1. Matrice
Caddi dal cielo.
Sto cadendo nel Caos.
C'erano parecchie nuvole. E posso assicurare che non sanno di zucchero filato. Anche se avrei preferito non saperlo.
Sto scomparendo.
Ne attraversai diverse, prima che il mio cervello ricominciasse a funzionare.
Sto cadendo nel Caos. Sto... aspetta.
Non stavo cadendo nel Caos. Stavo cadendo e basta.
Non c'era stata transizione. Non ero svenuto e rinvenuto. Semplicemente, avevo toccato il buio, l'avevo sentito, e avevo capito che era finita.
Mi ero aspettato di vederci nero, per prima cosa. Mentre cadevo fissavo il cielo, pensavo per l'ultima volta.
Ma questo cielo non voleva saperne di scomparire.
La sensazione del nulla sulla pelle era scomparsa in un battito di ciglia. E ora...
Il primo istinto fu quello di gioire. In qualche modo, mi ero... cosa, teletrasportato? Invece che nel Caos, stavo precipitando attraverso un cielo sconosciuto, bucando le nuvole.
Non sto morendo non sto morendo non sto morendo
Il sollievo durò per ben un secondo e mezzo.
Poi realizzai che stavo precipitando dal cielo.
Ok, forse morirò comunque._
E allora perché mi sembrava di rallentare?
Era assurdo. Eppure, la velocità di caduta stava rallentando, o almeno così mi sembrava. O forse era solo il mio cervello che giocava brutti scherzi.
Ancor prima di avere la possibilità di chiedermi cosa stesse succedendo, o anche solo prima di cominciare a urlare per il panico, il mio corpo si fermò. Così, a mezz'aria.
Mi ritrovai a levitare. In qualche modo, riuscii a girarmi, ma era difficile dire se mi fossi messo dritto o meno. Non avevo idea di dove fosse il suolo.
Di certo, molto, molto lontano, perché da lì non si vedeva nulla. C'era solo aria, nuvole e ancora aria, in ogni direzione.
Ero troppo sbigottito anche solo per urlare.
Di cose assurde ne avevo vissute tante, ma questo era così surreale che...
Stige, sono davvero nel Caos.
Possibile che il Caos fosse questo? Non il nulla assoluto, ma un enorme cielo paradisiaco pieno di nuvole soffici come batuffoli in cui la materia galleggiava senza meta?
Sarei rimasto lì per sempre?
Ok, forse era meglio scomparire.
Non feci in tempo a pensarlo. Le nuvole cominciarono a sfarfallare, come computer difettosi.
E poi, davanti ai miei occhi, cominciarono a comparire i primi numeri.
Numeri e lettere. Verdi, stampate.
Il codice si allungò sempre di più, e le stringhe cominciarono a disporsi in cerchio. Quando mi decisi a distogliere lo sguardo, mi resi conto che se ne stavano formando altre, tutto attorno. Era come se provenissero dalle nuvole, come fili verdi svolti da gomitoli di lana bianca.
Cominciai a chiedermi se dietro tutto questo ci fosse la Efesto TV o un qualche altro show divino. "Vediamo fino a che punto Percy Jackson può vedere cose assurde prima di impazzire del tutto! Subito dopo la pubblicità!"
Poi dal miscuglio di codici uscì una mano umana.
- Smettila di pensare a cose assurde e sbrigati, idiota! –
Prima che potessi reagire, mi afferro il polso e mi tirò dentro al portale di lettere e numeri.
--
Mi svegliai in una bara.
O almeno, quella fu la sensazione. Ero steso in uno spazio di un bianco candido, chiuso e così stretto che conteneva a malapena il mio corpo.
Ero immerso in un liquido, questo lo recepii subito. Solo la parte più superficiale del viso rimaneva scoperta, permettendomi di respirare aria.
Non ebbi però tempo di chiedermi se quella roba fosse acqua o altro, perché cominciò a ritirarsi, come risucchiata da una forza invisibile. Allo stesso tempo, sentii qualcosa che mi strisciava su braccia, gambe, tutto il corpo... partendo da sotto la pelle. La sensazione era quella di avere migliaia di minuscoli tubicini che mi venivano sfilati da sotto l'intero strato cutaneo, dalla faccia alle punte dei piedi.
In pochi secondi, finì. Il liquido era sparito, lasciandomi asciutto, anche se per ovvi motivi la cosa non mi stupì. Anche quella fastidiosa sensazione dei tubicini era svanita, ma non sentivo dolore né ferite sulla pelle.
Provai a muovere un braccio verso l'alto, ma ero incastrato nello spazio minuscolo. Sentii distintamente il panico che saliva in gola. La claustrofobia non poteva scegliere momento peggiore per farsi sentire.
Poi qualcuno aprì la mia bara.
Mi tirai su così in fretta che mi prese un capogiro. Ok, un brutto capogiro. Un'emicrania vera e propria.
Accecato, sentii qualcuno che mi afferrava sotto le ascelle. Mi tirò in piedi prima che potessi proferire parola.
Si incastrò il mio braccio dietro al collo, circondandomi il busto con il suo, di braccio. Qualcun altro fece la stessa cosa sull'altro fianco. Mi sollevarono e cominciarono a trascinarmi di peso.
Volevo reagire. Volevo piantare i piedi, districarmi da quell'abbraccio assurdo e... non lo so. Urlare, dare di matto, cercare di capire qualcosa dei miei ultimi minuti di vita. Volevo almeno poter _parlare_. Ma dalla mia bocca non usciva un suono. Avevo gli occhi aperti, ma il mal di testa assurdo mi faceva vedere il mondo come un'unica massa bianca sfocata. E il resto del corpo sembrava fatto di plastica, uno stupido manichino. Mi sentivo come un'anima distaccata dal proprio corpo, un morto cosciente, che riceveva impulsi dal mondo esterno ma non riusciva a reagire.
Il tragitto mi sembrò durare, all'incirca, un annetto. Forse qualcosa di più. Poi i due tizi che mi sorreggevano girarono, avanzarono per un tratto di lato come per prendere la mira, e cominciarono ad andare all'indietro. Sentii le gambe urtare contro qualcosa di morbido, e realizzai che – con ben poca delicatezza – mi stavano stendendo su un letto.
Lasciarono spalle e testa cadere di peso sui cuscini. Nonostante l'atterraggio morbido, dalla testa già messa male partì una scintilla di dolore così forte da percorrere tutta la spina dorsale, come di riflesso. Sentii il viso contorcersi in un'impercettibile smorfia sofferente.
Qualcuno – uno dei tizi di prima, supposi – cominciò ad armeggiare sul mio corpo. Sentii aghi nelle braccia, strane ventose che mi venivano piazzate sul petto, flebo lungo le gambe, e realizzai di essere nudo come mamma mi aveva fatto. Ma se anche arrossii o feci smorfie, il tizio non diede segno di essersene accorto. Stava ancora piazzando un ago, quando mi iniettarono il primo liquido. Sonnifero, suppongo, perché sprofondai in un sonno forzato e senza sogni.
--
La prima cosa di cui mi resi conto quando mi risvegliai furono le voci.
-...sistema.- Era una donna. Non avrei saputo dire l'età, ma la voce risultava tiepida, dolce. – Era inevitabile che succedesse. Ora dobbiamo solo aspettare e... evitare di far danno. – Ok, tiepida, dolce e lievemente nel panico.
Percepivo che chiunque stesse parlando era affianco a me, sulla destra. Ma tentare di girare la testa fu una pessima idea. Nonostante avessi ancora gli occhi chiusi, un lampo accecante di dolore sembrò perforarmi la retina fino al cervello. Gemetti piano.
- Evitare di far danno? – replicò una voce maschile, fredda. Sembrava non avermi sentito. - Il danno è bello che fatto. Il massimo che possiamo fare è pregare di poter già tirare fuori qualche risultato decente, e... fargli capire come stanno le cose qui. Più o meno come le hanno fatte capire a me, un po' di tempo fa, hai presente? – Dal tono, sembrava stesse sorridendo.
Poi lo sentii chiaramente dirigersi verso di me.
Si sedette rumorosamente su uno sgabello, o una sedia, che qualcuno doveva aver posizionato vicino al letto, e restò immobile, forse aspettando pazientemente che aprissi gli occhi.
E io li aprii, piano. Era ancora tutto sfocato, e faceva male, un male assurdo.
Con una lentezza straziante, riuscii a mettere a fuoco la situazione. Ero appoggiato con la schiena a dei cuscini che sembravano fatti di pietra, freddi come gli Inferi. E quella era una sedia, sì, posizionata all'altezza delle mie ginocchia e girata verso di me. Il tizio seduto sopra... guardandolo... era giovane. Era piegato in avanti, in una posa rilassata, gli avambracci poggiati sulle ginocchia divaricate. I capelli neri sparati sulla testa. Doveva avere più o meno la mia età, forse poco di più. Occhi scuri...
-Ben svegliato – mi fece. Aveva una voce profonda per la sua età. – Complimenti. Non eravamo sicuri che avresti superato la notte. –
Lo guardai inebetito. Avevo sinceramente rinunciato a capirci qualcosa.
Lui dovette percepire la mia espressione confusa, ma non rise come avrebbe fatto un buon cattivo. In realtà, non mostrava nessun tipo di emozione.
Poi sollevò un poco la mano destra, giusto per mostrarmela. O forse, più per mostrarmi la pistola che stringeva in pugno. La fece roteare, con la naturalezza con cui io mi scrocchiavo le nocche, e riabbassò il braccio.
-Mi chiamo Quattro – se ne uscì, sempre con quella sua freddezza. – Solo Quattro. E da oggi, tu farai riferimento a me. –
~Philo_Sophia08
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