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Rendez-vous

Dove mia madre mostra quella empatia che tutte le madri dovrebbero avere


Martedì 29 agosto 2010

Nel suo ufficio, lo avevamo trovato seduto dietro la scrivania. Di fronte a lui, ci eravamo accomodati io e i miei genitori. Io avevo cercato disperatamente di avere un'aria risoluta. I miei genitori avevano più delle facce di pietra.

«Buongiorno a tutti» aveva esordito il nostro ospite, «Mi ha parlato molto rapidamente Portanova e quindi prima di procedere vorrei capire meglio il contesto. Anche perché la situazione della classe di scienze umane è abbastanza complessa. Chiara, dico bene? Vuoi spiegarmi un po' le tue motivazioni?»

«Sì, certo. Io mi sono iscritta all'alberghiero perché me lo hanno fatto credere più adatto, ma mi sono resa conto che, ecco, mi sono sbagliata. Cioè, non è quello che voglio. Io voglio frequentare il liceo.»

Avevo colto mia madre a fare una faccia vagamente infastidita, e subito ero scattata.

«È il mio futuro, mamma, e penso di avere il diritto di scegliere!»

«Mi scusi, Preside, voglio chiarire» aveva approfittato mio padre, «Siamo qui perché, da genitori responsabili, vogliamo che senta anche altre opinioni. Stava dicendo che la situazione della classe di scienze umane è complessa?»

«Complessa, sì. Diciamo che è affollata» aveva detto il Preside, «La classe di Scienze Umane è composta da ventotto studenti e Chiara sarebbe la ventinovesima. Purtroppo il provveditorato non ci ha consentito di fare due classi a causa del fatto che già per il liceo scientifico tradizionale abbiamo due classi da ventidue studenti. Quattro classi di liceo per settantatré studenti è una ipotesi che per il provveditore era irricevibile.»

Dopo una breve pausa, in cui probabilmente aveva raccolto le idee, aveva proseguito «E' una situazione dove apprendere in maniera proficua è onestamente complicato. Chiara, mi sembra che tu abbia le idee molto chiare, scusa il gioco di parole, ma devo chiederti: perché pensi che il liceo sia la scelta giusta per te?»

Me l'ero preparata, e l'avevo sparata.

«Perché voglio studiare nell'ambito della psicologia. Non voglio stare in una scuola che mi insegna solo un mestiere. Voglio avere più possibilità. Magari decidere per l'università.»

«Chiara ma se parlavi di andare a fare la barista in spiaggia fino a ieri?» aveva buttato fuori mia mamma, «Mi hai persino detto che punti al diploma e basta. Sappiamo tutti che il liceo non è per te!»

«Perché no? Perché devo essere sempre quella che "non ce la può fare"?» avevo risposto, scocciatissima.

Il Preside aveva stoppato la replica di mia madre alzando di un'ottava la voce.

«Signori, capisco che siate preoccupati, ma lasciate che Chiara risponda» poi si era rivolto a me «Sai cosa comporta scegliere un liceo? Vuol dire dedicarsi seriamente allo studio, avere metodo e continuità e non disciogliersi in un gruppo così numeroso. Senti di avere acquisito questi elementi alle medie? Ti senti pronta per questo impegno?»

«Sì, penso di sentirmelo.»

«In una classe da trenta?! Signor Preside, a Chiara è stato consigliato un professionale e in tutti i colloqui con i professori ci hanno sempre martellato sul fatto che si distrae. Lei la immagina in una classe da trenta?» aveva abbaiato mia madre.

«Non si può cambiare, magari?» avevo detto, senza molti argomenti.

«I tuoi professori ti conoscono bene. Chiara, dai non sragionare, solo per seguire-»

«Non voglio cambiare per seguire le mie amiche! Voglio solo avere una possibilità.»

«Chiara» mi aveva detto il preside, vedendomi in confusione, «cambiare scuola a pochi giorni dall'inizio delle lezioni è una decisione seria. Sono sicuro che le amicizie non siano un motivo centrale. Voglio solo che ponderi bene la scelta. Valuti bene il contesto che lasci e il contesto che vorresti andare ad abbracciare.»

«Preside, ma come faccio a scegliere con una così?!» avevo indicato mia mamma.

Lui, visibilmente scocciato, si era messo la mano sul volto, tamburellando le dita sul mento.

«Il mondo non funziona così, Chiara» aveva detto mio padre, tenendo buona la moglie «Non è una sfida, è il tuo futuro. Lo sai come la pensiamo, non vogliamo metterti i bastoni tra le ruote. Ti vogliamo solo evitare una delusione più grande. Devi accettare che a volte le cose si fanno un passo alla volta. Pensi che tu non possa andare comunque all'università dopo l'alberghiero?»

«Questo è scontato» aveva aggiunto il preside, «non è una sconfitta dare il massimo nella scuola che hai già scelto. Ogni percorso ha il suo valore. Tieni conto che nel cervello degli adolescenti, la vera sconfitta è dover ammettere di aver sbagliato scuola magari dopo un anno di liceo.»

Tre contro una. Il vero problema era che il Preside sembrava dire cose sensate, e anche mio padre aveva detto cose sensate. Una classe da trenta in un liceo, e i miei genitori pronti a rinfacciarmi quel cambio dell'ultimo momento ai miei primi voti negativi.

«Chiara, ti auguro di scegliere la tua strada con calma e convinzione, e vedrai che con l'impegno otterrai grandi risultati, qualunque scuola frequenterai» aveva concluso il preside, per indirizzarci verso la chiusura di quella riunione.

«Grazie» mi ero limitata a dire.

I miei genitori si erano alzati e il Preside ci aveva stretto la mano.

Perchè mi ero infilata in quel casino? Perché mi ero fatta prendere da tutta quella storia? Perché avevo lasciato in secondo piano il pensiero ragionevole, facendomi caricare dall'entusiasmo delle mie amiche?

Perché? Perché? Perché?

Perchè ero sempre così incasinata?


Lunedì 13 settembre 2010

Ero andata a salutarle all'autostazione, dove prendevano il tram delle 7.25. Avrei potuto dormire easy un'altra mezz'ora, ma erano le mie amiche e volevo far loro sapere che per loro c'ero sempre.

E forse volevo sentirmi dire lo stesso da loro.

Avevo pianto diverse volte all'idea di non essere più in classe con loro, e quella mattina di certo non ero proprio un fiore, ma il fatto di averle viste come quando andavamo alle medie in gruppo, mi aveva un po' sollevata: forse potevamo continuare con le routine quasi quotidiane.

Poi era arrivato Fede Toschi e aveva salutato Matilde e i due avevano avuto una specie di strano imbarazzo nell'abbracciarsi lì davanti a noi. Qualcosa mi puzzava ma si stava facendo tardi, avevo riprendere la bici e dirigermi verso l'alberghiero, lì dopo il ponte.

Mi sentivo piuttosto sola e avevo fatto lo sforzo di messaggiare Noemi, l'unica ragazza della mia classe delle medie che era anche nella mia nuova classe all'alberghiero. Mi faceva uno strano effetto pensare che io e lei fossimo in classe assieme da ormai nove anni ma che in realtà la conoscessi così poco, perchè nell'arco dei tre anni di medie l'avevo completamente abbandonata.

E quando l'avevo raggiunta vicino al cancello laterale della scuola, mi era tornato in mente immediatamente perché avevo preferito coltivare altre amicizie.

«Uh, la Raggi!» mi aveva apostrofato Gabri, che assieme a Tommaso e Noemi, formava il piccolo gruppo che mi portavo dietro dalle medie, «Ma non hai caldo con la felpa?»

La sua era una battuta ironica, perchè sicuramente gli scocciava non vedermi con addosso solo la maglietta.

«No» avevo risposto seccamente, pensando che in effetti era un caldo bestiale ma non mi andava minimamente di togliermi la felpa in quel momento.

Gabri per me era odioso, stupido come un cestino dell'immondizia, e dava il peggio di sé proprio in compagnia di Tommaso. Ma la cosa peggiore era che Noemi letteralmente pendeva dalle sue labbra da almeno un anno, e non faceva nulla per nasconderlo, mentre lui la trattava come gli spicci di rame quando te li danno di resto.

E io, assieme a quelli, ci avrei dovuto passare un po' di tempo, sempre che uno di loro non venisse segato, che non era una opzione così improbabile soprattutto per Gabri che già alle medie correva sul sottile filo che divide chi non ce la fa da chi è anche dannoso per la classe.

Poi alla fine eravamo entrati, come primi, essendo la 1A. Nel passare davanti a tutti gli altri, avevo incrociato lo sguardo con Mirkino che sembrava molto più a suo agio di me, come se fosse a casa sua. Mi ero accodata al gruppetto, cercando di capire chi fosse quel Riccardo Tommaselli che non vedevo dall'epoca delle elementari. Pensavo di averlo riconosciuto in un tipo abbastanza alto, con un apparecchio dentale ancora voluminoso, snapback con la visiera piatta, con una T azzurra e dei jeans larghi e abbassati per mostrare a tutti l'elastico dei boxer.

Ci eravamo infine accomodati in un'aula caldissima esposta a sud, da cui si vedeva la rotonda e, più in là ospedale e stazione, e in fondo in fondo sapevo che c'era Cesenatico. Io mi ero messa in banco con Noemi, subito davanti a Gabri e Tommaso. Avrei voluto togliermi la felpa perchè stavo già sudando come solo nelle peggiori verifiche, ma non lo avevo fatto.

Venticinque alunni, di cui quattordici maschi. Molti parlavano un italiano simile ai pezzi di Gue Pequeno, ma più sgrammaticato e a un volume disumano. Al dodicesimo minuto della prima lezione, un tipo di Bellaria che stava seduto nel banco stravaccato peggio che sulle panchine vicino allo skate park, due occhi di ghiaccio, mi aveva chiesto «Te li sai fare i pompini?»

Una tipa dietro a lui, dai tratti chiaramente nordafricani, si era intromessa dicendo «Li fai meglio tu col culo, albanese di merda.»

Benvenuta all'IPSSAR, Chiara.

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