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Febbraio 2009

Quando la settimana di San Valentino non va proprio come ci si aspetterebbe da una settimana di San Valentino


Sabato 14 febbraio 2009

La situazione pareva peggiorare man mano che si avvicinava San Valentino. Il primo che avrei passato fidanzata, e che mi immaginavo ben diverso.

Tanto per iniziare, non avevo raccontato a casa che avevo il ragazzo, soprattutto perchè mi avevano colpito (e preoccupato) certe frasi che mio padre aveva detto sui ragazzi dell'età di Clemy.

Secondo lui, gli adolescenti erano solo stupidi sacchi di ormoni, impegnati a tentare di fare cose illegali, e imboscarsi con le ragazze.

Il fatto che mia madre avesse detto un paio di volte «Guarda che tu non eri molto diverso, a quell'età» non è che mi desse molta sicurezza. Era da escludere, quindi, che mi rivolgessi ai miei genitori per parlare dei problemi che avevo con il mio fidanzato.

Dovevo escludere anche tutti gli altri parenti, perchè nella mia famiglia non esisteva gente che sapesse farsi i fatti propri, per cui dirlo, che so, a una zia, equivaleva a farlo sapere a stretto giro telefonata, a mia madre. Mia cugina Arianna, quella che mi aveva rimediato il PC dismesso, era una brava ragazza e forse con lei avrei potuto provare a raccontare qualcosa, ma aveva due terribili difetti: era una incredibile ficcanaso e, cosa ben peggiore, non sapeva tenere per sé nessun tipo di segreti.

Almeno con le mie amiche parlavo del mio rapporto con lui: evitavo di raccontare i risvolti più negativi, ma qualcosa non potevo esimermi dal raccontarlo, quando mi presentavo triste per aver discusso il giorno prima o, addirittura, qualche minuto prima, la mattina stessa. Non dicevo troppo perché pensavo di non aver così bisogno di pareri da ragazze che erano tutte single. Un conto erano Cate e Matilde, che non apprezzavano più di tanto Clemente ma erano mie storiche amiche, un contro erano Ashley o Luna o anche Sophie, o peggio ancora Alessia, che proprio non lo sfangavano.

Venerdì pomeriggio, sul tardi, discutendo con lui, mi ero sentita gelata da quello che mi aveva detto: secondo lui ero una troia perché andavo di nascosto a fare i cartelloni in biblioteca con un gruppo di tre maschi che aveva composto la prof. Mi aveva chiamata mentre eravamo ancora lì con pennarelli e fotocopie, e mi aveva tenuta al cellulare per venticinque minuti chiedendomi perché ero andata in un posto con ben tre ragazzi senza nemmeno avvertirlo. Ero esterrefatta, ma avevo comunque provato a spiegare che era una cosa di scuola, che stavamo facendo una ricerca.

«Sì, certo, le ricerche tipi con tipe le ho fatte pure io, non sono nato ieri.»

«Ma è vero, stiamo facendo una ricerca! Se non ci credi, vieni a vedere!»

«Ora che arrivo, fate presto a tirare fuori due fogli e quattro pennarelli. Se è una cosa tanto innocua allora perchè non me l'hai scritto che la facevi? Nascondi qualcosa? Volevi non far sapere dov'eri e cosa facevi? Queste sono cose che fanno le troie.»

Ero rimasta talmente spiazzata da quella frase che non solo non avevo replicato, ma avevo persino farfugliato uno scusa, domandandomi perchè non avevo mandato quel cappero di messaggio, semplicissimo, in cui dicevo che ero in biblioteca con tre compagni.

Tornata al tavolo, a loro avevo detto che dovevo tornare all'istante perchè era successo un problema, senza specificare quale.

E poi, la mattina del quattordici, il mio tipo s'era presentato con fiori e cioccolatini davanti a scuola.

Alcune compagne, come la Marty, la Noemi e la Romy, vagamente invidiose, mi avevano persino fatto i complimenti dicendomi quanto fossi fortunata ad avere un ragazzo così premuroso. Edo, Thomas e Tommaso, dopo un pomeriggio a scherzare e farsi prendere in giro da me mentre facevamo il cartellone, forse erano rimasti un po' delusi ma non è che potessero pretendere molto di più.


Martedì 17 febbraio 2009

Ma la mia felicità, 'sta stronza, già andava e veniva, ma si era bruscamente interrotta un paio di giorni dopo. Nel pomeriggio del martedì successivo avevo programmato di andare di nuovo alla biblioteca al gruppo di lettura, dove la Maty voleva portarmi disperatamente. A me non è che facesse impazzire come attività per occuparsi un pomeriggio, ma mi andava bene per svagarmi.

Ci doveva essere anche Tommaso, ovviamente, ma si doveva portare un amico impallinato di fantasy, tal Richard. Clemy, venuto a sapere di questa uscita e di quella doppia presenza maschile, si era arrabbiato nuovamente perché non l'avevo informato io ma lo aveva saputo mentre parlavamo del più e del meno fuori da scuola quella mattina. Mi aveva accusata di volermi avvicinare ad altri ragazzi senza dirglielo, e di "trascurarlo"!

Cioè, parliamone: Tommaso che era poco più che muto, e Richard che era poco più di un nerd con una riproduzione di una spada fantasy appesa in camera sopra il letto.

La discussione si era trasformata immediatamente in un litigio accanito. Clemente, per l'ennesima volta, aveva giustificato la sua contrarietà con l'amore che provava per me, ancora e ancora, sostenendo che la sua gelosia era dovuta al timore di perdermi.

Il litigio si era concluso come al solito: con lui che sbatteva giù il telefono e io in lacrime, indecisa se avvisare o meno Matilde che non avrei potuto partecipare al gruppo di lettura. Mi sentivo intrappolata tra Clemy e, cazzo, tutto il resto del mondo.

«No, tu non puoi stare a casa, dai Chia! È il primo gruppo che facciamo dopo natale! Dai! Cioè, ti passo a prendere io con mia mamma, la convinco!»

«No, Maty, non sto bene» avevo risposto con la voce rotta.

E quella dopo dieci minuti si era presentata sotto casa mia. Io non volevo uscire, ma era la Maty, era la mia amica di sempre. Un suo abbraccio e avevo deciso di uscire. Ma non è che io fossi un fiore.

Ce n'eravamo andate nella saletta dove si doveva svolgere l'appuntamento e la tizia aveva già tagliato le fette di pandoro per festeggiare il nostro primo vero incontro, quando si era aperta la porta e mi si era gelato il sangue: la testa di Clemy era spuntata, con alle spalle un paio di amici suoi.

Uno era l'altro pizzaboy, che chiamavano Teo e aveva un brillantino all'orecchio che costava come tutto l'arredamento Ikea di camera mia. L'altro era un certo Christian che girava perennemente con la tuta del Milan e delle Nike da wannabe pusher che, da quanto splendevano, doveva pulire per lo meno due volte al giorno.

«Esci un attimo» aveva detto, senza nemmeno salutare.

E la Maty m'aveva guardata. Non dovevo essere di gran bell'aspetto.

«No, adesso non esce» aveva detto la Collinelli al posto mio, con una voce non proprio fermissima come al solito, ma un'astio ben evidente negli occhi.

«Te chi sei?»

La tizia della biblioteca si era avvicinata alla porta, intuendo che gli animi non si sarebbero facilmente calmati. Ma Clemy di nuovo aveva ripetuto «Chia, esci un attimo» rivolgendo una evidente occhiata di odio ai due tipi con lui, che sghignazzavano alle sue spalle.

«Clemy tra due minuti arrivo» ero riuscita a dire.

«No, esci ora.»

A quel punto anche la tizia della biblioteca aveva capito che c'era qualcosa che non funzionava, e si era rivolta a Clemy «Stiamo facendo un gruppo di lettura. Una esperienza interessante e divertente! Se ti vuoi accomodare e partecipare, anche se magari non hai letto il libro o non ne vuoi parlare, nessun problema, altrimenti per favore non disturbare.»

La cosa più assurda era stata che quei tre erano veramente entrati e si erano seduti, e avevano "ascoltato" in un clima surreale. Poi dopo alcuni minuti, quel cervello disabitato di Christian se n'era andato sbuffando, gli altri due lo avevano seguito a ruota. Appena fuori dalla porta chiusa li avevo sentiti aggredirsi a parolacce e bestemmie, senza ben capire il motivo.

Perché nel frattempo ero scoppiata a piangere.

E tutte, dico, tutte, avevano detto, chi in un modo, chi in un altro, che dovevo mollarlo. Persino Gioia, quella che avevo ferocemente criticato e perculato, che avevo additato come quella con la puzza sotto il naso. Pensavo che se avesse saputo cosa avevo pensato di lei, mai e poi mai mi avrebbe sostenuto e accudito nel mio pianto. Ma lo aveva fatto.

Gli unici che erano stati zitti erano stati i due ragazzi, paradossalmente ma nemmeno tanto.


Mercoledì 18 febbraio 2009

Avevo deciso di mollarlo. Perchè se persino la bibliotecaria ti dice che lo devi mollare, persino le tizie che ti ritengono una semianalfabeta che partecipa al gruppo di lettura solo per cazzeggiare un pomeriggio, si prendono la briga di farti una carezza e dirti che devi lasciare uno che ti controlla così, lasciarlo era la cosa giusta.

Ma la mattina dopo mi era stato letteralmente impedito dalla Cate anche solo di dire una parola.

Clemy era arrivato e non aveva nemmeno salutato, si era limitato a dire «Chia, vieni che dobbiamo parlare.»

Non avevo fatto in tempo ad aprire bocca per replicare che la Cate aveva fatto scattare un coltello a serramanico con una lama lunga come minimo dieci centimetri. Dove l'avesse preso rimane un mistero a distanza di anni.

«Se non te ne vai, ti scanno come un porco. Quello che sei.»

«Te sei fuori. Sei una troia pazza furiosa» si era limitato a dire lui, con gli occhi fuori dalle orbite, fissi alla lama che ondeggiava davanti a lui ad altezza pancia.

E quindi ufficialmente non ho lasciato Clemy, diciamo che la Cate ha obbligato lui a... allontanarmi.


Mercoledì 25 febbraio 2009

«Mamma, per favore, potresti firmare la circolare che ci hanno dato oggi?» avevo chiesto, allungandole il foglio.

«Che roba è?»

«Cose da non portare a scuola» avevo risposto asciutta.

L'aveva letta un po' distrattamente, per poi sospirare.

«Ma sul serio c'è bisogno di fare una circolare per queste cose?» mi aveva chiesto, per poi riportare gli occhi al foglio, «Sul serio c'è gente che porta i coltelli a serramanico a scuola?»

«Eh, a quanto pare, sì» mi ero limitata a dire.



Cosa ho imparato a Febbraio 2009: si ottiene più con una parola gentile e un coltello, che solo con una parola gentile (semicit.)

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