IV
«Questa foto me la ricordo bene» disse Mazhar, «alla fine lo licenziarono comunque. Era una cospirazione, ma non potevano difenderlo perché avevano paura di me. Sapevano che avrei lottato senza paura contro le loro ingiustizie, così hanno dovuto mandarlo via e arrendersi. Se ci fosse stato qualcun altro al mio posto, quello là l'avrebbe fatta franca, ma ho vinto io perché sapevano chi ero»
Melisa annuì, incerta su cosa rispondere. Si limitò a voltare pagina e abbassare gli occhi verso le foto dell'autunno, ma erano finite. A metà anno l'avevano mandata dagli zii a Berlino e le visite successive erano diventate sempre più rare. Il bisogno di sviluppare le fotografie era morto con quell'immagine, trasformatosi nella reliquia di un'infanzia i cui sorrisi erano sempre meno innocenti di anno in anno. In quell'ultima foto si potevano vedere i seni ormai sviluppati di Melisa, tredicenne, sotto la luce dei neon ospedalieri e i capelli di Mazhar che dimostravano i primi segni d'ingrigimento. La ragazza chiuse delicatamente il libro e tornò a piluccare i fagioli in silenzio, scambiando uno sguardo preoccupato con Yasmina.
«Vedi, io non mi arrendo mai quando c'è da combattere contro le ingiustizie. Lotto fino a non avere più energie, fino a stramazzare a terra. Perché in questo mondo bisogna sapersi difendere, anche da soli se serve, e guadagnarsi il proprio posto con fatica e onore. Questo mi ha insegnato la vita» continuò Mazhar, non senza una nota di amarezza nella voce. Masticava più rumorosamente del solito. «Mi versi dell'altro tè?» disse alla moglie.
«Tieni» rispose Yasmina, riempiendo la tazza sotto il samovar e allungandogliela.
«Grazie. Devo essere lucido per fare la guardia fino al mattino»
«Non devi lavorare domani?» domandò Melisa.
«No. E anche se dovessi, non ci andrei. Non potrei mai lasciarvi da sole o fare in modo che la casa resti incustodita. Quel maledetto non aspetta altro che io me ne vada...» rispose Mazhar, ingollando il té con un sorso lungo e nervoso «...per allungare le sue dita verso il sicomoro. O minacciare voi due. Non potrei mai permetterglielo»
Melisa abbassò lo sguardo.
«Non devi preoccuparti, tesoro» le disse Yasmina, sfiorandole il mento con le dita «non è la prima volta che tuo padre sta sveglio tutta la notte per fare la guardia all'albero. Nelle scorse settimane il vicino ha tentato di intrufolarsi nel giardino parecchie volte, strisciando nella sabbia come un serpente nelle ore più buie. Dice di essere sonnambulo, ma sappiamo che mente»
«Quel bugiardo,» Mazhar digrignò i denti «quel bugiardo insopportabile»
«Oggi è il quinto giorno della settimana in cui tuo padre monta la guardia»
«E l'avrei fatto anche ieri se non fossi stato così ubriaco»
Melisa squadrò il volto del padre, esterrefatta, e solo allora notò quanto profonde fossero le sue occhiaie. I suoi capillari erano gonfi come licheni scarlatti sul bianco dei bulbi oculari, e le rughe intorno alle palpebre si afflosciavano in un'espressione di estrema spossatezza. Aveva percepito una sorta di inerzia in lui durante le conversazioni al bar e la camminata nel bosco, certo, ma non aveva realizzato che fosse sintomo di una stanchezza così profonda. No, quell'affermazione era troppo ridicola per essere vera. Si voltò verso Yasmina, aspettando che la donna scoppiasse in una risata di scherno, che le sue labbra si schiudessero nell'ilare rivelazione che l'avevano presa in giro per tutto quel tempo. No, era completamente seria. Melisa continuò a fissarle il viso, squadrandola attentamente in cerca di una qualche muscolo teso a trattenere una smorfia di divertimento. Niente. Yasmina non batteva ciglio. L'inquietudine non sarebbe diminuita. La ragazza ricominciò a mangiare il silenzio, continuando a lanciare occhiate colme di ansia e desolazione ai due coniugi. Mazhar finì di sorbire il tè, dopodiché accavallò le gambe e restò qualche secondo immobile a fissare il fondo della tazzina.
«Vedi, Melisa» disse, voltandosi a guardare la ragazza negli occhi «capisco che sei rimasta turbata da quello che è successo oggi. Il fatto è che... come posso spiegare... il sicomoro non è un albero robusto. I rami da fuori sembrano solidi e forti, ma in realtà sono molto fragili e non possono sopportare il peso di un'altalena. Sono bastati tre colpi d'ascia a spezzare quel ramo, hai visto, no? Perché il legno del sicomoro è molto debole e si spezza facilmente. Se non fossi intervenuto, quella bambina avrebbe potuto farsi del male. Può esserti sembrato brusco, ma in realtà è stato un gesto di aiuto e protezione. Il sicomoro non è abbastanza solido da reggere un altalena, lo sanno tutti»
«L'hai spaventata a morte» Melisa tenne lo sguardo basso, fisso sul tovagliolo.
«Certo, perché giocare intorno a quell'albero può essere pericoloso. Tu non c'eri quando si è messa a giocare con i nostri amuleti protettivi. Era proprio quella bambina»
«L'hai chiamata larva»
Mazhar aggrottò le sopracciglia «Perché i figli degli insetti sono larve. Io, invece, ho saputo educarti e renderti una figlia di cui andare fiero, nata e cresciuta in questa terra con fierezza e compassione. Non vedo come ti sorprendi delle mie veglie notturne. Non stai forse anche tu in piedi a studiare fino al mattino prima dei tuoi esami? O mi racconti menzogne?»
«Non ti racconto bugie, ma non è la stessa cosa»
«Quel ramo non poteva reggere un'altalena. Senza di me quella poveretta si sarebbe fatta del male» insistette Mazhar. Melisa restò in silenzio, troppo scossa per poter alzare lo sguardo dalle pieghe della tovaglia. L'uomo sembrò deluso dall'incomprensione della figlia, perché si pulì i baffi con un gesto piuttosto nervoso e si alzò da tavola facendo stridere la sedia. Con la coda dell'occhio, Melisa lo vide allontanarsi dal tavolo a passi pesanti e dirigersi verso il frigorifero. Yasmina finì di mangiare la minestra e si pulì le labbra col tovagliolo, poi volse uno sguardo indecifrabile verso la ragazza. Non era un'occhiata di rimprovero, né d'affetto, ma una sorta di acida inespressività materna che la colse alla sprovvista. Restò così per qualche secondo, fissando il vuoto negli occhi di Melisa, dopodiché si voltò verso la finestra che dava sul giardino e si rinchiuse in un silenzio pensieroso.
«Abbiamo conservato una cosa per te, Melisa» la voce di Mazhar che trafficava nel frigorifero ruppe il silenzio. L'uomo rovistò per un po' nel cassetto delle verdure, ansimando, finché non estrasse qualcosa di roseo e tondeggiante. Era un frutto minuto e affusolato, una sorta di fico color rosa pallido raggrinzitosi nel freddo del frigorifero. La luce giallastra della lampadina del soggiorno e il sudore sulle mani dell'uomo lo facevano somigliare a un piccolo testicolo.
«Uno dei frutti del sicomoro» disse Mazhar, allungandolo verso Melisa «è molto simile al fico, ma è ancora più dolce. Lo conserviamo nel frigo da quando l'albero ha fruttificato un mese fa»
La ragazza trasalì di fronte al viso inequivocabilmente serio del padre. Una miriade di scenari terrificanti la travolsero alla presenza solenne del frutto di quell'albero diabolico. Immaginò che la consumazione delle sue polpe avrebbe potuto stregarla, soggiogandola alla stessa magia che sembrava aver cambiato Mazhar. Completamente abbandonata a improvvisi istinti di odio e ossessione dopo l'assorbimento delle fibre vegetali nel sangue come i lotofagi, svuotata di ogni ragione. Ed era suo padre, più terrificante che mai, a tentarla. Lì, nella fetida umidità serale del villaggio, la sua famiglia era pronta a trascinarla nello stesso incubo per mezzo di quel frutto ammaliante. Mazhar notò la titubanza della figlia e scosse lievemente il braccio.
«Non è fresco, ma è ancora buono» disse, senza mutare espressione «non temere»
Melisa era del tutto irrigidita, incapace di muoversi in balia di quel nugolo di pensieri agghiaccianti. Inclinò la testa e vede che Mazhar e Yasmina la osservavano con aspettativa e una lieve preoccupazione. Forse erano confusi dall'indecisione della ragazza, e in effetti c'era anche un'ombra di sconforto nei loro occhi, quasi come si rendessero subconsciamente conto dell'incredibile distanza che a un tratto li separava da lei. Erano davvero troppi gli anni passati dall'ultima volta che lei era tornata a casa. Melisa allungò il braccio cercando di nascondere i tremori e prese il frutto dal palmo di Mazhar con lentezza assoluta. L'istinto continuava a ripeterle che non era una buona idea, ma non aveva altra scelta. Le sue dita si strinsero intorno alla superficie del frutto, pronte a schiuderlo nello stesso modo in cui si aprivano i fichi dalla buccia più scura. Gli occhi concupiscenti dei due coniugi sembrarono luccicare, fissi sulla scena, e Melisa trattenne il respiro mentre contraeva i muscoli della mano. Il frutto si schiuse lentamente, dividendosi in due estremità a mostrare la polpa, e un'espressione di disgusto si dipinse sul volto della ragazza non appena i suoi occhi si posarono su ciò che era all'interno.
«C'è un insetto» disse, posando il fico sul tavolo con una smorfia di ribrezzo. Mazhar sembrò scattare sull'attenti a quelle parole. Prese in mano il frutto e lo squadrò per bene, esaminando la carcassa di chitina incastonata tra le appendici succose del siconio. Subito dopo, scoppiò in una risata tonante. Yasmina e Melisa lo osservarono piegarsi in due mentre si sbellicava sopra il tavolo e si scambiarono uno sguardo di disorientamento.
«Che schifo» borbottò Mazhar, senza smettere di ridere «c'è davvero un insetto»
«Che c'è di così divertente?» domandò Yasmina.
«C'è che...» l'uomo si strofinò gli occhi «c'è che è un calabrone sudamericano, uno di quelli che hanno importato per sbaglio tre anni fa al porto di Smirne e che hanno causato problemi agli allevatori. Devi sapere che il fico non fa parte della loro dieta, ma ci sono altre imenotteri parassiti che invece depongono le uova nei frutti del sicomoro. Mentre il fico matura, assume l'odore di queste uova, e le vespe sudamericane per qualche ragione lo trovano molto invitante. Perciò entrano nel fico per cibarsene e lo guastano. E, in circostanze rarissime, non riescono a uscirne. Così muoiono al suo interno e il fico le digerisce parzialmente. Lo vedete? È tutta sciolta, come digerita»
«E quindi?»
«E quindi la possibilità che questo accada è una su un milione! Forse una su un miliardo. Ci credi? Abbiamo conservato un frutto per Melisa e proprio in questo c'era la vespa dentro!» improvvisamente gli occhi di Mazhar luccicavano di ilarità. Yasmina scrollò le spalle, disgustata dalla vista della poltiglia nerastra che un tempo doveva essere stato il calabrone. La povera creatura doveva essersi dibattuta a lungo, immersa nella completa oscurità a lottare per farsi strada alla ricerca disperata di una via di fuga.
«Che schifezza, buttala nelle immondizie» disse la donna.
«Non se ne parla. Bisogna conservare questo fico per bene adesso. Ci porterà fortuna» ribatté Mazhar, avvolgendo il frutto in una salvietta di carta. Melisa tirò un sospiro di sollievo. Quell'insetto morto l'aveva salvata dal pensiero di dover consumare davvero il frutto. I muscoli delle braccia le si sciolsero e il suo respiro tornò calmo. Il profondo senso d'inquietudine non era svanito, ma almeno Melisa avrebbe avuto più tempo per riflettere al riparo dalle tentazioni e dall'assuefazione che stagnavano nella stanza come gas velenoso. Mazhar rimise il frutto nel frigorifero, accompagnato da un grugnito di disapprovazione di Yasmina, poi tornò a voltarsi verso di loro col suo solito sorriso sotto i baffi unti. La sua espressione, tuttavia, tornò seria quando uno strillo di bambina, a malapena percettibile attraverso le pareti, giunse alle loro orecchie dalla casa del vicino.
«Senti» mugugnò irritato «senti che cosa gli fa, a quelle poverette. Non voglio neanche saperlo»
Mazhar uscì dalla stanza e Melisa lo sentì aprire la porta dello sgabuzzino tra i borbottii d'indignazione. Riemerse poco dopo brandendo un fucile d'assalto. Era una mitragliatrice automatica color nero carbone, la superficie unta di olio per armi, ed egli se la mise a tracolla sistemandosi la cinghia dietro al collo. Le armi da fuoco in Turchia non erano particolarmente rare, vista la permissività delle leggi sulla difesa personale, ma Melisa sgranò gli occhi alla vista di un tale fucile tra le braccia di suo padre. Doveva averlo comprato di recente, forse da uno dei suoi colleghi di lavoro, e il cuore le sobbalzò nel petto.
«Adesso vado in terrazza» Mazhar soppesò l'arma e rivolse uno sguardo pieno di determinazione alle due donne «e voi potrete dormire tranquille stanotte. Domani verrà a darci una mano anche il signor Azer, così potrò riposarmi di pomeriggio»
«D'accordo» rispose Yasmina.
«Prima però devo pisciare»
Senza abbandonare il fucile, Mazhar si diresse verso il bagno e chiuse la porta. Yasmina smise di giocherellare con le briciole di pane sulla tovaglia a motivi persiani e fece cenno a Melisa di alzarsi.
«Coraggio. Aiutami a sparecchiare»
Le due donne riposero i piatti sporchi, le posate e i bicchieri nella lavastoviglie senza proferire parola. Melisa aveva lo sguardo perso nel vuoto, traboccante della più totale solitudine e desolazione. Era stremata dalla notte insonne, dalla camminata nel bosco e dal crescente senso di angoscia che vibrava in tutte le fibre dei suoi nervi, consumandola dall'interno. Cercare di smorzare i tremori delle mani che tradivano la sua inquietudine era sempre più logorante mentre la sua mente tentava di dare un senso a quella storia. Ormai non aveva più la forza di pensare. Salutò Yasmina e si congedò prima di salire le scale e chiudersi in camera sua. Mazhar era già fuori in terrazza, seduto a scrutare il buio con la schiena dritta, ma lei non lo salutò. Si gettò sul letto e premette con forza il cuscino sopra la nuca, addentando le pieghe del coprimaterasso nella speranza di poter sfogare una percentuale di quel turbamento. L'idea di poter essere svegliata in qualsiasi momento da un assordante colpo di fucile non le avrebbe mai permesso di addormentarsi, lei ne era certa. Melisa si girò e rigirò per ore, madida di sudore, soccombendo per l'estrema stanchezza a preludi di incubi terrificanti prima di svegliarsi di soprassalto coi muscoli paralizzati. Provò a pensare a Berlino, agli esami che le mancavano e ai compagni di corso, ma tutto le sembrava a un tratto infinitamente distante. L'unica cosa a cui riusciva a pensare era il calabrone nel frutto del sicomoro, atrocemente soffocato nel suo atto di bramosia nettarea. Le sue zampe dissolte negli acidi digestivi e i suoi occhi putrefatti e ricoperti da germogli di muffa biancastra. Melisa continuò a rigirarsi nelle lenzuola come in un bozzolo, il lino per un attimo sostituito da tessuti organici che si contraevano in palpitazioni allucinatorie, e si addormentò solo quando il vento smise di far tintinnare i Nazar Boncuğu appesi al sicomoro che vegliava sull'abitazione.
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Il signor Azer assunse un'espressione involontariamente arcigna mentre si schermava gli occhi dal sole del mattino. Il cielo privo di nuvole aveva un colorito bluastro, innaturale, e le voci echeggiavano in maniera anomala nell'aria appesantita dall'alta pressione.
«Da quella parte?» domandò, indicando la strada sterrata che attraversava il vigneto.
«Sì, esattamente. Forse sperava di non essere visto. Quella strada attraversa i binari sulla ghiaia e porta alla statale prima della centrale elettrica» rispose Mazhar.
«E quando è partito?»
«Più o meno alle cinque del mattino. Le sue mogli e le figlie sono ancora a casa. Forse si è portato dietro il primogenito»
Il signor Azer inspirò profondamente, intento a sfregare il legno della doppietta con l'unghia del pollice. Un reticolo di rughe gli si dipinse sulla fronte «Non mi piace questa situazione».
«Nemmeno a me» rispose Mazhar.
Melisa bevve un altro sorso di tè, ma subito la nausea tornò ad assalirla e la costrinse a spingere via la tazza con un movimento brusco. Mazhar e il signor Azer si voltarono di scatto verso la cucina, allertati dal cigolio della ceramica sul legno, e le rivolsero uno sguardo accigliato. La porta della terrazza era aperta, pertanto la ragazza poteva sentire tutte le loro conversazioni e constatare quanto i loro nervi fossero tesi. Non che lei fosse meno inquieta, visto che le occhiaie di suo padre si erano infossate a tal punto da evidenziare la sagoma del cranio sotto la pelle. L'atmosfera opprimente che aleggiava nell'abitazione era divenuta insopportabile, ma Melisa era troppo intimidita dalla situazione per interferire con gli ultimi avvenimenti.
«Melisa, vieni qui» disse Mazhar. La ragazza trasalì. Il tono dell'uomo questa volta era davvero severo, arido come le ittiosi nel terreno durante le carestie, quando il fango si asciugava lasciando profonde fenditure che si sbriciolavano al tatto. Melisa si alzò con cautela, evitando di fare troppo rumore con la sedia, poi uscì in terrazza con la sensazione di non essersi ancora liberata dagli ultimi vapori del sonno. Mazhar, il signor Azer e suo figlio erano seduti lì, i fucili ben stretti in mano e gli occhi che luccicavano di nervosismo. Le gambe del signor Azer vibravano sul cemento della terrazza come quelle di uno scolaretto ansioso durante una lezione. Suo figlio, invece, era accasciato in avanti con un'espressione completamente svogliata sul viso e si reggeva sulla doppietta col calcio di legno poggiato sulla ringhiera.
«Non vai a riposare? Sei stato in piedi tutta la notte» Melisa si tenne a distanza dagli uomini, fermandosi dietro la porta della terrazza.
Mazhar inspirò profondamente. I suoi polmoni sembrarono avere un tremito dentro il torace, stremati dalla sonnolenza «Fra qualche ora. Voglio vedere cos'ha in mente quello lì»
«Potrebbe essere andato a chiamare i rinforzi» aggiunse il signor Azer «non è l'unico straniero che si è trasferito da Şanlıurfa negli ultimi anni. Sono arrivate altre famiglie dai dintorni della provincia, alcune direttamente dai villaggi intorno a Göbekli Tepe. Da quando hanno scoperchiato i loro sarcofagi si stanno diffondendo in queste terre come un'infezione, come se uscissero dalle loro tombe con i loro denti sporchi di tartaro millenario e le loro vesti stracciate che puzzano di sterco. Ma probabilmente è solo per quello che sta succedendo in Iraq»
Mazhar annuì «Già» disse «non sappiamo che tipo di contatti potrebbe avere. Meglio stare in allerta»
«Per un albero?» replicò Melisa con la voce che somigliava a un gemito.
«Per il nostro albero, sì»
Mazhar inspirò profondamente e sbatté più volte le palpebre. L'umidità della notte si era condensata in gocce di muco sui suoi baffi.
«Melisa, mi dispiace doverti tenuta chiusa qui. Anch'io vorrei poter uscire per stare insieme a te e visitare qualche posto, magari andare a trovare i nostri cugini ad Alaşehir o le rovine di Sardi, o la passeggiata al canyon di Adala che facevamo ogni anno quando eri piccola, quando davamo da mangiare ai cigni e mangiavamo le kofte sdraiati sui sassi piatti. Ultimamente non sto molto bene e sono felice che tu sia tornata per stare un altro po' con noi, davvero. Ma hai detto che dovevi studiare, no? Non dovrebbe cambiare molto i tuoi piani»
«Immagino di non avere altra scelta» rispose la ragazza «che significa che ultimamente non stai bene?»
«Oh» Mazhar le sembrò per un attimo piuttosto vulnerabile «lascia perdere, forse è meglio»
Un silenzio imbarazzato seguitò, durante il quale l'uomo si morse le labbra e fuggì involontariamente allo sguardo turbato della figlia. Il signor Azer assisteva alla conversazione con un'espressione grave, la fronte corrugata in una manifestazione di acre compassione.
«Vedi, Melisa...» continuò Mazhar dopo un lungo sospiro «mi chiedevo se dopo gli studi fosse possibile che tornassi qui a casa. Magari non solo per una visita. Magari per... per un po'. Per stare accanto alla tua famiglia. Ho parlato con i miei colleghi e conoscono delle persone che potrebbero avere il lavoro giusto per te»
Melisa percepì un'inconsueta debolezza in quella richiesta. Sembrava che Mazhar stesse facendo uno sforzo immenso per trattenere un impulso selvaggio di trasformarla in una supplica, o peggio. Il luccichio d'imprevedibilità nei suoi occhi si era fatto più brillante ancora, ormai una brace ardente che si autoalimentava, una fiamma che danzava sempre più scoordinata dopo tutte quelle notti insonni. Sentì che la risposta a quella domanda avrebbe richiesto assoluta cautela. Lo sguardo di Mazhar si fece sempre più trepidante ogni secondo che passava, irrigidendo Melisa, e il suo respiro si fece più pesante. La ragazza deglutì con forza prima di convincersi ad articolare una risposta.
«Non posso, papà» disse, pregando di star facendo la cosa giusta «continuerò a venire a trovarvi, ma non posso restare qui»
«Capisco» sospirò Mazhar. Utilizzò un tono piuttosto neutro, distaccato, nel tentativo di non tradire la delusione. I suoi occhi, però, erano visibilmente lucidi. Melisa fece qualche passo indietro, tornando cautamente verso il tavolo, mentre il silenzio tornava a riempire l'aria. L'intensità emotiva di quella richiesta le aveva messo i brividi e si domandò se non fosse meglio tornare in camera sua senza aggiungere altro. Il figlio del signor Azer si scaccolò ficcando il suo indice nel naso e prontamente ricevette uno scappellotto dal padre mentre Mazhar cercava di tornare inespressivo e concentrato sull'attività di vigilanza. Melisa continuò ad arretrare un passo alla volta, ma un improvviso rumore di passi dietro di lei la fece trasalire.
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