01: Joy
Sua madre gli stava pulendo il viso. Stringeva il panno consunto tra le dita tremanti, come se sperasse che lo sporco potesse coprire le colpe del figlio. Il bambino non si muoveva: la fissava, con i suoi freddi occhi scuri. Era bagnato e infreddolito; la melma gli si era incrostata sugli stracci e sui folti capelli mossi.
Non capiva perché fosse così sconvolta. Aveva solo procurato loro un pasto decente, dopo giorni interi trascorsi a digiuno. Aveva fame e quel coniglio selvatico aveva sconfinato nell'orto di casa. Aveva subito pensato che avrebbero finalmente potuto mangiare qualcosa di più che la zuppa di fagioli.
Si era avventato sulla bestiola, cercando di afferrarla. Non era stato facile catturarla: era veloce e scattante, mentre lui era solo un ragazzino debole e affamato. Forse era solo stato fortunato, ma all'improvviso aveva avuto l'istinto di gettarsi in avanti. Lo aveva agguantato e non lo aveva più lasciato. Il coniglio aveva cercato di divincolarsi, ma il bambino, rotolandosi nel fango, lo aveva trattenuto.
Era stato talmente felice che aveva quasi pianto. Non aveva provato rimorso nell'ucciderlo: doveva decidere tra la sua vita e la loro. Aveva scelto la loro. Aveva cercato di farlo soffrire il meno possibile. Almeno, dal punto di vista di un bambino, che non possedeva la conoscenza necessaria per togliere la vita con un colpo solo.
Aveva afferrato un grosso sasso e, trattenendo l'animale per le zampette posteriori, mentre si dimenava, lo aveva colpito alla testa. Aveva dovuto ripetere la macabra operazione sette volte, prima che la bestiola esalasse l'ultimo respiro.
«Guardati... sei ricoperto di sporcizia...» singhiozzava lei, con le lacrime agli occhi. «Se da bambino riesci a fare una cosa del genere, che uomo diventerai?»
Lui abbassò lo sguardo, assalito da un improvviso senso di colpa: «Mi dispiace...»
«E guarda i tuoi vestiti... come farai ad andare in giro, adesso?» continuò la donna, scuotendo la testa e passandogli il panno consunto sulle mani. «Lo sai che non possiamo permettercene di nuovi.»
«Mi dispiace» ripeté il ragazzino, sentendo la gola chiusa in un nodo.
Sua madre s'interruppe all'improvviso, scrutandolo. Posò la pezza sul pavimento di legno marcio e gli prese il volto tra le mani. Il bambino alzò timidamente lo sguardo: i suoi occhi lucidi non erano più freddi, ma pieni di rimorso. Non per il coniglio, ma per il dolore che aveva causato all'unica persona a cui volesse bene.
Si chiamava Joy. Diceva che era un soprannome, che glielo avessero affibbiato perché era la gioia di ogni uomo. La sua pelle era color del miele, il seno prosperoso, le labbra gonfie e rosse, gli occhi verdi e i capelli una cascata nera di riccioli lucenti. Era di una bellezza folgorante e ogni maschio del regno sembrava non poter fare a meno di lei.
Nonostante ciò, la paga era misera. Lui, Valerian, il suo unico figlio, era nato e cresciuto nella povertà più assoluta. Non possedevano nulla, se non gli stracci che indossavano e il vecchio capanno abbandonato alla periferia di King's Heaven, la capitale del regno. I soldi che gli uomini davano a Joy, dopo averla incontrata, finivano per due terzi nelle mani del padrone. Il resto bastava a malapena per il cibo. A volte, qualcuno dei clienti rimaneva abbastanza soddisfatto da concederle una doppia mancia, che sua madre nascondeva e con la quale potevano, forse, comprare degli abiti nuovi.
«Ehi, ometto. Non essere triste» lo consolò Joy, passandogli i pollici sugli occhi, come a volergli impedire di piangere. «Stasera potremo mangiare carne. Tu, però, devi promettermi che non caccerai mai più.»
Valerian ebbe appena il tempo di annuire, che dei rimbombi vibrarono nell'aria. Sussultò di paura, mentre lei si voltava a guardare la porta. Per un attimo, rimasero ad ascoltare i colpi che si abbattevano sul legno marcio. Un grugnito quasi animalesco riscosse sua madre, che afferrò la pezza e si alzò in piedi.
«Chi è?» chiese, precipitandosi al catino.
Un nuovo grugnito: «Sono io, donna!»
Nel sentire quella voce, Valerian impallidì e si nascose dietro la grossa panca. Era l'unico altro mobile della casa, oltre al tavolo e al giaciglio di paglia, dove riponevano le poche vivande e gli stracci. Joy immerse la pezza nel catino, la lavò in fretta e la usò per avvolgere il coniglio. I colpi continuavano ad abbattersi sulla porta, mettendole fretta. Prese la carcassa del coniglio e la nascose all'interno della panca. Se il padrone l'avesse vista, se la sarebbe presa sicuramente. Mentre chiudeva il coperchio, fece cenno a suo figlio di non fiatare.
«Apri la porta, donna!» sbraitò la voce.
«Arrivo!» rispose Joy, correndo all'entrata e togliendo il fermo, fabbricato con una sbarra d'acciaio arrugginito.
Non ebbe il tempo neanche di sbirciare fuori, che l'anta venne spinta via con una forza inumana. Sbatté contro il muro, minacciando di danneggiare le pareti marcescenti. L'uomo, alto e corpulento, varcò la soglia, incombendo su di lei. Il bambino si rannicchiò ancora di più dietro la panca, al punto da non poter più vedere la scena. Chiuso nel proprio abbraccio, fissava con sguardo freddo le ombre dei due adulti, che mimavano quasi alla perfezione cosa stava accadendo.
«È questo il modo di accogliermi nel tuo nido, donna?» ringhiò il padrone.
«No, mio Signore, certo che no. È che mi avete colta impreparata: come potete vedere, non sono presentabile ai Vostri occhi» rispose sua madre, cercando di rassettare gli stracci che indossava.
«Sei lurida» commentò lui. «Dove sono i miei soldi?»
«Mio Signore...» pigolò Joy.
«Allora?» la incalzò l'uomo, in tono minaccioso.
Sua madre indietreggiò di alcuni passi e poi, trattenendo le lacrime, corse al mobile con il catino. Lì teneva una scatoletta consunta, dove custodiva i pochi spiccioli che i clienti le lasciavano. Il padrone la seguì. Le arrivò dietro. Le si premette addosso. Alla donna si mozzò il fiato, mentre poggiava i pugni sul ripiano del mobile. Le mani ruvide del padrone le alzarono la sottana, svelando il suo corpo nudo. A una come lei non serviva l'intimo.
Calò il silenzio. Lui si abbassò i calzoni, lasciandoli cadere sulle assi di legno marcio. Le si strusciò contro. Il suo corpo la intrappolava, senza lasciarle una via di fuga. Il puzzo di liquore e fumo le aggrediva le narici. Il padrone inspirò sul suo collo.
«Apri le gambe» le alitò nell'orecchio.
«Come desiderate, mio Signore...»
Valerian udì una specie di sibilo animalesco. Anche se era un bambino, sapeva perfettamente cosa significava. Ormai lo aveva sentito fin troppe volte, da molti uomini. Si portò lentamente le mani alle orecchie, cercando di tapparle. Sua madre diceva che era troppo piccolo per assistere alla scena. Gli ripeteva sempre che, quando una persona veniva a trovarla, lui doveva chiudere gli occhi e smettere di ascoltare. Però non era facile.
Era difficile non percepire i gemiti, i grugniti e i mugolii. Sentiva sua madre gridare al vento un piacere che non provava, incitare quegli animali a possederla con più foga, mentre il mondo fuori la ignorava con crudeltà. Era davvero impossibile non vedere come gli uomini si tramutassero in belve feroci. Così aveva smesso di chiudere gli occhi: ormai si limitava a fissare le ombre sul muro, proiettate dalla flebile luce delle candele. Lasciava scorrere quegli orribili suoni nella propria mente, senza accorgersi che lo stavano segnando per sempre.
Quando tutto finiva, gli uomini si rimettevano i calzoni e lasciavano sul tavolo poche monete. Poi se ne andavano senza neanche aiutarla ad alzarsi. Sua madre piangeva in silenzio per qualche minuto, ma non abbastanza a lungo affinché Valerian potesse consolarla. Si tirava su, prendeva i soldi e gli diceva che finalmente avrebbero potuto comprare qualcosa di buono da mangiare, anche se sapeva che sarebbero bastati a malapena per i fagioli.
Quando si trattava del padrone, però, le cose erano diverse. Joy non ne guadagnava nulla. Gli amplessi con quell'uomo le procuravano solo dolore. Lui era brutale, non si preoccupava di non farle male. La possedeva e poi se ne andava con i soldi, avvilendola più di quando si incontrava con i clienti.
Valerian sentì l'animale svuotarsi nel corpo di sua madre. Quando accadeva, i grugniti diventavano più profondi e bestiali, prima che la furia li abbandonasse. Udì gli ansimi del padrone e il silenzio gravoso di Joy. La belva si tirò su i calzoni.
Il tintinnio delle monete, che venivano contate e sottratte, lo rassicurò: solo pochi altri minuti e sarebbe tornato tutto alla normalità. Ma cos'era, poi, la sua normalità, se non proprio il susseguirsi ininterrotto di quelle scene?
«Ti ho dato talmente tanto piacere che non riesci a muoverti, donna?» la voce del padrone vibrava di un orgoglio vomitevole.
Una rabbia sottile s'impadronì di Valerian. Chiuse i pugni e serrò i denti, in un'espressione dura, che ben poco si confaceva al suo viso bambinesco. Aveva solamente otto anni, ma dentro si sentiva più schifoso dei clienti di sua madre. Come poteva meritate il suo amore, quando non riusciva neanche a risparmiarle lo scherno?
«Non importa» continuò l'uomo. «Non c'è bisogno che mi accompagni alla porta. Tornerò domani.»
Stava per andarsene.
Finalmente.
Il padrone si bloccò sulla soglia: «Ah, a proposito» disse, voltandosi verso sua madre e lasciando la porta socchiusa. «Dov'è il marmocchio?»
Joy si passò una mano sul volto: «È...» la sua voce tremava. «Valerian è...»
«Sono qui, Signore.»
Era uscito dal suo nascondiglio. Joy sgranò gli occhi, lo fissò e scosse lentamente la testa. Il bambino ricambiò il suo sguardo. Le iridi nere erano avvolte nel freddo, nell'apatia totale. Il padrone aveva chiesto di lui molte volte, ma la donna aveva sempre inventato delle scuse per evitare di presentarglielo. Valerian sapeva che prima o poi l'uomo si sarebbe accorto delle bugie. Non poteva permettere che la ferisse più di quanto non avesse già fatto.
La bestia sorrise: «Da dove spunti fuori, eh?» lanciò un'occhiata rancorosa a Joy, la quale abbassò la testa, contrita. «Sei sempre stato qui, a quanto pare. Ti è piaciuto lo spettacolo?»
Valerian finse un'ingenuità che aveva perso da tempo: «Non so di cosa stiate parlando, Signore» replicò.
«Bene, bene. Ottima risposta.»
L'uomo gli si avvicinò. Si chinò, piegando le ginocchia, e gli prese il volto con le dita ruvide. Joy soffocò un guaito di apprensione. Il bambino la ammonì con gli occhi. Quella mano era grossa quanto la sua faccia: un ceffone sarebbe stato sufficiente per fargli perdere i sensi. Lui però non aveva paura: provava solamente ribrezzo. Odiava l'idea che quella belva lo stesse toccando.
«Sì. Sei cresciuto bene, nonostante tutto» l'uomo sogghignò. «Potrò venderti per un buon prezzo.»
Cosa?
Joy lo sottrasse alla presa del padrone: «No!» urlò.
«Taci, donna» le intimò lui.
«Non ti prenderai mio figlio!» strillò lei.
«Come osi rivolgerti a me in questo modo?» sbraitò la bestia.
Valerian non li sentiva: i suoi occhi erano fissi sul pugnale che l'uomo portava al fianco.
◈ ◈◈
«Principe, non dovreste essere qui» mugugnò il suo servitore.
«Lo so bene, Joseph. Non ci metterò molto» promise lui.
Scese da cavallo. I suoi stivali lustrati affondarono nella melma. Il suo accompagnatore lo seguì subito dopo, lasciandosi sfuggire una smorfia disgustata. Pioveva ormai da ore e la strada sembrava scomparsa, ridotta a uno spesso strato di viscida fanghiglia. Non era la prima volta che visitava la periferia di King's Heaven, ma rimaneva sempre allibito da ciò che vi trovava. Non poteva credere che suo padre permettesse un simile degrado. La capitale del regno non meritava una tale macchia sul suo nome.
Una volta diventato Re, avrebbe cambiato molte cose.
Si avvolse meglio nel mantello nero e iniziò a camminare. Fortunatamente la pioggia aiutava a nascondere la sua figura regale. Molti ladri si aggiravano per quelle vie: era meglio evitare di dare nell'occhio. Seguiva la scia di melma, sperando di ritrovare il vecchio capanno. Era stato lì molte volte, quando era giovane. Era tradizione che i rampolli dei nobili sfogassero i loro desideri adolescenziali con le donnine dei bassi fondi, prima di cercare moglie. Lui, però, non si era limitato alle frivolezze. No. Si era innamorato.
Sapevano entrambi che si trattava di un sentimento che non aveva futuro. A lei non sembrava importare. Non era interessata al suo denaro, né al suo sangue nobile. Anche se non era altro che una prostituta, gli aveva donato molto più che il suo corpo. Quando era diventato un adulto, però, le cose erano cambiate. Suo padre aveva trovato per lui una fidanzata: da allora, non gli era più stato concesso di vedere Joy.
Non sapeva nemmeno se quel vecchio capanno esisteva ancora, o se lei abitasse lì. Da quando il Re si era ammalato, aveva sentito il peso della responsabilità schiacciarlo. Aveva pensato solo di volerla rivedere, prima che la sua vita cambiasse per sempre. Un ultimo addio: non chiedeva altro. Poi si sarebbe arreso al destino e avrebbe sposato la principessa Sophie.
Avanzò tra la pioggia e lo sporco, stringendo gli occhi. Una sagoma scura si stagliò di fronte a lui. Il suo cuore accelerò i battiti: eccola. La capanna era ancora lì, vecchia e fatiscente come era sempre stata. Iniziò a correre, con Joseph alle calcagna. La raggiunse e si fermò di fronte alla porta. Era il momento della verità.
Alzò il pugno per bussare, quando si accorse che l'anta era socchiusa. Si bloccò, esitante, notando una lieve luce provenire dall'interno. Spinse delicatamente il legno marcio. Un fetore disgustoso lo assalì. Si portò una mano alla bocca, per impedirsi di rigettare. Quell'odore... lo conosceva bene. Puzzo di cadavere.
Joseph non riuscì a trattenersi e vomitò poco distante. Lui si fece forza e decise di entrare: doveva sapere. Quel capanno apparteneva ancora a Joy? Se sì, quell'odore disgusto era il suo? Era arrivato troppo tardi?
Con gli stivali imbrattati, varcò la soglia.
La scena che gli si presentò davanti, non l'avrebbe mai dimenticata.
Sul pavimento, un uomo giaceva, morto. Il suo corpo, riverso a terra, era martoriato da innumerevoli pugnalate, lungo il collo, la schiena e le gambe. Il sangue che aveva perso si era espanso sul pavimento. Il legno marcio lo aveva assorbito, tingendosi di rosso. Insetti necrofagi ne stavano consumando la carcassa.
Gli abiti lasciavano intuire che si trattasse di un padrone, un furfante la cui vita dipendeva dalla schiavitù di altre persone. Un fodero da pugnale, stretto al suo fianco, era vuoto, segno che qualcuno gli aveva sottratto la lama.
La macabra scena era illuminata solo dalla fioca luce che filtrava da un buco sul soffitto. C'erano un paio di candele sul tavolo, ma ormai erano ridotte a dei moncherini. La tragedia doveva essersi consumata almeno due giorni prima del loro arrivo.
Il Principe udì un tintinnio.
Si voltò, notando un secondo corpo, ancora intatto, disteso vicino a una panca. E poi, vide un bambino. Si reggeva in piedi a stento, pallido ed emaciato. Tremava come una foglia ed era ricoperto di sangue rappreso. Tra le mani, stringeva un pugnale. La lama tinta di rosso scintillava in maniera sinistra.
Lo scrutò. I suoi occhi lo colpirono con la forza di un macigno.
Erano occhi freddi e cupi. Occhi neri come i suoi.
Fece per compiere un passo.
«Non ti avvicinare» gli intimò il bambino, con una fermezza spiazzante. «Se la tocchi, ti uccido. Hai capito? Ti ammazzo.»
Una flebile voce sussurrò: «No... Val... erian...»
Il suo respiro si mozzò. Come avrebbe potuto non riconoscere quella cadenza, così gentile e piena di promesse? Joy! Istintivamente, coprì alcuni metri della distanza che li separava. Il bambino urlò di rabbia e si lanciò verso di lui. Nel suo sguardo, si poteva leggere tutta l'intenzione di uccidere. Il figlio del Re si spostò di lato, evitando la lama, e afferrò il ragazzino per un braccio. Quello si dimenò e lo morse a sangue.
Il Principe digrignò i denti per il dolore, ma non mollò la presa. Riuscì a disarmare il bambino, afferrando il coltello e consegnandolo a Joseph, che nel frattempo era entrato insieme a lui nel capanno. Il piccolo continuò a divincolarsi, tirando calci e pugni e tentando di morderlo ancora. Sembrava... una volpe in gabbia. Arruffava il pelo, ringhiava e sguainava le zanne, cercando di liberarsi.
La voce femminile lo chiamò: «Va... le...»
Il bambino si bloccò: «Mamma!» rispose con voce tremante.
Il Principe consegnò il ragazzino a Joseph e si voltò. Joy giaceva a terra, in una pozza di sangue. Aveva un'unica ferita al fianco, coperta da uno straccio rosso. Non serviva un guaritore, per capire che non avrebbe superato la notte. Lei lo vide: sgranò gli occhi e, debolmente, protese una mano verso di lui.
«D... Dav...»
Si precipitò da lei e le prese la mano: «Non parlare...»
Il bambino esplose: «No! Non la devi toccare! Verme schifoso!»
Joseph lo strattonò con malagrazia: «Bada a come parli! Sei dinnanzi a sua Maestà il Principe David, figlio di Re Henry, sovrano di tutti noi.»
La cosa non sembrava interessare al ragazzino, che continuava a dimenarsi come una serpe e a urlare che lo avrebbe ucciso, se non avesse lasciato stare sua madre. Sua madre. Era il figlio di Joy. Non importava chi fosse il padre: era e sarebbe sempre rimasto il figlio di Joy. Il Principe osservò il corpo della donna. Anche nella povertà più spietata, aveva mantenuto la sua bellezza eterea e peccaminosa. Le lacrime minacciarono di infrangere la sua maschera di regalità. Era arrivato giusto in tempo per vederla morire.
«Joy... Joy, mi dispiace» pigolò. «Mi dispiace così tanto... ti ho lasciata sola, completamente sola.»
Lei gli sorrise teneramente. Con debolezza liberò la mano dalla sua presa e gli accarezzò il volto. Era delicata, morbida come la ricordava. Le sue dita saggiarono i lineamenti dell'uomo che era diventato, sfiorandogli le sopracciglia, le gote, il naso e le labbra. Per un attimo, sembrò che tutto tornasse come otto anni addietro. Poi un gemito di dolore spezzò l'incantesimo e la mano di lei ricadde sul pavimento marcio.
In agitazione, il Principe la riprese tra le dita e la strinse.
«Valerian...» gemette Joy.
«Ti ho detto di non parlare...» sospirò David.
Lei scosse la testa: «Valerian... lui è... tuo...» non finì la frase, ma lui capì lo stesso, tanto che il suo volto si riempì di stupore. «Ha... i tuoi stessi... occhi...» un nuovo gemito, più debole dei precedenti: la vita la stava abbandonando.
«Joy!» la chiamò il Principe. «Rimani con me, Joy! Joy!»
Il bambino aveva smesso di dimenarsi: «Mamma...»
«Prometti...» sussurrò la donna, ormai allo stremo delle forze. «Prometti... lui sarà... tuo figlio...» come poteva giurarle una cosa del genere? «Prometti...»
Con quell'ultima parola sulle labbra, Joy morì.
◈ ◈◈
«Una terribile disgrazia, Principe» convenne Joseph, mentre lui posava l'ultima pietra sulla tomba di Joy.
L'aveva scavata con le sue stesse mani, sotto la pioggia. Non aveva voluto aspettare che smettesse: ogni secondo che trascorreva, la salma perdeva la bellezza di un tempo. David voleva ricordarla così, stupenda e squisita in ogni istante. L'aveva sepolta sul retro del capanno, dove coltivava un piccolo e povero orto. Il bambino si era chiuso in un freddo silenzio. Si era ribellato solo quando avevano portato via il cadavere. Il Principe avrebbe provato pena per lui, se non fosse stato per il pugnale. Era stato quel ragazzino a uccidere il padrone e a ferire sua madre?
«Cosa pensate di fare con il pargolo, mio Signore?» gli chiese il suo servitore.
«Non lo so» rispose lui. «Joy ha detto... che è mio» si scambiarono uno sguardo dubbioso. «Ha detto che quel bambino è mio figlio.»
«La donna delirava, Principe» l'uomo era scettico. «Siate ragionevole: potrebbe essere di chiunque. Lo sapete bene anche voi.»
«Ha i miei stessi occhi, Joseph.»
«Con rispetto, mio Signore, i vostri occhi non sono così rari» ribatté il suo fedele compagno. «Inoltre, voi stesso dite di aver avuto una relazione con la... signora... almeno otto anni fa. Il ragazzino non sembra averne più di cinque.»
«Per l'amor del cielo, Joseph: guardatevi attorno. Vedete in che condizioni ha vissuto fino ad ora: sfido io che non sia cresciuto a dovere!»
«Vossignoria sembra dimenticare che sta per sposarsi» gli ricordò l'altro.
«Come potrei dimenticarlo?» sbottò.
«Sapete cosa dovete fare, allora» il suo servitore cercò di mantenere la calma che lui pareva aver perso. «Lasciate il bambino al suo destino: se è stato capace di uccidere un uomo, non avrà problemi a sopravvivere.»
Sapevano entrambi che era una menzogna. Nella periferia di King's Heaven, la lotta per la vita era spietata. Se lo avesse abbandonato, nella migliore delle ipotesi sarebbe diventato un ladro. Quello che aveva visto nel capanno marcescente, però, gli suggeriva di non farsi troppi scrupoli. Forse Joseph aveva ragione.
Le parole di Joy riaffiorarono alla sua mente.
Prometti, aveva detto.
«Non posso» mormorò. «L'ultimo desiderio di sua madre è stato che me ne prendessi cura: è esattamente quello che farò.»
«Come pensate di spiegare la situazione al Re? E alla principessa Sophie?» gli domandò Joseph.
Il Principe si voltò a guardare il bambino. Era in piedi, sotto la pioggia, di fronte alla tomba di Joy. Il suo piccolo corpicino era immobile. Non un singolo singhiozzo lo scuoteva. Non una lacrima scendeva dai suoi occhi. Occhi di uno sguardo agghiacciante.
«Dirò loro la verità» rispose David. «Dirò loro che lui è mio.»
|| Il Nascondiglio dell'Autrice ||
Ecco il primo capitolo di Never!
Che ne pensate? Spero di aver raggiunto l'obbiettivo:
trasmettervi le emozioni e sensazioni dei personaggi
in maniera intensa e profonda!
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