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Capitolo 6

Sentivo una voce lontana chiamarmi, pronunciare il mio nome in un modo così dolce che mi fece sorridere, ovunque io fossi, all'interno di quel buio che tentava di attrarmi a sé e che voleva che lo seguissi, per chissà dove e chissà per quanto.
-Matar. -. Mi ricordava tanto la voce di mio padre, quando la mattina entrava nella mia camera e quella di Samael e tentava di svegliarmi, chiamandomi, scrollandomi appena e scostandomi i capelli neri come la pece da davanti alla fronte, mentre io magari facevo finta di dormire, solo perché così avrei potuto udire la sua voce flebile, chiamare con imperituro, immutato e sconfinato amore quel nome che mi avevano dato come un dono della pioggia, del cielo.
-Matar. - aprii lentamente gli occhi, sbattendo la palpebre più e più volte, mentre la luce mi accecava, mentre mi guardavo intorno, nel tentativo di capire dove fossi, ma soprattutto per cercare lui. Era lì, inginocchiato accanto a me, i suoi vestiti sporchi di sangue quanto i miei, il volto pallido, più di quanto già non fosse normalmente, e i suoi capelli disordinati, arruffati, tra cui portai una mano nel vano tentativo di pettinarli, in realtà solo per toccarli.
-Ciao. - la mia voce arrivò alle mie stesse orecchie flebile, roca, non mi sembrò neppure appartenermi, ma ero stato io a parlare e di ciò ne ero sicuro.
Il suo viso era preoccupato, mentre mi aiutava a mettermi seduto. Mi doleva ovunque, ma soprattutto la spalla e in quel momento ricordai la pallottola, quella d'argento, che avevo preso per salvarlo, che avrebbe dovuto uccidermi quando mi ero gettato davanti a lui, facendogli da scuso con il mio stesso corpo.
Portai una mano là dove la maglietta mi era stata strappata ed era intrinseca del mio stesso sangue ormai secco. Per quanto tempo ero rimasto a terra, privo di conoscenza?
-Ti gira la chiesta? - chiese, continuando a tenermi sorretto e io scossi la testa, ma me ne pentii subito dopo, quando questa iniziò a dolermi e a vorticare, come quando da bambino giocavo a girotondo, solo che quella volta non fu per niente divertente.
-Forse un poco. - dissi, reprimendo un gemito di dolore, strizzando gli occhi e prendendo, poi, dei respiri profondi, nel tentativo di scacciare la nausea che stava arrivando prepotente.
Sentii il suo braccio passarmi sotto le ginocchia e poi mi prese, mentre mi sollevava da terra e io posavo istintivamente il mio capo sulla sua spalla spigolosa, ma che era più comoda di qualsiasi cuscino, anche quello che usavo per dormire. Sorrisi, mentre lui iniziava a muoversi e a me sembrava di essere cullato, come un neonato.
Inspirai forte il suo profumo e mi sentii, meglio, anche se sentivo che quella pace che ci aveva appena circondato sarebbe durata poco. La percepivo la corsa contro il tempo, quello che ormai non avevamo più: il sole stava per sorgere.
-Neon... - lo chiamai, gli occhi chiusi, un braccio abbandonato sul mio ventre, l'altro che penzolava nell'aria. I miei capelli bagnati a causa del sudore mi stavano pungendo la fronte, la febbre stava arrivando e io non sapevo se sarei riuscita a combatterla, poiché causata dalla pallottola d'argento che mi era passata da parte a parte, ma che era stata abbastanza per avvelenarmi quel tanto che bastava, ma mi andava bene così. Se fossi morto, avrei saputo che lui avrebbe continuato a camminare anche per me, che non avrebbe abbandonato i miei fratelli, perché me lo doveva, almeno questo.
-Non parlare. - mi zittì, la voce grave -Ho pulito la ferita per quanto potevo con alcune medicine che abbiamo preso, ti ho ricucito. L'unica cosa che devi fare ora è riposare. -.
Sapevo che voleva fare il duro, che cercava di mantenersi freddo e distaccato, ma che dentro di lui si stava agitando una tempesta violenta, impetuosa, che lo confondeva e rendeva fragile. Avrei voluto che quella tormenta mi travolgesse, mi abbracciasse e mi lambisse.
Immaginai la sua bocca sulla mia, le sue mani sul mio corpo, il suo membro tra le mie carni, che si faceva spazio tra le pareti bollenti e mi sembrò per un momento di gustare il paradiso.
Era normale che desiderassi ancora di più il suo corpo in quel frangente, ero debole, stanco, ma la mia natura richiedeva qualcosa che solo il sesso poteva darmi: potere. Solo grazie all'amplesso, solo grazie al suo seme bollente avrei potuto guarire più in fretta, ma non potevo chiedergli nulla in quel momento, non con il sole che stava arrivando e che mi stava minacciando; che mi avrebbe bruciato.
-Lasciami qui e torna di sotto. - aprii gli occhi e lo guardai, mi ritrovai ad annegare tra le sue chiare iridi di ghiaccio, in quelle calde pupille di nero spazio. Gli sorrisi e portai delicatamente una mano al suo viso, accarezzandolo, percependo un piccolo filo di barba trasparente pizzicarmi i polpastrelli sensibili e poi lo obbligai a baciarmi e lui rispose, facendo intrecciare le nostre lingue, stringendomi più saldamente con le sue mani.
Avrei anche barattato il paradiso con l'inferno pur di avere ancora e ancora la sua bocca premuta sulla mia, il suo profumo a cullarmi e i suoi lumi ad affondarmi.
-Non posso lasciarti qui. - la sua voce aveva un tono categorico, mentre continuava a camminare.
Cercando di non gemere cercai di muovermi, di scendere e lui me lo permise, anche se la pressione delle sue dita mi diceva chiaramente che non avrebbe voluto.
Una volta sulle mie stesse gambe la testa mi tornò a vorticare, ma la ignorai, cercando di mantenermi lucido, mentre mi facevo forza con le mani poggiate sulle sue spalle, che gli artigliavano quella giacca nera che si era messo addosso.
Non pioveva più, ma i suoi capelli erano umidi, qualche goccia ancora scorreva tra quei dolci fili neri e io la raccolsi con le mie labbra sulla sua guancia, per poi sporgermi verso il suo orecchio, alzandomi sulle punte.
-Ammazzati di solitari per qualche ora, mentre aspetti la notte. - gli consigliai lascivo, mentre tentavo di non tremare a causa degli spasmi della febbre che stavano inesorabilmente arrivando -Perché non mi sfuggirai la prossima volta. -.
-Parli come se dovessi stare tu sopra. - mi fece notare, mentre una sua mano andava ad infiltrarsi sotto la mia maglietta e rabbrividii, inarcandomi verso di lui, mordendomi il labbro inferiore.
-Tu pensa a portare la cravatta. - gli dissi allontanandomi, conscio che dovevo sbrigarmi a trovare un rifugio. Non sarei morto, non potevo, non prima di aver onorato quella promessa: lo avrei avuto il suo corpo, a costo di affrontare Dio in persona, di disobbedirgli sfuggendo alla morte che mi aveva procrastinato.
Mentre mi allontanavo sentivo i suoi occhi, mi fissarono a lungo, ma poi sparirono, come le stelle non appena arriva il giorno. Se ne andò. Senza farmi domande, senza dirmi nulla e forse fu meglio così, perché quando si scappa si sa cosa si cerca, ma non dove si è destinati ad arrivare.

*


Riposavo tra le folte e morbide foglie d'edera che giacevano su tutto il pavimento di quella casa in rovina, che avevo trovato appena in tempo, prima che i primi raggi del sole potessero accarezzare la mia pelle e ricordare la mia maledizione.
Tenevo gli occhi chiusi, in realtà, Morfeo mi aveva bandito dal suo regno quel giorno, come se anche lui ce l'avesse con me, poiché voleva farmi sentire tutto il bruciante dolore che mi stava tormentando dentro.
Le cure di Neon non erano bastate questa volta, probabilmente a causa delle condizioni con cui mi aveva operato, non era riuscito a pulire la ferita da tutto l'argento che ormai mi circolava in minima parte dentro. Lo sentivo, pesante, corrosivo, bramoso e nocivo nelle mie vene, scorrere insieme al sangue, avvelenandolo, come se fosse fiele.
Strinsi i dentro, strizzai gli occhi, le mie dita si serrarono tra quelle morbide foglie e le strapparono a causa di quel male che non avrei potuto curare; non da solo. Sarei morto e l'unico mio rimpianto era il non aver potuto godere di una notte bollente con la mia ossessione. Poteva essere possibile ciò?
Tossii, portandomi un braccio davanti agli occhi, mentre percepivo che mancavano ancora tante, lente ed inesorabili ore prima che arrivasse il crepuscolo che mi avrebbe permesso di tornare di sotto, ma a me rimanevano al massimo solo due ore; ero troppo debole per guarire, troppo debilitato perché il mio corpo potesse autonomamente eliminare quella traccia d'argento che in genere non avrebbe mai potuto uccidermi così facilmente.
In quel momento desiderai che Neon mi avesse seguito, che non mi avesse lasciato vagare da solo in quella terra nemica, che assomigliava a un cimitero illuminista. Dopotutto, a Città di Sopra le facciate e gli interni degli edifici erano tutti uguali, come i vestiti delle persone, la lunghezza dei capelli, le parole, i gesti e le abitudini. Per quanto avevo potuto osservare in quegli anni era solo un'enorme città di burattini, i cui fili erano mossi dai governatori che cercavano il sangue dei miei fratelli e solo per raggiungere i livelli di quel Dio che non avrebbe mai potuto amarli, perché egoista, distaccato; un Demiurgo malvagio, un genio maligno che aveva creato il mondo e le sue creature solo per puro divertimento e che io odiavo con tutto me stesso, insieme alle sue rigide e ingiuste regole, che forse erano dettate dalla ragione del cuore, ma che per me erano reali come il tronco di un albero, come la pioggia in un pineto.
Tentai di girarmi su un fianco, su quello della spalla buona, ma abbandonai l'impresa quando il dolore mi fulminò, come una saetta inviata da Zeus in persona. Iniziai a tossire, convulsamente, mentre quel dannato buco mi faceva un male straziante, indicibile, indescrivibile.
All'improvviso, tra le nubi che mi ottenebravano la mente, sentii qualcosa di freddo poggiarsi sulla mia fronte e poi sollevarmi appena la schiena, per aiutarmi a mettermi seduto, facendomi poggiare contro il suo petto.
Aprii gli occhi e lo guardai confuso, mentre ero appoggiato a lui che mi teneva tra le sue braccia. Perché era lì? Che fosse un'illusione?
Ne inspirai forte il profumo, che sembrò alleviare per un po' le mie pene; che mi fece riabbracciare per qualche attimo il paradiso perduto, dal quale ormai ero stato esiliato per tutta la vita. No, non poteva essere una proiezione della mia testa, lui era davvero lì.
Quasi mi venne da piangere per la felicità, mentre il cuore mi batteva all'impazzata all'interno del petto.
-Sei fresco. - mugugnai, come un bambino alla ricerca di coccole quando non stava bene, strofinando il viso contro la sua camicia.
Lui non disse nulla, lasciandomi fare. Rimanemmo così in silenzio, ma non uno di quelli tesi o pesanti, ma una semplice quiete dove a parlare erano solo i nostri pensieri, all'interno delle nostre menti e a far rumore erano i nostri respiri lievi.
-Perché lo hai fatto? - chiese poi, all'improvviso, dopo attimi interminabili in cui sarei potuto morire e non me ne sarebbe importato nulla, perché ero con lui, lui solo e lì, tra i suoi arti, circondato dalla sua fragranza, ogni cosa era assolutamente perfetta; anche la morte.
-Perché mi piace il brivido. - scherzai, sorridendo sghembo e poi chiudendo gli occhi -Ho sonno. - lo informai, poi; stava ormai arrivando davvero la mia ora.
Sentivo i suoi occhi chiari su di me, mi stavano sondando, probabilmente preoccupato o indifferente; dopotutto era Neon e lui per me non provava che attrazione fisica, esattamente come il sottoscritto, anche se ormai iniziavo a non crederci più nemmeno io.
Nel buio vidi i suoi occhi scintillare, adoravo quelle iridi che sembravano composti da mille frammenti infranti, incastonati tra loro in modo bizzarro, graffiante, tanto da poter sembrare stelle fredde e luminose tanto quanto la stella Sirio.
-Perché sei tornato, eri preoccupato per me? - sapevo che la mia era una mera speranza. Lui non poteva essere davvero preoccupato per me.
-Non ero affatto preoccupato per te, quanto per la mercanzia. - rispose freddo e io mi rabbuiai.
-Il mio corpo è a prova di bomba, sempre se non ti sbrighi a prenderlo. Se mi raffreddo non faccio più ding. - tentai di scherzare, con quell'orrenda battuta, complice la stanchezza che mi stava facendo delirare, così come la febbre alta.
-Mi basta che il tuo amichetto si raddrizzi. - si umettò le labbra, mentre io chiudevo le palpebre che si erano fatte pesanti, Morfeo mi chiamava a sé dolcemente, come le braccia di un padre che cullano la propria prole, come se fosse il più bello e delicato dei fiori del giardino del mattino.
-Non dormire, non ancora. - sussurrò Neon lascivo, al mio orecchio, leccandomelo -Non avevi richiesto una cravatta? - chiese, sfilandosela dalla tasca.
Socchiusi gli occhi, lo guardai bramoso, mentre sentivo il mio corpo infiammarsi e reagire, quasi riprendersi.
-Come vuoi che la usi? - chiese con voce roca, soffiando sulla mia pelle, facendomi rabbrividire, mentre inarcavo la schiena e le mie mani afferravano l'edera che nasceva sotto il mio corpo.
Gemetti, mentre le sue mani mi accarezzavano da sopra la maglietta rovinata, giocando con i miei bottoncini di carne, che si raddrizzarono all'istante. Mi morsi il labbro inferiore, mentre mi sfrusciavo contro di lui, facendogli percepire la mia esigenza di non fermarsi, di prendermi al più presto, implorandolo silenziosamente con i gesti.
-Siamo impazienti? - chiese, ridendo, mentre mi strappava la maglietta completamente e poi mi bendava con quella striscia di stoffa morbida, rinchiudendomi in una dimensione buia, dove tutti gli altri sensi erano ampliati, amplificati all'ennesima potenza.
Ebbi la pelle d'oca, mentre sentivo la sua lingua leccarmi il collo, le sue mani accarezzarmi e modellarmi i fianchi, mentre io gemevo incontrollato, cantando le sue lodi, senza trattenermi. Era dannatamente bravo con quella lingua, mentre scendeva, sempre più giù, divorandomi.
Gli artigliai la schiena, infilzandola con le mie unghie affilate, percepii il sangue caldo colargli dolcemente sulla pelle, quell'odore di ruggine raggiungermi le narici e mi eccitai, ancora di più, mentre desiderai per qualche strano e malato motivo poter cibarmi del suo sangue, come se potesse essere la più prelibata delle ambrosie.
Presto le sue mani divennero mille, i suoi denti si trasformarono in spiedi voraci, la sua lingua in serpenti bagnati, elettrici, che scendevano e scendevano sempre più giù, mentre il suo respiro era una lamina tagliente che andava ad unirsi al mio sudore bollente.
Quando arrivo al mio linguine, all'altezza del pube lo sentii inspirare forte il mio profumo, mentre le sue mani andavano a imprimersi sulle mie cosce, artigliandole, spalancandole senza alcun garbo, ma ormai il dolore era lontano e al mondo c'eravamo solo lui ed io, con la mia vista oscurata da quella dannata cravatta che però non avrei tolto.
Inglobò tra le sue labbra il mio membro ed iniziò a pompare, boccheggiai, quasi ringhiai, mentre muovevo il bacino per andare più a fondo in quell'antro bollente, la cui lingua mi faceva impazzire, boccheggiare, desiderare di più, ancora e ancora.
Era come essere all'inferno e allo stesso tempo in paradiso. Era la terra quel luogo, quella vera, quella voluttuosa, quella le cui porte erano spalancate per ricevere e dare piacere là dove non si sarebbe potuto avere.
Mi lasciò prima che potessi venire, sentivo le guance andare in fiamme, gemetti contrariato, mi tolsi la cravatta e mi misi seduto; in quel momento sembravo un animale, alla ricerca della sua preda. Fu per questo che mi gettai su di lui, buttandolo a terra, sedendomi a cavalcioni sul suo ventre mentre mi toglievo completamente i pantaloni che lui aveva solo sbottonato.
-Vedo che hai riacquistato le forze, peccato che non abbia portato la mia pistola di ferro. - disse, mentre gli occhi come il ghiaccio gli brillavano come diamanti nel buio.
Mi scostai una ciocca di capelli, mentre gli strappavo la maglietta che indossava, con le dita passai sopra ai suoi tatuaggi, che ogni volta mi ghermivano lo sguardo, gli accarezzai con la cravatta e poi gliela feci passare dietro il collo e lo tirai verso di me con essa, appropriandomi delle sue labbra, mordendole vorace, fino a farle sanguinare e poi leccai quel liquido rosso e vivo, mentre contro le mie natiche percepivo qualcosa di duro e ghignai.
-I Nephilim sono maniaci del sesso e sfortunatamente per te sono debole e questo mi rende ancora più bramoso. - lo informai.
-Per tua fortuna, ho proprio voglia di cacciarti. - disse, portando una mano tra i miei capelli e tirandoli, per scoprire così il mio collo che morse, violentemente, lasciando il segno sulla mia pelle.
Alla fine ci ritrovammo a rotolare su quel pavimento fatto foglie, in quella casa che sapeva di more; unico resto dell'apocalisse ormai finita, di ciò che rimaneva prima.
Quando ci fermammo lui era sopra di me, con le mie gambe sopra le sue spalle, il suo membro contro la mia apertura, che premeva bollente e io che gemevo di aspettativa, una mano che ancora lo teneva per la cravatta, altra sopra la mia testa.
Quando entrò fu come se davanti ai miei occhi vi fossero state mille galassie, come se all'improvviso fossi stato catapultato al centro dell'universo. Non vi fu dolore, solo la folle pazzia, il piacere più profondo e totalizzante, mentre il suo membro entrava e allargava le mie carni milioni di volte, fino a che entrambi non raggiungemmo l'apice e venimmo, consumando quel rapporto che avevamo agognato, mentre io lo tiravo verso di me con quella banda di tessuto e lo baciavo, sopprimendo quell'urlo primitivo che avrebbe potuto richiamare qualcuno.
Alla fine ci ritrovammo ansanti, accasciati a terra, completamente nudi, i nostri vestiti ormai distrutti dai nostri stessi istinti animali e unica superstite quella cravatta che annusai e che giurai di tenermi per sempre come souvenir, mentre cadevo finalmente tra le braccia di Morfeo mi reclamavano e io le seguivo.

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