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Quando passiamo un po' di giorni piuttosto movimentati, io e Cate.
e ricompare il mio eterno malessere


Domenica 1 agosto 2010

«Adesso metti via quel cazzo di telefono e parli con me, Chia» mi aveva aggredita Cate, dopo qualche giorno di apatia e pensieri pessimi, rimediati a rispondere alle chat con certi tipi che dicevano si e no "Ciao" e poi mandavano membri eretti dicendo che a quello non avrei detto no.

«Cate ma che devo fare? Mi scrivono e rispondo.»

«Ti scrivono perchè sono delle merde a cui frega solo dei pompini.»

Cate: una ragazza che non ha mai avuto molti problemi a chiamare le cose con il loro nome, a costo di sembrare quasi sgradevole.

Cosa che in effetti, tante volte era successa.

Ricordo quel luglio iniziato come fosse una pizza appena sfornata: mi era sembrata talmente buona che non potevo non addentarla immediatamente. Ero però finita per bruciarmi la lingua. E fattosi agosto, stavo ancora aspettando che la pizza si raffreddasse.

«Sai che facciamo allora? Se proprio non ne esci da questo loop di merda? Facciamo le bitch veramente, cazzo!»

Ammetto che, considerando i trascorsi, sentirsi dire «Facciamo le bitch» da Cate mi aveva un po' inquietata.

«E cosa intendi per "fare le bitch"?» avevo chiesto, preoccupata.

«Smetti di girare con quella gente, andiamo in giro io e te, andiamo al mare, andiamo alle feste, andiamo a fare le sceme! Solo le altre possono fare le sceme?» mi aveva chiesto, guardandomi negli occhi.

«Beh, no.»

«Ecco, appunto! E quando i maschi che ti piacciono ti diranno "Oh, Chia, ma io ti amo tanto!" tu risponderai "Io no, ma possiamo limonare!"» e poi si era messa a ridere.

Io non ero così convinta. Mi preoccupava ciò che era successo l'anno prima, con lei che spariva ogni tre per due imboscandosi con gli amici di Tropea, facendo scherzi come per il compleanno di Ludo.

Avevo paura di finire a fare la sua babysitter, ma sentivo anche l'orologio ticchettare, quell'orologio che diceva che mancava un mese alla fine dell'estate della terza media, e poi ci saremmo divise: scuole diverse in città diverse.

E così avevo accettato di spendere il resto della mia estate nella maniera splendida e bruciante che mi aveva proposto lei, facendo probabilmente la metà delle cazzate della mia vita nei primi venti giorni di quell'agosto.

E se le ho fatte, è stato perché ho deciso io di farle.

Cate, attraverso i tizi che conosceva suo cugino, mi faceva continuamente andare sulle montagne russe, rincorsa più di una volta da gente che volontariamente mi lasciavo alle spalle. Non volevo un altro Mirkino, non volevo un altro Willy.

Volevo solo che l'estate non finisse.


Lunedì 9 agosto 2010

A San Lorenzo, Cate aveva dato appuntamento a tre gruppi di ragazzi nello stesso posto, all'ombrellone numero tre del bagno storico dove andava da quando era nata. Il primo gruppo era una prima scelta un po' discutibile, composta da quattro ragazzetti compagni di squadra di una non meglio precisata formazione calcistica medio-padana. Tutti fisichetti un sacco belli, ma quando aprivano bocca era una Caporetto.

E poi, santo cielo, avevano sempre la palla tra i piedi. Molto più di Willy, Barone e compagnia. Giuro facevano quasi venire la nausea. Se mi avessero toccato con le mani quanto toccavano la palla coi piedi, mi sarei sciolta come un ghiacciolo all'amarena.

Li avevamo frequentati due ore dopo averli incontrati casualmente sulla battigia mentre stavano facendo indovinate cosa? E così si erano sentiti in dovere di insistere per andare a vedere i fuochi assieme e poi fare il bagno. Ci eravamo già dati appuntamento quando uno di loro con una erre fortemente parmense aveva detto «Oh fva, io il pallone nello zaino me lo povto, che non si sa mai.»

Ero stata zitta, sperando. Di quel gruppo mi piaceva un tipo tutto mediterraneo che potevi tranquillamente scambiare per tunisino, con degli addominali assurdi: magari avrebbe avuto una scintilla di intelligenza rispondendo «Per una sera fottiti con quella cazzo di palla.»

Invece «Oh, ci sta» aveva detto.

Che nervi.

Il secondo gruppo a cui avevamo dato appuntamento era quello degli amici di Toschi. Li avevamo incontrati a caso il pomeriggio del 9 agosto che facevano i tuffi nel portocanale.

No dai, in realtà stavano scappando dal custode del porto che li aveva beccati a fare i tuffi. Si erano rifugiati sull'altro lato dell'asta del canale dove c'eravamo noi che ci eravamo fermate a dare un'occhiata commentando le loro spalle-tanta-roba.

Erano tre e uno era Toschi, Matilde era rimasta sull'altro lato in mezzo agli scogli facendo finta di non conoscerli per non incappare nell'ira del custode che bestemmiava come un maniscalco.

Il più scemo dei tre ragazzi, che doveva avere un paio di anni più di noi, aveva esordito dicendo «Se qualcuna vuole donarci qualche monetina per lo spettacolo, non ho il cappello ma può metterlo direttamente nei miei pantaloncini.»

Finissimo.

Cate aveva fatto il movimento deciso per mettere la mano proprio dove lui chiedeva, e questo si era ritirato, immediatamente perculato dai suoi due amici. Ovviamente dopo si era riproposto ma la mia amica aveva specificato che a volte il treno delle migliori occasioni passa una volta sola.

Le battute sciocche si erano allungate a dismisura e ci eravamo dati appuntamento quella sera ma eravamo finiti in un capanno da pesca lungo il canalino di Milano Marittima a mangiare pesce grigliato un po' bruciacchiato e sballarci di fumo passivo.

Matilde pareva la bimba più felice del mondo in mezzo a tutti quei tizi così selvatici. A dire la verità, tutti bagnati e appena saltati da un lato all'altro del canale, parevano meglio.

«Oh, domani sera dove guardiamo i fuochi?» aveva chiesto quello dei pantaloncini, Leonardo, o Edoardo.

E Cate, saltando in piedi, aveva proposto di vederci esattamente dove aveva proposto al gruppo dei parmensi. Ero scoppiata a ridere e prima che riuscissi a dire nulla, lei mi aveva affettato con il suo sguardo laser.

Mentre tornavamo a casa barcollantissime, le avevo chiesto conto.

«Ma perchè nello stesso posto?»

«Mica vorrai andarci sul serio con loro?» mi aveva risposto con una domanda.

«Boh, pensavo di sì.»

«Col cazzo. Hanno tutti quei capelli... bleah. E poi puzzano.»

«Dai Cate! Ma che dici?!» avevo risposto, allungando la "I" finale fino a renderla qualcosa di simile al lamento di un gatto in amore.

Lei era scoppiata a ridere e io idem e avevamo fatto tutta la strada fino a casa ridendo come sceme e urlando «Cosa dici!» ogni volta che passavamo davanti a una casa con una luce accesa.


Martedì 10 agosto 2010

E poi il pomeriggio del dieci mentre facevamo gli occhi dolci al barista di uno di quei posti in centro a Milano Marittima. C'era arrivato alle spalle Mirkino.

La Cate aveva bestemmiato tra i denti.

Ah, in effetti avevo un po' perso di vista Mirkino, ma il motivo era che lui aveva avuto qualche problema. Anche piuttosto importante per quanto ne avevo saputo.

Tutto era partito dalla sua attività da pusher della zona che aveva destato interesse anche nelle forze dell'ordine perché si svolgeva pur sempre dalle parti di una scuola media. E alla fine, il giocare ai gangster aveva portato il suo gruppetto a un incontro coi carabinieri tutt'altro che amichevole.

Alla fine i pusherini si erano un po' spaventati, ma Mirkino aveva mantenuto il sangue freddo, si era ricordato di tutti i consigli ricevuti dai tizi più grandi che bazzicava e era riuscito a liberarsi del carico. Col passare dei minuti, mentre i carabinieri non trovavano nulla e forse si innervosivano, lui aveva preso coraggio e quella sera aveva persino finito per mettere su un atteggiamento di beffa.

Ovviamente, qualcosa avevano fatto, segnalando a casa che Mirko se ne stava in giro senza nessun tipo di controllo genitoriale, in zone dove era stata segnalata attività di spaccio. Il padre si era incazzato ma poi il figlio l'aveva messa giù tipo «Fermano noi perché siamo stranieri» ed era finito tutto quasi a pacche sulle spalle.

La seconda volta le guardie si erano fatte più scafate a avevano colto il momento in cui i ragazzi si erano fatti consegnare la roba da vendere, inguaiando anche i loro "superiori". A casa erano caduti tutti dal pero per la sua attività, e 'sta cosa mi ha sempre fatto ridere perchè da me, se arrivavo a casa con una spilla regalata mi chiedevano subito dove l'avevo presa, lui girava con le Nike da 200 euro che nessuno gli aveva comprato, e chi si domandava dove le aveva prese?

Risposta: nessuno.

Anzi, tanto meglio se non pesa sull'economia di casa.

Fatto sta che la situazione si era fatta talmente esplosiva che Mirko era finito al pronto soccorso spaccato di botte dal padre, tanto che il giudice l'aveva spedito in una comunità per evitare che alla prossima scarica di botte, finisse direttamente al cimitero.

Io adesso ve la racconto così perchè me l'aveva raccontata così lui. Non so quanto "mitiche" fossero state quelle affermazioni ma io, scema come poche, ci avevo parlato lungamente e un po' flirtato e un po' anche avevo sperato che allungasse quella mano, dai cazzo Mirko allunga quella mano dai allungala, oh finalmente bravo!

E poi lo sguardo laser di Cate, che a sentire di gente finita in comunità perchè giocava a fare il boss dei pusher, ne aveva le palle piene.

«Mirko ma voi dove andate a vedere i fuochi» aveva poi aggiunto, sorprendendomi.

«Se avete un piano, sono tutt'orecchi» aveva risposto lui, toccandomi le natiche nemmeno tanto nascostamente.

«Al mio ombrellone, è il numero tre, il bagno lo conosci» aveva risposto lei sorridendo.

E poi mi aveva trascinato via dicendo che dovevamo andare a comprare per me una crema contro le infezioni veneree.

«Ma che cazzo dici?» avevo urlato appena fuori dal bar, ridacchiando, ma lei non rideva per nulla.

«Chia. Mirko anche no.»

Mi ero resa conto all'istante di esserci quasi ricascata.


Cosa ho imparato fino al 10 agosto: le Nike da 200 euro sono più anonime delle spille per capelli



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