, quando questo è a quasi trecento chilometri di distanza».
«I miei non mi hanno detto questo».
«Karin. Sai cos'hai avuto, ieri mattina?»
Il cambiamento di argomento mi lasciò perplessa, ma preferii non confrontarmi più su quell'assurdo argomento. I miei non mi avevano avvertita sul fatto che avessi cambiato medico e ciò mi rendeva nervosa. Sapevano benissimo che non volevo in alcun modo medici maschi, eppure non avevano dato retta al mio unico parametro di scelta.
«Uno dei miei soliti incubi. E un attacco di panico come conseguenza» risposi, seccata.
Lo sguardo del dottore si faceva pressante sulla mia figura ricurva e riservata, questo aggiungeva ansia alla mia già complicata situazione.
«Vuoi sapere cos'hai realmente avuto?»
Le sue parole mi spiazzarono. La dottoressa, quando mi aveva visitata, aveva parlato di un attacco di panico. Io ricordavo quasi perfettamente di aver avuto un incubo, la notte prima.
La sua fu una domanda retorica, perché non aspettò la mia risposta per parlare.
«Una preoccupate allucinazione, ecco cosa hai avuto. La tua malattia è peggiorata al punto di averti procurato una visione dietro l'altra, distorcendoti la realtà e facendoti vedere cose che non esistono. I tuoi genitori, per esempio. Non c'è stato nessun incubo, ieri mattina ti sei infilata in una proprietà privata, fortunatamente disabitata da tempo, ed è stato lì che hai avuto l'attacco di panico. Sei stata ritrovata dalla tua amica in una stanza della casa, in preda alle convulsioni. Sei stata portata in ospedale».
Mi guardò di sottecchi, tenendo d'occhio la mia espressione confusa, tuttavia per nulla sconvolta, aspettandosi forse una reazione meno apatica.
«Questa è la realtà».
Sono una persona incoerente, mi avete beccata .-.
Sì insomma, con l'inizio della scuola il mio tempo libero é diventato la metà della metà della metà, c'é un rimando all'infinito, il movimento non esiste.
*A Zenone piace questo elemento*
Ecco, chiedo venia.
Questo capitolo era diventato troppo, troppo lungo, concluso sarebbe diventato di 7000 parole, un po'tantine eh
Quindi, ho dato un bel taglio alle parole, facendolo diventare apprezzabile.
Spero vi sia piaciuto c: il prossimo é già a metà, non dovrei metterci tanto a finirlo, ma adesso che ve l'ho detto e l'ho chiamata, ci vediamo a Natale.
Happy New Year.
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