1. Braccata
I metodi per sfogare i propri sentimenti sono molti. C'è chi si esprime con la danza, chi suonando o cantando, chi semplicemente picchiando il proprio cuscino e lanciandolo contro la parete, urlando e piangendo.
A me la psicanalista aveva consigliato di disegnare.
Ciò che la mia mano produceva non era soggetto a critiche, non poteva essere quindi né brutto né bello, né artistico né banale, ma semplicemente vero. All'inizio mi sembrava più difficile dei pensieri a cui avrei dovuto dare forma perché pensavo dovesse avere un senso. Una giornata felice era per me un fiore, una triste una pioggia, una pigra un gatto.
Ma il mio disegno non doveva avere significato per gli altri, era solo mio e in qualità di artista, soggetto e giudice qualsiasi tratto avrebbe avuto un significato.
Dal momento in cui lo capii compresi il rimando terapeutico che una striscia su un foglio bianco mi procurava e perfino in una posizione scomoda come mi costringeva un viaggio in macchina non trovai altro sfogo che quello.
Avevo scelto la mina di una matita molto morbida e il tratto lasciato era scuro e grosso, per nulla elegante e ricercato. I segni erano sconnessi e disordinati, alle curve avevo alternato senza criterio righe che avrebbero dovuto essere dritte ma risultavano solo spezzate e storte. La mano che stringeva la matita era chiusa a pugno come quella dei bambini e il dorso del palmo strusciava sul pezzo di carta confondendo le linee e sfumandole, prendendo sempre più una tonalità metallica.
Mi fermai un istante a contemplare il risultato: un gigantesco gomitolo di grafite, così rimarcato da sembrare nero; nella zona centrale un grande buco attraverso il quale si intravedevano i miei jeans grigi spiccava come un pugno in un occhio.
Lo intitolai "trasferimento".
Distolsi lo sguardo e lo puntai altrove, fuori dal finestrino. Il paesaggio scorreva velocemente e io mi lasciavo alle spalle tutto ciò che conoscevo. Davanti a me c'era solo una strada mai percorsa e troppo dritta, come se fosse stato necessario ricordare che l'obiettivo da raggiungere era decisivo e non si poteva più tornare indietro.
Ero incastrata tra un futuro incerto e un passato da cui scappare e la macchina era il mio unico rifugio.
Sentii la matita muoversi tra le mie dita. Il malfattore steso sulle mie gambe cercava attenzioni, le lunghe ore di inerzia lo avevano stressato e aveva pensato bene di sfogarsi rosicchiando il pezzo di legno ormai consumato.
Sfilai dai denti del mio gatto la matita, poi però gli stuzzicai il naso con la punta di questa, aizzandolo.
Il norvegese nero e bianco si infervorò per un istante ma preferì lasciar perdere la questione ritirando prevedibilmente il muso baffuto tra le pieghe della mia giacca. Affondai la gomma rosa quasi inesistente nel pelo folto del gatto, ma questo non volle saperne di reagire. Provai a insistere avvicinandomi al suo orecchio e sussurrando «Hey, Nosferatu...», ma non rispose nemmeno al suo nome. Eppure avrei dovuto essere abituata alla sua voglia inesistente di affrontare la vita.
In quel momento la macchina inchiodò facendo saltare tutti, compresa la mia matita che volò sotto il sedile anteriore.
Solo Nosferatu, affondando le unghie nelle mie cosce, non si mosse di un millimetro.
Imprecai di riflesso, ma non appena la troppa aria mi schiacciò la zona addominale un getto acido risalente dallo stomaco mi costrinse a serrare la bocca con entrambe le mani.
«Karin!» Sbottò mia madre automaticamente, girando il busto nella mia direzione. «Ti ho già detto che non voglio sentirti dire queste parole».
«Non mi sembra che questa frenata non avesse qualcosa di cui potersi lamentare, qui dietro c'è qualcuno che soffre di mal d'auto».
Lei mi squadrò un momento, sopracciglio destro rigorosamente alzato con quel fare altezzoso che sia io che i miei fratelli avevamo malauguratamente ereditato. Le sue iridi castane scivolarono dal mio viso all'album da disegno stretto nella mia mano, per essere poi puntate sul cruscotto.
«Dillo alla capra al volante della macchina davanti, le stavamo per andare addosso.» Indicò con un gesto di stizza l'auto bianca che ci precedeva, mordendosi il labbro inferiore per non commentare la guida sconsiderata dell'autista. «Se poi non disegnassi in auto non avresti questi problemi».
Avrei voluto ribattere, ma sentii qualcosa risalirmi dallo stomaco e per un attimo pensai davvero di poter vomitare da un momento all'altro.
Il finestrino alla mia sinistra cominciò ad abbassarsi lentamente facendo circolare il vento gelido di novembre per tutta la macchina. «Prendi dell'aria fresca, ti farà bene» fu il saggio consiglio di mio padre.
Mi appoggiai priva di forze sullo sportello della macchina e sebbene la brezza fosse così pungente da dar fastidio mi sentii subito meglio.
Chiusi gli occhi e inspirai profondamente, godendomi l'aria che la mia stagione preferita mi stava offrendo.
Ero parecchio spaventata dal fatto di dover cambiare scuola e i miei non mi aiutavano per niente.
Al contrario, avevano avuto la bella idea di mandarmici direttamente il giorno dopo, così da farmi ricevere lo shock del trasloco e della nuova scuola tutto in un colpo, come si strappa un cerotto.
Rapido e indolore, quello mi avevano detto. Come no.
Un lamento alle mie spalle mi riportò indietro dai miei pensieri.
«Mamma...» a quanto pare Jennifer si era svegliata. «Devo fare pipì».
«Anch'io» mi aggregai rientrando in macchina. «Quanto manca? Ho anche fame, sono ore che non facciamo una sosta».
Mia madre si girò e mi fulminò con lo sguardo.
«Hai diciotto anni abbondanti, Karin, ritengo che tu sia capace di tenertela». Eccola, severa e rigida come sempre. «Jenny siamo quasi arrivati, cerca di resistere ancora un po'. Ecco, guarda, si vede casa in lontananza, manca poco».
Mi sporsi in avanti, oltre al suo sedile, con gli occhi puntati sulla strada.
Le prime case di Winchester fecero capolino da dietro un boschetto, seguite da tutto il resto della città.
«Ormai siamo arrivati, tra cinque minuti siamo a casa». Mio padre sorrise a Jennifer dallo specchietto retrovisore.
Sul volto assonnato di mia sorella di tre anni cominciò a splendere un accecante sorriso che le fece improvvisamente dimenticare il bisogno di andare al bagno.
«Tesoro ti prego guarda la strada, non vorrei lasciarci la pelle proprio ora che siamo arrivati» gli fece mia madre e lui rispose sorridendo pure a lei per tranquillizzarla.
Sorrisi vedendo che mio padre non si lasciò intimorire dall'occhiataccia che gli venne rivolta, ma piuttosto ribadì il concetto picchiettando con il dorso del dito sul naso di mia madre.
Il sergente freddo e professionale nelle vesti di sua moglie gli voltò le spalle e si affacciò al finestrino per nascondere un sorriso, tradito dal riflesso del vetro.
Non biasimavo il suo cattivo umore.
Io ero spesso stata per lei fonte di delusioni. Mia madre aveva sempre sperato che passassi fuori casa ogni pomeriggio in compagnia delle mie amiche, o che un giorno presentassi a casa un aitante pezzo di giovane quale il mio ragazzo, con un fisico da atleta, abilità mentali sopra la norma e, conoscendola, magari pure un lavoro.
Ovviamente niente di tutto questo era mai successo. Il trasferimento significava tanto per lei, sperava davvero che si rivelasse una nuova opportunità per la mia vita scolastica.
Spostai lo sguardo su Warren, alla destra di una Jennifer che si agitava sempre di più.
Capelli neri e mossi lunghi fino alle spalle, stessi occhi castani di mia madre, barba quasi inesistente sulle guance e cuffie perennemente nelle orecchie con tre o quattro piercing su ciascuna.
Mia madre lo descriveva sempre come un "bellissimo ragazzo con grandi potenzialità ma che non si applica e perde tempo dietro alla musica". Le grandi potenzialità non le vedevo, era solo un dispettoso fratello scansafatiche che fungeva da zavorra in casa da quando aveva finito le superiori, ovvero da tre anni.
L'unica cosa che riconoscevo era che il tempo che aveva passato dietro alla musica tra chitarre e bassi non era affatto stato perso, perché se c'era una cosa in cui Warren era bravo era sicuramente la musica.
Questo però non toglieva il fatto che fosse un antipatico e una zavorra.
Ormai mia madre aveva rinunciato a provare a convincerlo ad iscriversi ad una buona università, ma soprattutto avendo usato come compromesso al trasloco chitarre e compagnia di ottima qualità non era nella posizione di controbattere.
L'unica in cui riponeva ancora salde speranze per un futuro florido e dignitoso era proprio mia sorella minore.
Forse era per questo che era cresciuta viziata, servita e riverita.
Riportai lo sguardo fuori dal finestrino, dove ormai le case e gli edifici scorrevano uno dopo l'altro appena a bordo strada.
La macchina svoltò poco dopo e si fermò davanti a una delle tante case a schiera appena fuori dal centro. Non aveva nulla di speciale, non era male ma nemmeno particolare.
«Eccoci qui, siamo arrivati a casa» esclamò soddisfatto mio padre, visibilmente stanco dal lungo viaggio.
Warren si decise finalmente a togliere una delle sue perenni cuffiette e guardò la casa senza il minimo accenno di emozione.
«Sembrava più bella in foto». Fu il suo unico commento.
«Perché la foto è stata fatta d'estate, c'era un bel sole, in inverno non c'è la stessa luce. Vedrai, ti piacerà, soprattutto perché avrai una stanza abbastanza grande per tutti i tuoi strumenti. Non dovrai più tenerli nel ripostiglio» lavorò di psicologia mio padre dopo aver spento l'auto e come da sua previsione ottenne i risultati sperati.
«Ci sta» si tranquillizzò mio fratello togliendo anche l'altra cuffia e uscendo dalla macchina.
Mia madre lo seguì a ruota, ma non prima di avermi affidato il compito di slacciare la cintura del seggiolino di Jennifer.
Ci misi un'eternità, soprattutto perché mia sorella aveva riacquistato tutte le energie perse durante il viaggio in un solo istante e sembrava impossibile tenerla ferma.
Uscimmo per ultime dalla macchina e notai con un certo sollievo che i camion dei traslochi erano già arrivati.
Seguita dal mio gatto raggiunsi i miei genitori, che si erano già messi a scaricare il primo camion. Adocchiai il mio zaino, dove avevo messo tutte le cose più importanti, me lo caricai in spalle e feci per dirigermi verso la porta già aperta della casa, ma mia madre mi fermò all'istante.
«Dove credi di andare, tu? C'è un sacco di lavoro da fare» mi rimproverò con le mani sui fianchi. «Coraggio».
I tre camion stracolmi della vita che avevo vissuto fin'ora mi guardarono minacciosi e io mi sentii mancare. Avremmo dovuto lavorare fino a sera tardi per portare tutta quella roba in casa.
Mio padre però divenne improvvisamente la mia salvezza.
«Dai Wendy, lasciala visitare la casa. Dopotutto domani sarà il suo primo giorno nella nuova scuola, deve ambientarsi» mi difese lui.
Mia madre fortunatamente si arrese subito senza protestare, approfittando però per scaricarmi tra le mani un pesantissimo scatolone con su scritto CUCINA a caratteri abnormi.
Mi trascinai a fatica oltre la porta d'ingresso e scaricai lo scatolone appena vicino all'uscio. Libera da quel peso immane proseguii nel corridoio con Nosferatu appena dietro che zampettava già sfinito dalla camminata più lunga di tutta la sua vita.
Al piano terra c'era una cucina piuttosto semplice con il pavimento a scacchi neri e bianchi, un bagno abbastanza grande e un salotto grande quando la cucina con una parete ricoperta da grosse librerie. Nulla di particolare. Salii le scale in legno scuro e arrivai al primo piano, dove c'era un altro bagno un po' più piccolo e quattro stanze da letto, una già presa da Warren.
Entrai in quella appena a fianco a quella di mio fratello e me ne appropriai.
La camera non era molto grande, però il letto era a due piazze e l'armadio a quattro ante dello stesso legno scuro delle scale era parecchio spazioso e finemente decorato.
Oltre a questo c'era anche un comò, una scrivania e un comodino alla destra del letto.
Lanciai lo zaino sul letto e mi guardai intorno entusiasta.
Era carina e mi sentivo particolarmente a mio agio lì dentro. Poteva funzionare.
Invece di sdraiarsi subito sul mio letto, Nosferatu cominciò ad andare avanti e indietro per la stanza con fare irrequieto. La percorse un paio di volte prima di fermarsi davanti alla porta finestra rivolta verso la strada, dalla quale si sentivano un paio di voci sconosciute.
Uscii sul terrazzo di camera mia e guardai in giù, sulla strada, dove i miei genitori e quattro persone, due donne e due uomini, parlavano allegramente. Immaginai dovessero essere i vicini, probabilmente i proprietari delle case sulla destra e sulla sinistra della nostra, e mi appoggiai sulla ringhiera ad ascoltare.
Erano stati veloci a venirci a salutare, eravamo arrivati da non più di dieci minuti.
Forse erano i classici vicini tutti chiesa e barbecue della domenica, magari con due bambini piccoli, un maschio e una femmina dai capelli biondi, i vicini che ti aspetteresti di trovare in un film, quelli che ti portano i biscotti o la torta di benvenuto.
Mi sembrò di sentire mia madre pronunciare il mio nome, così mi misi in ascolto.
Non aveva nemmeno fatto in tempo a mettere piede nella nuova casa che aveva già iniziato a fare comunella con la vicina, una donna dai capelli scuri e dall'aria pettegola. A prima vista capii che se non fossi intervenuta sarebbe andata per le lunghe.
Guardai in alto e sbuffai notando dei nuvoloni scuri carichi di pioggia occupare piano piano il cielo sopra la città. Se i miei non si fossero sbrigati avrebbero fatto una bella doccia.
«Vado ad aiutarli» dissi ad alta voce a me stessa rientrando in camera. «Nosferatu?»
Il mio gatto era ancora fuori sul terrazzo, con lo sguardo fisso nel vuoto.
Il trasloco doveva averlo traumatizzato.
«Anche io preferivo casa, ma è andata così e ci dobbiamo adattare» cercai di tranquillizzarlo prendendolo in braccio e portandolo nella stanza. «Se stai fuori rischi di prenderti qualcosa, dai, fai il serio per una volta».
Chiusa la finestra sembrò calmarsi e dopo averlo adagiato sul letto si addormentò quasi subito.
Finimmo di portare gli scatoloni in casa nel tardo pomeriggio e occupammo il tempo che ci separava dalla cena per cominciare a disfarli. Mio padre avrebbe preparato qualcosa da mangiare di veloce, visto che non aveva avuto il tempo per fare la spesa o di organizzarsi, ma forse era meglio così.
Ero troppo tesa, avrei rischiato di vomitare tutto.
Avrei dovuto ricominciare tutto da capo, comprese le amicizie e i rapporti con i miei compagni di classe e si dava il caso che io non fossi brava né con le prime né con i secondi.
Mi aspettavano giorni pesanti.
«Karin» fece improvvisamente mio padre nel bel mezzo della cena.
Mandai giù intero il boccone che avevo in bocca. Quando mi chiamava per nome, nel bel mezzo di una cena o pranzo che fosse, serio in volto, ormai avevo capito che non sarebbe successo nulla di buono.
«Sì?»
Notai mia madre appoggiare le posate e farsi improvvisamente più attenta.
Le mie supposizioni si rivelarono più che esatte.
«Sei già andata a visitare il sito della tua nuova scuola?» continuò mio padre, curiosamente vago.
«Sì». Cercai di stare tranquilla. «Ho visto un po' di foto e letto qualcosa, nulla di più. Mi piace, lascia molta più libertà rispetto a quella in cui andavo prima. Non ci sono nemmeno le divise».
Presi un grissino e cominciai a smangiucchiarlo nervosamente, con un silenzio pressante che seguì la mia uscita che mi toglieva il respiro.
Avevo cercato di dire solo cose positive, per evitare nuove discussioni con mia madre.
Non avevo specificato che si trovava completamente dall'altra parte della città, separata dalla vita mondana da un boschetto piccolo ma fitto, praticamente isolata da tutto il resto.
Non avevo ricordato quanto fossero stati difficili gli esami per essere ammessa.
Solo cose belle.
«Visto? Te l'avevo detto che ti sarebbe piaciuta» rispose mio padre soddisfatto rivolgendomi un sorriso, eppure avevo l'impressione che non fosse quello il punto in cui lui voleva andare a parare. «Ci sono dei bei giardini intorno, e la mensa è grande e accogliente. Inoltre il trasporto non è complicato, l'autobus ti passa a prendere proprio sotto casa e ti lascia all'inizio del viale che porta alla scuola. Basterà che tu non dimentichi il biglietto, tutto lì».
Sapevo di dovermi ricordare il biglietto, mia madre me ne aveva già comprati un paio per i primi giorni e me li aveva messi in bella vista sul comò.
Tuttavia qualcosa ancora non mi tornava.
«Perché non l'abbonamento? L'ho sempre usato».
Dall'espressione che comparve sul viso dei miei capii di averci preso in pieno. Finalmente avrebbero sputato il rospo.
Warren tossicchiò leggermente, mia sorella esultò dopo essere riuscita finalmente ad arrotolare una fetta di formaggio sul suo grissino.
Mio padre prese un grosso respiro e puntò i suoi occhi su di me.
«Avrai visto anche che alla scuola è annesso un dormitorio».
Ecco cosa volevano. Tanti giri di parole, ma alla fine erano arrivati al punto. Sentii i miei muscoli irrigidirsi.
«È un bel posto, mi sono assicurato con il preside che fosse anche sicuro. I custodi sono presenti a qualsiasi ora del giorno e della notte e per qualunque cosa si può far affidamento su di loro» disse mio padre tutto d'un fiato. «E poi le stanze sono quasi tutte fatte per contenere minimo due persone. Potrebbe essere un'occasione... per fare nuove conoscenze».
«Tesoro, sappiamo che per te è sempre stato difficile fare amicizia, ma... ci siamo appena trasferiti, qui nessuno ti conosce o ha mai sentito il tuo nome. Puoi ricominciare tutto da capo e farti una nuova vita» lo interruppe mia madre. «Per favore Warren, di' qualcosa a tua sorella, falle capire che non può continuare a fare così».
Mio fratello abbassò lo sguardo sui miei pugni, stretti con così tanta forza da avere ormai le nocche rosse, poi sospirò.
«È una sua scelta e se non se la sente non potete costringerla. Lasciatela stare».
Sentii mia madre protestare, ma non prestai attenzione alle sue parole mentre mi alzavo dalla sedia e mi dirigevo verso le scale.
Andai in camera mia senza pronunciare parola e chiusi la porta alle mie spalle.
Perché i miei si ostinavano ancora a far finta di non capire?
Camminai lentamente lungo la stanza per poi fermarmi davanti allo specchio appoggiato a terra che avevo portato in camera un paio di ore prima e non avevo ancora appeso.
Lo presi in mano e lo sollevai all'altezza del mio volto.
Non ero io a voler rimanere isolata, senza amici. Non avevo un pessimo carattere, non avevo una brutta fama. Non ero cattiva. Se le persone mi evitavano, non era colpa mia.
Non sicuramente tutta, ma in parte la colpa era dei miei occhi, gli stessi che in quel momento mi fissavano tutti arrossati e carichi di lacrime.
Le iridi azzurre, a detta di mia madre ereditate da sua nonna, erano forse l'unica cosa di cui andavo fiera.
Ma qualcosa di storto doveva andare per forza, altrimenti non sarei stata lì a commiserare il mio riflesso, stanca, stufa e seccata. Nonostante fossero passati anni dall'ultima volta che avevo preso psicofarmaci, la mia pupilla sinistra era ancora spaventosamente in midriasi e con il tempo sembrava addirittura essere peggiorata.
Il muscolo azzurro di quell'occhio si intravedeva appena, la pupilla si era dilatata al punto tale da occuparne quasi tutto il posto.
Quando avevo sei anni, mia madre mi raccontava sempre che le pillole che mi sistemava ogni sera accanto a un bicchiere di succo d'arancia mi avrebbero permesso di entrare nel mondo delle fate.
All'epoca io ero convinta di essere la principessa delle fate e che se durante la notte non fossi riuscita ad entrare nel mio regno sarei finita in un altro mondo, tetro, oscuro e spaventoso e quelle pilloline rosa e bianche servivano solo per aiutarmi.
Da quando avevo cominciato a prenderle non mi svegliavo più nel cuore della notte sudata, urlando e piangendo.
Ma dopo un paio di anni nemmeno quelle pillole riuscivano più ad aiutarmi, dosi raddoppiate comprese.
In compenso ricevetti un regalo d'addio. Mia madre mi aveva raccontato che mi era stato donato un occhio di fata, così che tutti potessero sapere, anche nel mondo reale, che io ero la regina.
Non presi più quelle pillole, tuttavia l'occhio di fata rimase e mia madre non sembrava affatto contenta. Fu da quel momento che decise che sarei andata a parlare del mondo oscuro in cui capitavo ogni notte ad una sconosciuta, che diceva che mi avrebbe aiutata a tornare nel mio mondo.
Mantenne la sua promessa per metà. La notte non mi svegliavo più, ma non raggiunsi comunque il mio regno.
Crescendo, capii che gli psicofarmaci per farmi dormire mi avevano semplicemente dilatato la pupilla, che mia madre stava per sporgere denuncia per l'inefficacia dei farmaci e i danni che mi avevano procurato e che la sconosciuta con cui andavo a parlare ogni mercoledì e venerdì era la mia psicanalista, che con l'ipnosi mi aiutava a stare meglio.
Ma come i farmaci, anche lei non riusciva a fare più di tanto.
Gli incubi si ripresentavano quasi ogni notte, compromettendo drasticamente la mia vita scolastica.
Qualcuno bussò piano alla porta. «Tesoro?». Era mio padre. «Posso entrare?»
«È aperto».
Lentamente la porta si aprì lasciando intravedere il viso gentile di mio padre. Mi trovò seduta sul bordo del letto con il capo chino in avanti, coperto da lunghe ciocche di capelli neri, con gli occhi rossi e umidi ancora puntati sullo specchio.
Si sedette accanto a me e mi tolse dalle mani quell'oggetto che ogni volta mi mostrava spietatamente ciò che ero, appoggiandolo lontano da me, sul comodino.
«Mi dispiace per ciò che è successo di sotto. Non pensavo ci stessi ancora così male» cominciò a dire mentre io tenevo lo sguardo fisso a terra, con le lacrime che minacciavano di riprendere a scendere. «Sai che io e tua madre lo facciamo per il tuo bene... Ormai sei grande, sei tu a decidere cosa fare della tua vita, ma noi che siamo i tuoi genitori non possiamo rimanere zitti a guardarti mentre soffri. Cerchiamo di fare ciò che è meglio per te e questo tu lo sai».
Annuii leggermente e alcune lacrime scivolarono sulle guance, atterrando sul parquet.
Mio padre se ne accorse. Si piegò verso di me e spostò una ciocca di capelli dietro un orecchio, scoprendo il mio viso tutto arrossato e bagnato.
«Non devi vergognarti dei tuoi occhi». A quelle parole mandai giù il nodo amaro che mi si era formato in gola. «È colpa nostra, eri troppo piccola per prendere medicine e noi ce ne siamo accorti troppo tardi. Ti abbiamo proposto di andare in dormitorio perché sono passati due anni da quando hai avuto l'ultima crisi, pensavamo che ti fosse passata la paura... spero di non averti fatto ricordare brutti momenti».
No, non avevo ancora permesso agli spiacevoli ricordi di riaffiorare nella mia mente, ma dopo quel suo ultimo commento fu inevitabile.
Ricordavo di aver confidato i miei incubi a una persona sola, una mia compagna di classe delle elementari, insistente e curiosa delle mie occhiaie e del perché nel dormitorio avessi una stanza singola.
I ricordi di quella notte erano pochi e frammentati.
Mani che mi bloccavano gambe e braccia. Visi spaventosi che ballavano davanti ai miei occhi. Risate agghiaccianti, i miei capelli tirati. Io che urlavo terrorizzata. Poi le luci accese, le risate dei miei compagni di classe divertiti, che mi liberavano e si toglievano le maschere di Halloween.
Loro erano stati sospesi, io avevo cambiato scuola.
Avevo dieci anni e quella era stata l'ultima volta che avevo messo piede in un dormitorio.
Mi feci spazio tra le braccia di mio padre e mi ci abbandonai dentro.
«No» riuscii a stento a dire tra un singhiozzo e l'altro. «Tutto okay».
«Non succederà più una cosa del genere, te lo prometto». Mi strinse così forte da togliermi il respiro. «Sei alle superiori, i ragazzi non sono così infantili. Andrà tutto bene, se fai quello che ti senti».
Annuii piano, asciugandomi le guance con la manica della felpa.
Mi stampò un bacio sulla fronte, poi mi allontanò dalle sue braccia e mi esaminò attentamente. «La prima impressione è molto importante. Non credo che tu possa presentarti conciata così, domani».
«Sono vestiti da casa... E comunque devo fare anche la doccia».
«Io parlavo dei capelli però. Sono diventati tanto lunghi ormai e ti coprono il viso. Rischi di passare per quella che alza i muri per prima. Ecco, io ti vedo con una pettinatura un po' più carina, tipo così» continuò prendendo i miei capelli in due grosse ciocche alte. «Secondo me stai benissimo».
«Ti prego» dissi togliendogli le mani dai miei capelli, anche se non avevo capito bene se fosse uno scherzo o stesse parlando seriamente. «Le code di cavallo sono infantili, alla mia età nessuno se le fa più».
«Ma se tua madre te le faceva fino all'altro giorno».
«Sì, se per l'altro giorno intendi tredici anni fa. È passato un bel po' di tempo».
«Allora è passato troppo in fretta. Che tu abbia tre, sedici, novant'anni rimarrai sempre 'la mia bambina'» disse stringendomi di nuovo tra le sue braccia. «Non rattristirti più per queste sciocchezze, okay?»
«Va bene» risposi rincuorata prima che mio padre sciogliesse l'abbraccio. Poi si alzò dal letto e si diresse verso la porta. «Vai a dormire presto, altrimenti domani non ti svegli più».
«Certo!» gli urlai dietro mentre lasciava la stanza.
Non ebbi nemmeno il tempo di pensare ad altro che si presentò qualcun altro alla porta, ma questa volta quel qualcuno aveva i capelli neri tutti scompigliati e un sacco di piercing che brillavano alla luce artificiale della lampada vicino al comò.
«Hai finito di frignare?» mi chiese Warren beffardo appoggiandosi allo stipite della porta.
Lo trafissi con lo sguardo. «Solo quando tu deciderai di fare qualcosa di utile».
«Che crudele, io sono venuto a vedere come stava la mia dolce sorellina che ancora si offende per delle stupide storielle risalenti alle elementari».
«Vuoi le botte?». Lo guardai minacciosa, chiudendo le mani a pugno e portandole in avanti.
«No grazie, ne ho già ricevute abbastanza in tutti gli anni in cui ti ho difesa dalle cattiverie dei marmocchi di varia età». Fu la sua risposta, tagliente come una lama, che mi fece automaticamente abbassare le braccia e riportarle sulle gambe. «Chissà, se magari te le fossi prese al posto mio il tuo problema sarebbe ora risolto: avresti tutti e due occhi neri, no?» in un istante perse tutta la sua serietà e il sorriso di scherno si riaccese sul suo viso.
«Ma vai a lavorare!» gli urlai dietro inviperita prendendo la prima cosa che mi capitò sottomano e lanciandogliela contro con rabbia.
Lui però ebbe i riflessi pronti e chiuse velocemente la porta, così che il cuscino rimbalzò su di essa e cadde a terra senza aver concluso nulla.
Solo la doccia riuscì a sbollire la mia rabbia parecchi minuti più tardi, lasciandomi andare a letto con la tranquillità tale da farmi chiudere gli occhi, tuttavia non abbastanza per permettermi di dormire serenamente.
Puntuali come la morte, in un momento delicato come questo non potevano non ripresentarsi dopo tanto tempo i miei incubi.
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