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Nessuno ad ascoltare

Più di qualcuno mi aveva detto che ciò che stavo facendo non aveva senso. All'inizio ero stata tentata dalla disperazione. Non sapevo cosa dire e rimasi in silenzio per tutto il tempo. Poi uscii di lì e mi sentii una stupida, ma il giorno dopo ci riprovai. Non so perché né cosa mi abbia spinto a farlo. So soltanto che quando ero lì, tutto mi appariva in modo diverso. Come se ciò che era fuori, e che potevo osservare attraverso i vetri, fosse lontano e silenzioso, mentre attorno a me il tempo si fermasse. Immobile in quegli istanti in cui ti parlavo.

Così anche quella mattina ero lì, dentro alla cabina telefonica in giardino. Mi accomodai sullo sgabello girevole, alzai la cornetta rossa e composi il numero del tuo cellulare. La mano mi tremava mentre sentivo gli squilli, tremava sempre, e attesi. Guardai il giardino fiorito, le persone che passeggiavano e il sole che splendeva su di loro. Sembravano felici, sembravano sereni. Poi spostai lo sguardo sul mio riflesso. Non avevo più il bendaggio attorno alla testa, ma non mi ero ancora potuta lavare i capelli ed ero stata costretta a raccoglierli in una treccia lenta. Alcuni ciuffi castani mi ricadevano sul viso, sfiorando i graffi sulla guancia, e gli occhi continuavano a essere arrossati, conseguenza delle notti insonni e del pessimo materasso su cui ero costretta a dormire.

Gli squilli avevano sempre lo stesso numero: sei. Né uno di più, né uno di meno. Attesi l'ultimo, poi il suono della risposta. Restai in silenzio per qualche istante. Le altre chiamate erano state più semplici, ma quel giorno era diverso. Mi ero resa conto che ormai era passato del tempo, troppo, e non potevo più fingere.

«Ehi». Sospirai. «Ehm, sono passati cinque giorni e io continuo a telefonarti. Non mi aspetto che tu risponda, ma...» Puntai lo sguardo sul giardino. «Ecco, c'è qualcosa che vorrei dirti. Ci conosciamo da una vita e sappiamo tutto l'uno dell'altra. Beh, non proprio tutto». Bloccai la cornetta fra l'orecchio e la spalla e mi grattai il braccio destro vicino al gomito, dove il gesso mi procurava sempre tanto prurito.

Ripresi il ricevitore e sospirai. «So che avrei dovuto dirti prima del mio trasferimento e non mentre stavamo litigando, ma cosa sarebbe cambiato? Tu avevi i tuoi progetti, li hai sempre avuti e li hai sempre messi davanti a tutto. Anche a noi. Che speranza avevo? Ero sicura che ci saremmo lasciati ancora e che tu mi avresti ripetuto che siamo incompatibili, che sono cocciuta, egoista... E tu? Non vedi quanto sei egoista tu? Eh?» Mi ritrovai a gridare e m'interruppi.

Ancora incastrai la cornetta fra orecchio e spalla e mi asciugai le lacrime con il dorso delle dita. Il braccio destro era stato immobilizzato contro il torace per permettere alle ossa di rimarginarsi e non potevo muoverlo.

La cabina rossa in cui mi rifugiavo ormai da giorni, era stata sistemata sotto un albero dalle fronde rigogliose. La struttura dell'ospedale era lontana, così come lo erano gli ospiti che passeggiavano all'aria aperta. Era una bella giornata e i raggi di sole mi bruciavano gli occhi chiari. Perciò, mi sentivo protetta lì dentro. Mi sembrava di poter lasciare tutto all'esterno, a eccezione di ciò che volevo dirti. Di ciò che avrei dovuto dirti prima di salire sulla tua macchina.

«Sai una cosa? La colpa è tua quanto mia. Avrò anche sbagliato a non parlartene, ma tu non mi hai mai confidato ciò che desideravi davvero. Siamo fidanzati dal liceo e mi è sempre parso che stessi con me soltanto perché io ti amavo. E quando mi lasciavi perché... non lo so, avevi le tue strane crisi, mi convincevo sempre più che in fondo tu non avessi mai tenuto davvero a me. Tu sei stato il primo ragazzo di cui mi sono davvero innamorata, ma io cosa sono per te? Non ho mai neanche saputo se facessi parte dei tuoi stupidi piani per il futuro!» Mi agitai e meditai per un attimo di sbattere la cornetta sulla base.

Non ero mai stata tanto sincera perché avevo sempre avuto paura. Anche se lui tornava sempre da me, e io da lui, sapevo che la decisione di partire avrebbe distrutto per sempre il nostro rapporto. E non ero pronta. Non volevo perderlo, lo amavo e avrei voluto passare tutta la vita con lui, anche a litigare. Credevo che i nostri litigi frequenti fossero diventati insopportabili, e invece stavo vivendo l'epilogo peggiore che potesse capitarci: andare avanti senza di lui.

Tirai su con il naso. «Hai voluto attendere che ti parlassi del trasferimento per essere sincero con me. Perché non me l'hai detto prima? Credevi che il matrimonio mi spaventasse? Maledizione, Luca, abbiamo quasi trent'anni! Quando volevi chiedermi di sposarti? E dovevi farlo così? Fra un grido e l'altro? Un istante prima che quel camion ci...» M'interruppi e posai la cornetta sul petto. Chiusi gli occhi e trattenni il respiro.

Quei fari, grandi e luminosi, accompagnavano tutte le mie notti. Il suono del clacson, le grida mie e di Luca, la sterzata, il guardrail, l'acqua del fiume.

Mi misi più comoda sullo sgabello e portai ancora la cornetta all'orecchio. «Ascolta, non...» Sospirai di nuovo. «È-È assurdo, perché dovrei essere incazzata con te perché mi hai chiesto di non partire, perché mi hai accusata di non tenerci a noi e perché continuavi a gridare senza guardare la strada nonostante ti avessi ripetuto mille volte di continuare il discorso una volta arrivati a casa!» Ancora sfogai la rabbia sul prurito al braccio e ancora chinai il capo di lato per sorreggere la cornetta. «E adesso che facciamo? Io sono qui... ma tu dove sei? Mi hai lasciata sola, volevi sposarmi ma mi hai lasciata sola. Faceva parte anche questo dei tuoi progetti? Farmi sentire in colpa per il resto della vita? Beh, complimenti, Luca! Ci sei riuscito e io ti odio. Ti odio con tutta l'anima! Ti...»

Mi alzai di scatto e lasciai la cornetta penzolare. Posai una mano sugli occhi e strinsi i denti per cercare di resistere al dolore. Nessuno dei danni riportati al corpo faceva tanto male quanto la voragine che aveva risucchiato il mio cuore. Piangevo tutti i giorni, a volte senza neanche accorgermene. Le lacrime avevano vita propria e spuntavano anche mentre parlavo. Mangiavo e piangevo. Bevevo e piangevo. Dormivo e mi svegliavo piangendo.

Luca era tutta la mia vita. Mi era sempre stato accanto e anche quando il nostro orgoglio ci costringeva a separarci, non eravamo mai troppo lontani. Era il mio migliore amico, l'unico al quale bastava uno sguardo per capirmi, l'unico che mi stringeva a sé come se fossi la persona più importante del mondo. La mia anima gemella. Il mio amore.

Ripresi la cornetta e inspirai a fondo. «Vorrei soltanto sentire ancora la tua voce. Puoi rispondermi? Ecco, mi basta una parola, il mio nome o... un sussurro». Avevo il respiro spezzato dai singhiozzi, ma in realtà ero io stessa a essere stata spezzata. «Mi manchi, Luca. Ho-Ho tante cosa da dirti... Non vuoi sentire la mia risposta?»

Rimasi ad ascoltare il silenzio al di là della cornetta. Quel sibilo leggero che avvertivo mi era ormai entrato in testa, e come sempre speravo che si trasformasse nella sua voce.

Posai il ricevitore sulla base e mi asciugai le lacrime con la maglia del pigiama. A capo chino, uscii dalla cabina e mi incamminai verso l'ospedale.

«Scusami». Mi girai e vidi una signora anziana ferma a un passo dalla cabina. «Come funziona?» chiese indicandola.

«Ehm, deve solo comporre il numero che vuole. Il telefono squilla a vuoto e poi può cominciare a parlare» spiegai.

«E chi risponde?»

«Nessuno». Alzai le spalle. «È solo un modo per parlare con chi non può ascoltare. Domandare o... boh, quello che si vuole».

«Domandare?» Gli occhi scuri della signora mi scrutarono confusi. «A volte le domande sono complicate e le risposte sono semplici» aggiunse con un sorriso.

Restai in silenzio per qualche istante. «Sarà, ma se non c'è nessuno ad ascoltare, restano solo domande vuote».

Varcai la soglia dell'ospedale e subito venni raggiunta da Flavia. «Ma dov'eri?! Corri! Luca è...» gridò sua madre.

Non le diedi il tempo di finire la frase e corsi nel reparto di rianimazione. Non prestai attenzione agli infermieri che mi gridavano di non correre e imboccai subito il corridoio. Quando spalancai la porta della stanza il mio cuore sembrò fermarsi.

Non aveva più il tubo per la respirazione e i capelli neri gli ricadevano sul viso. Anche se pallido e malconcio, era splendido e i suoi occhi scuri su di me sorridevano.

«E-Elisa» sussurrò con difficoltà.

Mi avvicinai, gli accarezzai il volto e scoppiai a piangere. «Chiamami ancora...»

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