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I

Melisa alzò nuovamente gli occhi verso il tetto del vagone. Non c'era alcun dubbio: quelle strane ramificazioni biancastre sparse per tutto l'intonaco dovevano essere un'infestazione di muffa. Somigliavano più a una sorta di lichene, un apparato vascolare micotico che si estendeva per quasi tutta la larghezza del vagone e metà della sua lunghezza, invadendolo coi suoi tentacoli. Era uno spettacolo inusuale vedere della muffa bianca all'interno di un vagone ferroviario: un luogo che il senso comune avrebbe additato come inospitale per colonie di microrganismi voraci. Melissa addentò un altra albicocca secca, prendendola dal sacchetto acquistato alla stazione di Smirne. Il viaggio era stato piuttosto logorante, non essendo lei abituata al caldo dell'Anatolia, e solo grazie a quei frutti era riuscita a superare i sintomi da assopimento post-volo. La ragazza s'infilò gli auricolari nelle orecchie e poggiò la testa sul vetro del finestrino, osservando il paesaggio rurale scorrere tra i brividi di sonno. Doveva essere quasi arrivata, a destra vedeva le montagne del Bozdağ, di cui conservava vividi i ricordi d'infanzia. Erano picchi brulli e nerastri, degli ammassi di terra riarsa più che somigliavano a vere montagne solo quando la neve li ricopriva in inverno. Croste aguzze di una faglia tra due placche tettoniche, un rigurgito di terra più antica dell'uomo. A sinistra, invece, il paesaggio mostrava solo distese sconfinate di erba giallastra e filari di arbusti secchi in coltivazioni sconfinate. La tipica vista della campagna turca si sarebbe facilmente potuta scambiare per le steppe spagnole dove il cinema europeo amava un tempo girare i western, o almeno le scene con praterie verdi ma lontanissime dal meritarsi l'aggettivo "rigoglioso". Non c'era nulla di fertile, ma nemmeno di morto, pareva invece una sorta di limbo dal terreno privo di ondulazioni e abitazioni che dessero l'impressione di essere abitate.
Melisa fece appena in tempo a scendere a Köseali, trascinando a fatica le valigie, che il treno era già ripartito arrancando sui binari arrugginiti. La ragazza lo osservò allontanarsi e sbatté più volte le palpebre per abituarsi alla luce del sole. Uscì quindi dalla stazione, intirizzita da un brivido di nostalgia, e si avviò lungo la strada che conduceva alla periferia del villaggio. Il paese era come l'aveva lasciato, con le insegne dei bar scrostate e le strade ricoperte di terriccio sabbioso. Le abitazioni erano moderne (seppur rustiche), c'erano la TV via cavo e un sistema fognario, eppure le faceva pensare a un luogo di siccità perenne. Siccità idrica, certo, viste le crepe nella terra secca, ma anche umana. Quel pensiero fece star male Melisa. Forse l'unica pianta riarsa in quel villaggio desolato era lei, seccatasi tra i palazzi universitari di Berlino fino ad avvizzirsi e diventare una studentessa brillante, certo, ma anche cinica e snob. Era meglio se s'impegnava a smorzare quel lato di lei nei giorni a venire e a lasciarsi assorbire dal calore degli affetti familiari dimenticati. La ragazza ansimò sotto la canicola tardo-primaverile mentre trascinava le pesanti valigie sull'asfalto, avvicinandosi al quartiere che più di tutti le fece riaffiorare i ricordi d'infanzia. Sentì il profumo dei limoni e il chiocciare delle galline nell'allevamento vicino, un rumore che le sue orecchie di bambina avevano sempre detestato ma che ora le sembrava dolce, grottescamente bucolico. Sentì anche la voce di suo padre provenire dalla casa. Un sorriso involontario le stirò le labbra.
«Melisa! Tesoro mio!» esclamò l'uomo quando la vide avvicinarsi al giardino. Le corse incontro con gli occhi pieni di entusiasmo e subito le sfilò di mano le valigie.
«Bentornata a casa. Com'è andato il viaggio?» chiese, accompagnandola lungo il vialetto.
«Ciao, papà» rispose Melisa «il viaggio è andato bene»
«Guarda che bella che ti sei fatta »
Il bieco sorriso sul volto dell'uomo fece arrossire la ragazza. Anche suo padre, Mazhar, non era cambiato di una virgola dopo tutti quegli anni. Sul viso aveva ancora la stessa espressione fiera da pater familias stoico e vigoroso, un uomo coi piedi per terra ma pieno di affetto per la famiglia e gli amici. Nonostante i cinquant'anni d'età, i suoi capelli e baffi erano ancora neri e lucidissimi al sole e i suoi muscoli guizzavano energici sotto la pelle olivastra mentre trasportava le valigie.
«Abbiamo chiamato un po' di gente per festeggiare il tuo ritorno, sono tutti giù al bar,» disse, senza smettere di sorridere «se vuoi puoi unirti a noi. Oh, non aspettarti grandi cose, è solo un piccolo rinfresco»
«Davvero?»
«Certo. Ma se sei stanca e vuoi riposarti posso dir loro di aspettare. Posso capire, dopo un viaggio così lungo»
«Oh, non preoccuparti. Ce la faccio» rispose Melisa, lievemente imbarazzata.
«Sicura?»
«Sì, sono sicura»
«Sono felice di rivederti» ripeté l'uomo. I due si tolsero le scarpe e le lasciarono sulla soglia, poi entrarono in casa. Yasmina, la madre di Melisa, stava preparando del tè nero in cucina ed emise un discreto gridolino di sorpresa quando la vide fare capolino dalla porta.
«Tesoro!»
Le due donne si abbracciarono e baciarono sotto gli occhi luccicanti di Mazhar. Anche lei non era cambiata molto in quegli anni: era ancora parecchio sovrappeso e il suo ventre tondeggiante ricordò a Melisa i momenti in cui amava affondarci il viso e soffiare, facendole il solletico.
«Ma guarda com'è cresciuta! La nostra bambina è diventata una donna» esclamò Yasmina, rivolgendosi al marito.
«Gliel'ho detto anch'io» aggiunse lui. Melisa giocherellò coi capelli, commossa da quell'accoglienza così calorosa. Si guardò intorno, esplorando i corridoi piastrellati e i tappeti vivaci a cui la sua mente spesso aveva pensato durante le sessioni tra i freddi edifici di Berlino. Respirare il profumo tipico della dimora, misto all'aroma di tè nero nel samovar, le provocava una nostalgia intensa accompagnata a una strana sensazione di vuoto. Non era una vacuità negativa, però, solo una sorta di istintiva amarezza nell'idea di essersi persa troppi anni lontano da quel luogo pregno di ricordi.
«Allora, com'è andato il viaggio? Faticoso?» domandò Yasmina, tornando a occuparsi del tè.
«Un po'. Ma è bello essere qui dopo così tanto tempo» rispose Melisa.
«Ohh, lo dicevo io! Lo dicevo che ti mancava! Ma potevi tornare a trovarci anche prima, sai, in tutti questi anni...»
«Yasmina!» la richiamò Mazhar con tono giocosamente severo «Lo hai detto tu stesso, ora è una donna! Sa prendere da sola le decisioni. Sa scegliere la sua strada»
«Senz'altro. Poi dovrai raccontarci tutto per filo e per segno. So che gli studi vanno bene ma voglio sapere come ti trovi, se ti piacciono l'appartamento e le amiche con cui esci. Vedo che sei anche dimagrita, ti sei fatta scarna... non ti piace come cucinano lì?»
«Mmh» Melisa tese la mano e la piegò per indicare un "così così". Entrambe le donne scoppiarono a ridere.
«La loro cucina non è come la mia, no?» scherzò Yasmina mentre prendeva il samovar e iniziava a versare il tè.
«No, decisamente no»
Melisa si voltò verso Mazhar, che le stava fissando con sguardo compiaciuto. L'uomo sollevò una delle valigie che aveva in mano e la puntò verso le scale.
«Allora io porto su le valigie, le metto in camera tua. Poi andiamo al bar per festeggiare» disse.
«D'accordo» rispose la ragazza.
Mazhar fece un cenno con la testa e sparì su per i gradini. Mentre lo aspettava, Melisa si addentrò timidamente nei corridoi del piano terra, immergendosi nel tiepido bagno di memorie che le fotografie alle pareti riportavano a galla.
Qui c'è una foto di me da piccola, con un'enorme zucca in mano. È una zucca di dimensioni considerevoli, quasi più grande di me, e mio padre lì dietro ha un sorriso trionfante. Mi abbraccia con i guanti da lavoro e un sorriso acerbo. La foto è sovraesposta, penetrando oltre i contorni del mio vestitino bianco in un effetto a metà tra un'apparizione spettrale e quell'alone sognante che si vede nei personaggi delle vecchie sitcom romantiche.
Melisa si domandò se l'orto fosse ancora lì in giardino. Uscì dalla porta sul retro, scostando la zanzariera, e le sue scarpe da ginnastica crepitarono sui ramoscelli che erano sparsi sulla terra arida. L'orto non era più lì e al suo posto, al centro del giardino, c'era invece un albero che si stagliava contro la casa di fronte. Era un albero florido, con un tronco spesso e bitorzoluto da cui si diramavano una miriade di fronde ricoperte di foglie verdi. Melisa aggrottò la fronte di fronte a quella vista; non si ricordava di quell'albero. Forse i suoi genitori lo avevano piantato appena lei se n'era andata e, crescendo, aveva già raggiunto quelle dimensioni. Dio, era già passato così tanto tempo? Avvicinandosi, la ragazza notò che ai rami erano stati appesi dozzine e dozzine di Nazar Boncuğu, una marea di occhi azzurri che la scrutavano attentamente in ogni sua movenza ondeggiando al vento. Melisa ne sfiorò uno e le fronde ebbero un sussulto, una momentanea torsione uniforme a spezzare l'ipnotica e scoordinata danza degli amuleti. Solo allora lei mise a fuoco la casa di fronte e notò il volto di un uomo che la fissava dalla finestra.
«Eccomi» la voce di Mazhar da dietro ruppe il silenzio. L'uomo fece una goffa corsetta fino al giardino e mise una mano sulla spalla di Melisa. Il suo sorriso sembrò allargarsi ancora di più quando egli vide che la ragazza era interessata all'albero.
«Ti piace? È un sicomoro, una specie di fico molto antico. Mi occupo io della potatura e di tenerlo innaffiato» disse.
«Come mai tutti questi amuleti?» chiese Melisa, indicando la massa di Nazar Boncuğu.
«Per proteggerci dal malaugurio. Sai come si dice: occhio per occhio. L'albero trattiene su di sè tutte le maledizioni e veglia sulla casa, è il nostro guardiano,» Mazhar gli scompigliò affettuosamente i capelli «ora andiamo, ci sono dei meze che ci stanno aspettando»
I due si avviarono lungo il vialetto che conduceva alla strada. Quando Melisa tornò a voltarsi verso l'albero, notò che non c'era più nessuno affacciato alla finestra della casa di fronte.

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«Smirne è cambiata come città. Ora è una vera metropoli, un grande formicaio di cemento armato dove molti piccoli operai servono la loro regina occidentale. La devi vedere, schiere di yuppies nei dolmuş con le loro valigette piene di pappa reale, quelle formiche nere che infestano i battiscopa. Dico questo senza pensare che i conservatori abbiano ragione, eh, mi raccomando. Che se al posto di Erdogan ci fossero state le regine di Smirne, adesso potrei andare al mercato e le uova costerebbero dieci volte di meno. Le uova – il signor Azer rise – di Bahadir, giuro che non ho fatto apposta a infilarlo nella metafora. È che è una cosa naturale, capisci, perché i periodi migliori sono quelli di transizione tra epoche, nel momento in cui il pendolo non è né da una parte né dall'altra. Lo sapeva bene Ecevit, sai. Si stava bene negli anni '90 ma ora sono tutti che parlano di secularism, di garpçılık, nessuno fa nemmeno più il ramadan. Non che a me sia mai importato qualcosa di chi fa e non fa il ramadan, infatti non biasimo nessuno che ha altri grilli per la testa, mio nipote a Berlino per esempio non lo fa mai»
Melisa scrollò le spalle quando suo padre le rivolse un'occhiata piena di aspettative. Non avrebbe mai posto la domanda che gli frullava in mente e cercò una risposta nello sguardo della ragazza, ma lei si mise a giocherellare distrattamente con uno stuzzicadenti.
«E te, Melisa, hai mai votato Cem Uzam?» continuò il signor Azer.
Mazhar scoppiò a ridere «Aveva cinque anni!»
«Devi scusarmi, il tempo scorre troppo in fretta nella mia mente. Mi sembra ieri che i partiti kemalisti avevano ancora una possibilità di vincere senza agire nell'ombra, senza esser corrotti dalle mascherate europee e dai gasdotti del Mar Nero. Ma sai come diceva Karaosmanoğlu in Sodoma e Gomorra: "Quanto è strano il cuore dell'uomo! Ciò che lo fa gioire oggi lo fa soffrire domani"»
«Non sono mai stata interessata alla politica, a essere sincera» disse Melisa, senza vergogna «preferisco la scienza»
Prese in mano un İçli köfte da piluccare ma un altro boato elettronico la fece sobbalzare sulla sedia. Il figlio del signor Azer, un diciottenne coi capelli unti e una canottiera, stava giocando a uno sparatutto su un computer portatile ed era completamente assorbito dalle immagini sullo schermo. Non c'era molta gente nel locale, ma lui faceva parte delle facce che Melisa non ricordava. Meglio così, dato che aveva già dovuto salutare fin troppi visi che la memoria stentava a ricomporre dopo gli anni a Berlino.
«Non hai di meglio da fare, tu?» disse il signor Azer, lanciando un'occhiataccia al figlio, ma quello era troppo inebetito dal videogame. Dopo un imbarazzato silenzio, Mazhar si schiarì la gola e disse: «Melisa ora sta studiando scienze dei materiali. È una materia molto complicata. E in tedesco, per giunta»
Il signor Azer annuì «Me lo ricordo, sì. Me l'hai già detto. Mio nipote invece studia alla facoltà di psicologia. Immagino non vi siate mai incontrati, in un'università così grande»
«No. Non credo» rispose Melisa.
«Almeno voi studiate, al contrario di questo asino» il signor Azer fece un cenno verso il figlio «ma i risparmi bastano per uno solo. Qualcuno deve pur aiutarmi con i campi mentre io sono in fabbrica. Ti piacerebbe conoscerlo?»
In quel momento, la porta del locale si aprì e gli occhi di tutti saettarono verso di essa. Un silenzio di tomba calò improvvisamente tra i tavoli, l'atmosfera a un tratto gelida e immota, pregna di tensione. Melisa s'irrigidì, colta alla sprovvista da quella reazione collettiva. Alzò gli occhi. Anche suo padre e il signor Azer erano ammutoliti e si erano messi a fissare la porta con sguardo cupo, quasi minaccioso. Dalla soglia fece capolino un uomo vestito di stracci e con la barba incolta, e gli occhi di tutti lo seguirono attentamente mentre egli si trascinava verso il bancone. La sua pelle era molto scura, ma i suoi occhi erano di un azzurro intenso, il blu con cui erano dipinte le porte di Ishtar a Babilonia. Nessuno mosse un muscolo quando egli si avvicinò al bancone e ordinò una tazza di tè nero, il silenzio spezzato solo dal ronzio dei moscerini della frutta e delle pale del ventilatore. Melisa si sentiva a un tratto parecchio inquieta e rabbrividì quando lo sguardo dello straniero si posò su di lei. Era remoto, distaccato, indecifrabile nel mezzo della sua espressione al contempo acida e arcana, ombreggiata di rughe malevole. Dopo qualche istante, il barista lo servì di malavoglia e lui pagò, quindi se ne andò con la tazza in mano. Gli occhi di tutti continuarono a seguire la sua figura e non le si staccarono di dosso finché egli non sparì dietro la porta. Una volta svanita l'ingrata presenza, quindi, il brusio della sala tornò a ravvivarsi pian piano e ognuno tornò a badare ai propri meze e ai bicchieri di plastica. Melisa tirò un sospiro di sollievo.
«Che faccia tosta» mugugnò il signor Azer.
«Già» gli fece eco Mazhar.
«Un giorno lo troverò a bere rakı nelle tazze di tè, come fanno gli sceicchi»
Melisa rivolse uno sguardo preoccupato verso il padre.
«Chi è l'uomo che è entrato dalla porta?» domandò sottovoce. Mazhar assunse un'espressione molto seria prima di rispondere.
«Quello era Ishkur, il nostro vicino. Abita nella casa di fronte a noi, dall'altra parte del sicomoro, insieme alle sue tre mogli e i figli. Viene da Şanlıurfa, forse da ancora più in là, e si è trasferito qui da qualche anno. Ma non è il benvenuto nella nostra comunità»
«Perché?»
Mazhar si accese una sigaretta. L'argomento doveva turbarlo, perché un irrazionale nervosismo era sbocciato in lui e ora permeava ogni suo movimento.
«Hai presente il sicomoro che ti ho mostrato prima? Il nostro albero dei Nazar? Nel giardino?» chiese.
Melisa annuì timidamente.
«Una notte l'ho beccato lì, chino con un vaso da notte pieno di escrementi. Da qualche settimana cagava in un secchio e svuotava la sua merda sul nostro albero per concimare la terra,» l'uomo trattenne il fumo nei polmoni per qualche secondo prima di espirare «e come puoi immaginare, io non voglio che i miei fichi, i fichi che mangia la nostra famiglia, abbiano il sapore della merda di quello lì. Capisci? Infettava il nostro albero, l'albero che protegge la nostra famiglia, con i suoi schifosi escrementi. Crede che il sicomoro sia suo, insiste per raccogliere metà dei frutti alle soglie dell'autunno – fece una breve pausa – io non gliela darò mai metà dei frutti a quello lì»
«Non è di queste parti. Non ci piace» aggiunse il signor Azer «ma non ti preoccupare, non ha fatto del male a nessuno»
«Non ancora» rispose Mazhar. Spalancò la bocca, lasciando che il fumo di sigaretta ne uscisse in un'esalazione lenta e nubiforme, come una voluta d'incenso.
«Credevamo fosse dell'Hezbollah, magari una brace non ancora del tutto spenta»
«Non era una storia di vent'anni fa?» domandò Melisa, sempre più inquietata dal livore con cui parlavano i due uomini.
«Non temere, comunque, non ti farà nulla finché ci sarò io qui a proteggerti»
Un'altra esplosione in 32bit proveniente dalle casse del computer fece sobbalzare tutti e tre.
«E che cazzo, Serkan!» sbraitò il signor Azer.
«Uh? Scusate» mugolò il ragazzo. Si decise finalmente ad abbassare il volume.

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