II
Mazhar si era messo a canticchiare una vecchia marcetta, che in realtà somigliava più a un'orrenda cacofonia, mentre il sole iniziava a calare dietro le nubi sopra il Mediterraneo. Melisa sbuffò, cercando di reggere il peso dell'uomo con il braccio avvolto intorno al suo collo. Aveva bevuto troppi bicchieri di rakı e ora barcollava lungo la strada come quei vecchi ubriaconi crepuscolari che la ragazza vedeva nella stazione di Berlino, la Hauptbahnhof poco distante dal quartiere governativo, ben distinto dal centro storico in maniera simile all'hub politico-economico di Smirne. Fortuna che la casa era solo a poche centinaia di metri. Pensare ai treni riportò alla mente di Melisa l'attività precedente di Mazhar. Per un certo periodo egli aveva lavorato per il TCDD, ovvero il Türkiye Cumhuriyeti Devlet Demiryolları, in poche parole le ferrovie dello stato della Turchia, come addetto alla pulizia e alla manutenzione dei binari del treno. Era un lavoro faticoso, talvolta ingiusto, ma lui non aveva mai espresso lamentele mentre sacrificava la sua vita per la borsa di risparmi che avrebbe mandato Melisa in un posto migliore. Aveva sempre tenuto la testa bassa, rassegnato a un'esistenza passata a ispezionare i binari con la sola prospettiva che era tutto per il bene di sua figlia. Nonostante ora arrancasse ubriaco, sostenuto dal braccio di Melisa, non aveva perso un grammo della sua dignità di padre. La ragazza scosse la testa. Stava forse romanticizzando tutti i suoi sforzi? No, era solo una tragedia quotidiana, il semplice resoconto di trent'anni di lavoro nella campagna. Lei era tornata e lui si era ubriacato perché era l'unico modo che avesse di concentrarsi sull'atmosfera festiva scacciando pensieri e ricordi. Non c'era nulla di romantico in questo.
In questa fotografia sono più grande, inginocchiata di fronte a papà che indossa il giubbino verde evidenziatore e il casco giallo da operaio. Lui e i suoi compagni, fradici di sudore sotto il sole estivo, stanno sistemando una tratta in cui la rotaia di metallo si è piegata dopo essersi deformata per il caldo. È un lavoro impegnativo, ma abbiamo entrambi un sorriso e non c'importa di nulla se non l'uno dell'altro.
«Eccoci, papà» disse Melisa, spingendo delicatamente l'uomo dentro l'uscio di casa. Mazhar borbottò qualcosa, dopodiché si trascinò verso il divano dove Yasmina era seduta a fissare lo schermo del televisore. La donna drizzò le orecchie quando li sentì arrivare e rivolse uno sguardo preoccupato al marito.
«Ha bevuto di nuovo?» domandò. Dal tono si capiva che quella era una scena piuttosto abituale.
«Un po'» rispose Melisa, osservando Mazhar che si abbandonava sul divano senza dire una parola. Aveva le palpebre socchiuse e le labbra scosse da fremiti. Yasmina si richiuse in un silenzio colmo di vergogna e impotenza, ma Melisa le sorrise e si sedette sulla poltrona di fianco a lei.
«Non fa niente, non preoccuparti. Non potevo chiedere un'accoglienza migliore. Al bar c'era più della metà del paese e sono stata davvero bene» disse.
Sua madre annuì «Ne sono contenta. Ci sei mancata tantissimo negli ultimi anni»
Volse uno sguardo accigliato verso Mazhar, che si era già appisolato di fronte al televisore. Le luci della telenovela in onda gli illuminavano il viso sudato e il ventre che con ogni ansito si gonfiava e sgonfiava come la gola di un rospo.
«Ha insistito molto per organizzare la festa giù al bar; voleva che tutto il paese vedesse che eri tornata. Ha raccontato a tutti i tuoi successi, sai?» disse Yasmina «Domani, invece, pensavo di fare un'escursione all' Huseyin Emmi, come quando eri piccola. Che ne dici? Abbiamo trovato dei vecchi scarponi che dovrebbero andarti bene»
«Volentieri,» Melisa si dondolò avanti e indietro sulla poltrona in segno di entusiasmo «e se andassimo alle cascate?»
«Potremmo andare anche alle cascate, sì...»
«È da un sacco di tempo che non vado alle cascate, mi piacerebbe vederle un'altra volta»
Yasmina annuì distrattamente, gli occhi ancora fissi sul viso di Mazhar. I lineamenti dell'uomo si stavano facendo più nervosi, disturbati da sogni irrequieti.
«Solo, meglio se torniamo prima di sera. Vorrei studiare un po', visto che tra un mese ho gli esami» aggiunse Melisa. Yasmina si riscosse dai suoi pensieri e le rivolse un sorriso tiepido.
«Certamente, ammiriamo la tua diligenza» mormorò «ma adesso mangiamo. C'è del bulgur avanzato»
Le due donne si sedettero a tavola e mangiarono il Kısır condito con cetrioli, pomodori, olive verdi e pezzettini di cipolla soffritti. Decisero di non interrompere Mazhar, che dormiva placidamente immerso nel suo rituale letargo di pulizia epatica, e parlarono a lungo della vita universitaria di Melisa a Berlino. Melisa le raccontò del birra-pong, dei club di musica techno, delle associazioni studentesche per i diritti delle donne in medio oriente, della ricerca sull'alchilazione degli enolati e di molto altro. Yasmina fu sorpresa nello scoprire che la ragazza non aveva ancora trovato un fidanzato, ma non volle approfondire la questione quando la vide arrossire. Le parlò di come Mazhar si stava stancando del suo lavoro e del fatto che tornava a casa ubriaco sempre più spesso, senza più la forza di lottare contro la marcia del tempo. Lei, invece, continuava occasionalmente a lavorare ai tappeti e non aveva mai la determinazione necessaria per mettersi a dieta. Le due donne si fecero un tè nero per digerire, continuando a parlare per molto tempo, e quando si fece buio sparecchiarono la tavola e si congedarono.
«Buonanotte. Ho già sistemato i tuoi vestiti nell'armadio. La sveglia domani è alle otto e mezza» disse Yasmina.
«Buonanotte, mamma» rispose Melisa. La ragazza salì le scale, indossò il pigiama e si addormentò subito, stremata dal viaggio in treno e dal pomeriggio trascorso a essere il centro dell'attenzione nel bar del paese. Si rivoltò più e più volte nelle lenzuola, immersa in turbolenti sogni da bambina che gli antichi aromi dell'infanzia le avevano risvegliato. Delle esperienze sfocate che trascendevano i cinque sensi, fermentate nel caldo della steppa turca come rimasugli di presagi apparsi agli antichi ominidi. Il sonno di Melisa presto transizionò da un assopimento profondo a un dormiveglia febbricitante che le invadeva il corpo di ormoni sconosciuti in una reazione di disagio nei confronti dell'afa stagnante, degli odori pungenti, di tutto quel vissuto così familiare e al contempo alieno.
Melisa dovette alzarsi dal letto quando il sottile velo del sonno fu spezzato da un rumore sconosciuto. Proveniva dalla finestra semiaperta, accompagnato dallo schiocco dei ramoscelli. Era uno strano fruscio di fronde misto a un mugolo, forse il sottoprodotto dell'attività qualche animale notturno, ma lei era troppo intorpidita dal sonno per distinguerlo. Si strofinò gli occhi e, sbadigliando, decise che era meglio bersi un bicchiere di latte e miele prima di tornare a coricarsi. Melisa scese le scale, maledicendo i capricci del proprio corpo, e si trascinò verso la cucina. Diede un rapido sguardo al soggiorno, per controllare se Mazhar fosse ancora addormentato sul divano, ma c'erano solo i suoi vestiti. La sbronza doveva essergli passata durante la notte. Melisa scrollò le spalle e si mise in punta di piedi per prendere un bicchiere di vetro dalla credenza. Mentre mescolava il latte e il miele un altro crepitio di rametti, accompagnato dal fruscio delle foglie, la fece sussultare. Non c'era dubbio: quel rumore era venuto dal giardino. Melisa aguzzò le orecchie e le parve di sentire di nuovo quel suono che l'aveva svegliata, quella specie di lamento senza voce. Questa volta era davvero vicino. Col cuore in gola, la ragazza fece qualche passo avanti e si avvicinò alla finestra della cucina che si affacciava direttamente sul giardino. Scostò le tende il più cautamente possibile, poi strabuzzò gli occhi per abituarli al buio.
Qualcosa si stava muovendo di fronte al tronco del sicomoro. Ondeggiava su e giù, contorcendosi nell'ombra e sbavando contro le rughe della corteccia. I rami dell'albero si piegavano leggermente sotto il peso di quella creatura, provocando il fruscio delle fronde e il lievissimo tintinnare degli amuleti che si sfioravano. Melisa fu improvvisamente paralizzata dal terrore. Una scarica di brividi le irrigidì ogni parte del corpo, mozzandole il respiro il gola e facendole strabuzzare gli occhi nell'oscurità. La creatura emise ancora una volta quel gemito disumano, ansimando mentre abbracciava il tronco e operava un movimento pelvico contro la corteccia. Melisa vide dei liquidi luccicare alla luce della luna, meno densi della resina, appiccicati al sicomoro. I Nazar penzolanti sembravano fissarla dritta negli occhi, scrutandola oltre le orbite fino a sfiorare il guscio organico dove ora ribollivano le sue paure più antiche e selvagge. Mentre la vista le si abituava al buio, le fattezze della creatura si deformarono e restrinsero finché la luce della luna non illuminò una schiena umana sporca di terra assieme a delle braccia e delle gambe. Melisa poteva vedergli anche le natiche sudate e i capelli neri, e la corporatura che le sembrava simile a quella di Mazhar. Non l'aveva mai visto nudo, certo, ma dalla statura e dai muscoli sembrava proprio lui. Inorridita, Melisa richiuse le tende e si allontanò dalla finestra. Il cuore le palpitava nelle orecchie, assordandola e soffocando il rumore delle fronde del sicomoro. Arretrò verso le scale, scuotendo la testa per mantenersi lucida, e dovette fare uno sforzo enorme per non emettere versi di paura mentre boccheggiava. L'istinto le diceva di correre, di mettersi al riparo senza voltarsi indietro. Così Melisa risalì le scale in un baleno, le gambe pulsanti per l'adrenalina, e si precipitò in camera sua cercando di fare meno rumore possibile. Chiuse la porta a chiave e trasse un sospiro pregno di terrore, dopodiché si rannicchiò sul letto. Ogni suono era amplificato, scaturendo incubi allucinatori nella sua mente invasa da paura e sgomento. Aveva davvero visto suo padre, lì, abbracciato a quell'albero? Melisa non riusciva a cancellare quell'immagine dalla testa, quei movimenti innaturali nell'oscurità e i Nazar che le rivolgevano mille sguardi offuscati e predatori. Presto il fruscio delle fronde cessò e Melisa udì dei passi nel giardino, poi in casa, poi che salivano le scale. Si strinse ancor più forte alle coperte, ma i passi si fermarono davanti alla camera dei genitori, seguiti dal cigolio della porta che si apriva, e finalmente cessarono. Era decisamente Mazhar. Melisa si sentì leggermente confortata da quel pensiero, ma la scena a cui aveva assistito non la lasciò in pace. Possibile che l'alcool gli avesse fatto quell'effetto, portandolo a spogliarsi e abbracciare l'albero con quei movimenti ritmici? Era ancora scossa e così rimase fino al mattino, quando si alzò alle otto e mezza dopo un paio d'ore di sonno senza sogni.
«Buongiorno» la salutò Yasmina, accertandosi che Melisa fosse già sveglia prima di parlare «è meglio partire presto, altrimenti poi c'è troppo caldo»
Melisa si alzò dal letto e si guardò allo specchio. Aveva ancora gli occhi infossati, come se lo spavento le avesse marchiato le rughe del viso in maniera indelebile. La sua mente ci avrebbe impiegato un po' a riprendersi. Quella visione continuava a contaminarle ogni pensiero, rendendo sinistri i pensieri quotidiani e deformando anche il piacere della nostalgia. Si sarebbe introdotta tra i ricordi indelebili, cristallizzata nello stesso scaffale delle fotografie d'infanzia, del primo bacio e della perdita della verginità. Melisa si augurò proprio di no.
La ragazza scese le scale per fare colazione ed ebbe un sussulto quando vide Mazhar chino a spalmare la marmellata di albicocche sul pane. Egli sembrava piuttosto sereno e le rivolse un radioso sorriso quando la vide in piedi di fronte alle scale. Melisa scacciò via il ricordo della sera precedente e si sedette a tavola con un sospiro.
«Tutto bene?» domandò Mazhar, addentando il pane e marmellata.
«Sì, ho solo dormito male» rispose lei. Gli attimi di angoscia trascorsi in camera l'avevano fatta sudare molto, era meglio farsi una doccia.
«Mi dispiace. I nostri materassi non sono buoni come quelli di Berlino. Se vuoi puoi provare il nostro letto. Io posso dormire sul divano»
«No, no. Ci mancherebbe» Melisa lanciò uno sguardo turbato ai vestiti che ancora giacevano in disordine sopra il mobile.
«Sul serio, se hai bisogno di...»
«Non fa niente, papà»
Mazhar annuì impassibile. Si mise a studiare il volto della figlia mentre masticava con la bocca semiaperta e si versava un'altra tazza di tè nero. Yasmina entrò ciabattando nella stanza, si sistemò i capelli in una coda di cavallo e si sedette a tavola.
«Il signor Özçelik mi ha dato il permesso per tutta la settimana» disse con un sorriso «ho parlato con lui al telefono»
«Ottimo. Così Melisa non resterà a casa da sola» rispose Mazhar.
«Mi doveva un favore dopo il punto e croce del leoncino del Galatasaray. Suo figlio lo ha appeso in camera sua, ha detto che era il migliore fra i regali che aveva ricevuto»
«Allora è solo mezzo favore. Anzi, non è neanche mezzo»
Yasmina rise «Almeno quello è più sveglio del figlio del signor Azer – si voltò verso Melisa – ti ha riempito la testa dei suoi discorsi politici, eh? Anche i pappagalli sanno ruggire come i leoni, se ne imitano il verso»
In quel momento dei gridolini echeggiarono dal giardino. Mazhar corrugò la fronte e scostò le tende della finestra per dare un'occhiata fuori. Due bambine, una con un hijab rosa e l'altra con uno nero, si rincorrevano nel giardino emettendo strepiti divertiti. Si stavano inseguendo con una ramazza, girando in cerchio intorno al sicomoro. Melisa ebbe un brivido alla vista dell'albero. Mazhar, invece, grugnì sottovoce.
«Ma non vanno a scuola, quelle? Sono sempre qui in giardino a irritarci» mormorò, la sua espressione improvvisamente più seria.
«Oggi è domenica» rispose Yasmina.
«Melisa da piccola non era così. Non starnazzava come una piccola oca sciita»
«Non credo che siano sciiti, anche gli sciiti venerano Allah e ne hanno un grande rispetto. Quelli non hanno rispetto per nessuno. Secondo me fingono»
«La mia bambina passava le ore a studiare, a curare l'orto, a prepararmi il pranzo dopo il lavoro. Non come quelle due...»
«A proposito di studio,» Yasmina si portò alla bocca una forchettata di uova «oggi dobbiamo tornare prima di sera dalle cascate. Melisa deve studiare. Tutto bene, Melisa? Non mangi nulla?»
La ragazza si riscosse dai suoi pensieri. Per tutto quel tempo era rimasta a fissare il vuoto, senza mettere nulla nel piatto, e i genitori la stavano fissando con sguardo preoccupato. Si sentì improvvisamente molto imbarazzata e dovette resistere alla tentazione di fuggire dalle loro occhiate.
«Scusatemi» farfugliò, allungando il braccio per prendere un simit ancora caldo.
«C'è qualcosa che non va?» le domandò Mazhar con tono quasi severo, con cenni d'impazienza.
«No. Sono solo stanca. Quindi andiamo a vedere le cascate?»
«Sì. Andiamo lì»
«Magnifico»
I due coniugi tornarono a mangiare con calma, lanciando di tanto in tanto delle occhiate impensierite alla figlia. Il silenzio nell'aria si era fatto più teso e Mazhar sbuffava ogni volta che le bambine in giardino emettevano uno schiamazzo particolarmente forte.
«Che cosa studi, dopo?» domandò Mazhar, cercando di alleggerire il sottile nervosismo che aleggiava nella stanza.
Melisa bevve un sorso di tè nero «Chimica organica due. È uno dei corsi più complicati dell'università»
«Ah sì?» l'uomo sembrò compiaciuto «Ma tu sei intelligente, tesoro. Non avrai gli stessi problemi che hanno gli altri»
«Non saprei. È piuttosto difficile. Devo fare una ricerca sugli ossidanti moderni, il periodinano di Dess-Martin, il perrutenato, le ossidazioni di Swern.. oggi ripasso l'acilazione»
«Acilazione... mi suona piuttosto come un acı bir azab»
Melisa rise, coprendosi la bocca con le mani, e Mazhar le rivolse un'occhiata piena di maliziosa ilarità.
«Con tutti questi paroloni che usi, non posso fare a meno che pensare che stai lavorando a una di quelle tecnologie che cambiano il mondo. Sarà meglio che dopo la laurea tu faccia una grande scoperta, una di quelle che cambiano il mondo. Guai a te, altrimenti...» disse l'uomo, mentre sbucciava un mandarino.
«Mi sopravvaluti» rispose Melisa.
«Oh, questo non è vero. Sei tu che ti sottovaluti»
«Faccio del mio meglio»
I tre finirono la colazione e sparecchiarono in fretta la tavola, dopodiché Melisa restò a controllare le chat di Whatsapp mentre Mazhar e Yasmina si cambiavano al piano di sopra. Dopo aver risposto a Kurt e Katrina mise in carica il cellulare e sospirò, i gomiti che fremevano poggiati sopra le gambe. Era ancora parecchio nervosa, ma riponeva una discreta fiducia nella camminata fino alle cascate. Forse l'avrebbe aiutata a distrarsi abbastanza a fondo da toglierle quell'espressione di smarrimento dalla faccia. Melisa si affacciò alla finestra sul giardino e vide che le due bambine con l'hijab si erano fermate a fissare il tronco del sicomoro. Una di loro aveva allungato il dito verso una sostanza vischiosa che si era raggrumata sulla corteccia all'altezza del loro petto. Strabuzzando gli occhi, Melisa vide che era qualcosa di perlaceo e semitrasparente, di certo non resina. La bambina osservò il fluido e lo ammirò, incerta sul da farsi. Si pulì il dito sul vestito, disgustata, poi corse dentro casa continuando a strepitare. Più sopra, vicino alla base da cui spuntavano i rami, si potevano scorgere le macchie di saliva seccata al sole e il sudore che aveva attirato una colonna di formiche nere. Melisa vide quel liquido denso e biancastro colare lentamente, flemmatico come la goccia di pece centenaria di Thomas Parnell. Nella sua mente diversi pensieri le davano indizi su cosa poteva essere, ma lei non volle ascoltarli. Tirò bruscamente le tende e infilò un thermos pieno di tè nello zaino, poi se lo infilò in spalla.
«Andiamo, Melisa!» la chiamò Mazhar, già pronto davanti alla porta di casa.
«Arrivo!»
Il cielo era leggermente velato di nuvole quando i tre salirono in auto e partirono verso le cascate. Parcheggiarono al bordo della strada che saliva da Yağmurlar, nel solito piazzale di sterrato, e s'incamminarono verso la gola a est. La passeggiata fu piacevole quanto Melisa la ricordava, egualmente in salita e in discesa all'ombra degli alberi che costeggiavano il sentiero. Di tanto in tanto spuntava qualche catapecchia collinare con un giardino di sassi e il tetto levigato da migliaia di piogge. I tre non chiacchierarono molto, preferendo restare nel silenzio abitato dai versi degli uccelli e dallo scrosciare del torrente che cresceva sempre più di volume. Arrivarono al ponte di pietra per mezzogiorno, respirando pesantemente per lo sforzo, e scesero lungo il sentiero fino ad arrivare al piccolo piazzale di rocce e sassi. Lì stesero la coperta e mangiarono un po', godendosi la luce del sole attutita dalle nubi e i pochi avanzi della colazione. Melisa si rese conto che marciare in quel luogo isolato non l'aveva granché rassicurata. Anzi, lei aveva dovuto fissarsi i piedi a ogni passo dato che la sua mente intravedeva volti e forme antropomorfe che la fissavano tra gli alberi come i Nazar Boncuğu del sicomoro. Sapeva che era tutta un'illusione, che la sua mente si era solo impressionata a causa della disavventura notturna, eppure l'angoscia non dava segni di diminuire. Mazhar e Yasmina si misero a parlare della cappa di ricordi che ammantava quel posto, come un'intima biosfera invisibile trafitta dal torrente. Il loro eden segreto, così scontato e povero, forse neppure particolarmente bello, ma a cui le memorie davano un nuovo significato. La loro voce era coperta dall'assordante rumore delle cascate e le sembrava distante, soffocata.
In questa foto sono seduta sul bordo delle cascate con un costume da bagno nero. È una foto in verticale, il che fa vedere molto bene l'altezza dello strapiombo, ma io non ho paura. Nemmeno mio padre ha paura, chino di fianco a me in uno squat, il sorriso oscurato dai baffi e lo sguardo nascosto dagli occhiali da sole. L'ombra della gola taglia la foto a metà, separandoci nettamente.
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