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Capitolo 2

Erano trascorsi ormai tre giorni, ma continuavo a pensare a quel bacio, a quelle mani forti e ruvide che mi avevano accarezzato il corpo, irruente, ma passionali, tanto da lasciare alcuni segni sulla mia pelle candida.
Mi accarezzai con le dita le labbra al solo pensiero. Un gesto ormai diventato naturale, quanto irrazionale. Non avevo rivelato a nessuno della presenza di Neon e di quel bambino giù, in quella cattedrale abbandonata e che stava proprio ai confini della nostra buia città sotterranea.
Non ne avevo fatto parola e tutto perché quel bacio mi aveva tolto la voce, la capacità di pensare davvero.
Avevo provato a cercare qualcuno con cui condividere le coltri del mio letto, ma nessuno mi aveva fatto provare quelle scariche elettriche che invece avevo percepito scorrermi dentro con quella cellula. Perché?
Continuavo a chiedermelo dentro la mia testa, che ormai era piena solo di quel corpo, di quelle labbra e di quegli inspiegabili tatuaggi che ancora mi chiedevo cosa volessero dire.
Rabbrividii, mentre chiudevo gli occhi e mi poggiavo alla parete piastrellata della doccia sotto la quale sostavo, lambito dall'acqua calda che scorreva sul mio corpo, viaggiando lenta e veloce allo stesso tempo, baciandomi come un'avida amante che non ne ha mai abbastanza di te; che ti amava incondizionatamente, ma allo stesso tempo così possessiva da non volerti lasciare, da volersi unire al tuo corpo per sempre, penetrando attraverso gli invisibili pori della pelle e che l'accoglievano vogliosi di fare l'amore con lei.
Con gli occhi chiusi e la fredda e dura parete contro cui poggiavo la schiena fu facile richiamare a me i ricordi di quel bacio, delle emozioni represse dentro di me.
Mi accarezzai il petto, boccheggiando appena, mentre rabbrividivo e inarcavo già la schiena. Mille vibrazioni mi percorsero, mentre mi toccavo e immaginavo fosse la sua mano a farlo.
Scesi lento, proprio come l'acqua che mi stava lambendo, ma cauto, quasi violento, fino a lasciare il segno.
Arrivai in poco tempo al membro teso, ma lo sfiorai appena. Prima mi accarezzai la parte sensibile della pelle, il ventre teso, ritto e duro, i fianchi snelli e sinuosi e il bacino. Passai la mano poi sul pube liscio, privo di peluria e infine, finalmente presi la mia staffa in mano.
Era calda, eretta e tesa. Mi doleva, ma appena la circondai con le mie dita iniziai a sentire sollievo e sempre più crescente desiderio.
Mi immaginai quegli occhi azzurri come il ghiaccio, penetranti come lamine di vetro. Mi illusi che mi stessero guardando negli occhi, che si scurissero nel sentire i miei sospiri, i miei gemiti di piacere.
Percepii le gambe tremare e mi addossai ancora di più alla parete, cercai di non cadere, ma la caduta era inevitabile, poiché stavo già precipitando in qualcosa che era più grande ed oscuro di me.
Mi lasciai scivolare, mentre continuavo a darmi piacere. Tremai e alla fine venni, pronunciando quello strano nome che ricordava la luce; l'unica che avevo potuto toccare senza bruciare.
Annaspai e riaprii gli occhi, trovandomi in bagno e non più in quella buia chiesa. Le mie mani erano sul mio corpo, non più su quelle di Neon che era scomparso, non stavano più percorrendo quegli scuri e misteriosi tatuaggi.
Abbassai gli occhi, mentre mi sentivo arrossire appena. Mi passai una mano tra i capelli che per quella settimana avevo tinto di azzurro turchino; non potevo farci niente, odiavo quel colore nero che mi ricordava ancor di più il mio stato, la mia maledizione, di tenebra immortale ed imperitura.
-Matar? – bussò qualcuno alla porta. Era la voce del mio secondo fratello, Samael. –Va tutto bene? Sei lì da un'eternità. – mi fece presente, cercando di modulare la voce in modo che sembrasse atona, ma da cui traspariva comunque una certa preoccupazione. Dopotutto, lui era così, sempre preoccupato e il più coscienzioso tra me e la piccola Nadia, la nostra sorella più piccola.
-Sto bene, sto bene. – lo liquidai mentre continuavo a sedere sul freddo granito bianco sotto la doccia. Il mio corpo ancora tremava e lo sentivo bollente come lava. –Ora esco, non preoccuparti. -.
Dall'altra parte non venne risposta, ma mi immaginai che avesse annuito con lo sguardo basso e comunque preoccupato. Avrei dovuto farmi perdonare per tutto il carico che mettevo sulle sue spalle, ma che era necessario.
Noi non avevamo genitori, erano stati uccisi dalle cellule un anno dopo la nascita di Nadia e questo solo perché avevano fatto la cosa più naturale al mondo: cercare cibo per i propri figli. Infatti, Città di Sotto, era povera e troppo buia per poter coltivare qualcosa; le uniche cose commestibili erano le more che nascevano per qualche strano motivo in abbondanza, ma per il resto non vi era altro.
Città di Sotto non era altro che un'immensa distesa di buio e acqua e le case erano grossi grattacieli che reggevano lo strato divisore che collegava le due città. Ragionevolmente ci si poteva chiedere come mai le cellule non utilizzassero quel collegamento e il motivo era uno solo: gas solfurei. Infatti, nessuno, nemmeno noi Nephilim, abitavamo i piani più alti di quegli edifici. Quell'aria pesante e puzzolente di uova marcia era nociva anche per noi. Se questo non bastasse, per qualche strano fattore chimico quello bruciava chiunque vi venisse a contatto.
Molte cellule ci avevano provato, ma alla fine si erano arresi, come avevano lasciato perdere il provare a calarsi lì sotto. Non solo eravamo ad almeno duemila chilometri sottoterra, ma la loro tecnologia non aveva alcuna utilità tra queste buie cavità. L'unico modo, quindi, per ucciderci era aspettare la notte, quando alcuni di noi si azzardavano a salire per procurarsi il necessario per vivere.
In qualche modo però Neon doveva aver raggiunto la mia città; ciò voleva dire che c'era una falla di cui era a conoscenza solo lui, ma se c'era un punto cieco e scoperto, voleva dire che prima o poi qualcuno l'avrebbe trovato e noi saremmo stati in pericolo. Bastava poco.
Mi immaginavo già l'arrivare di un giorno, uno in cui tutti eravamo nei nostri letti a dormire; un esercito di quegli uomini finemente addestrati scendere coi loro passi felpati verso la nostra città, armati fino ai denti con ferro ed argento.
Mi sembrava già udirli marciare da lontano, con i loro occhi ciechi, ma tutti gli altri sensi sviluppati d che non avevano nulla da invidiare a quell'altro che avevano perduto. Li sentivo, persino, aprire le porte delle case, sfondandole, gli abitanti che le occupavano svegliarsi di soprassalto e poi gridare prima di venire uccisi o presi come ostaggi, che avrebbero comunque incontrato prima o poi la morte dopo aver donato tutto il loro sangue ai "capi", quei dodici uomini, come gli apostoli, che volevano cibarsene per essere gli unici a poter dire di essere vicini a quel Dio che non immaginavano neanche lontanamente quanto potesse far paura. Loro, però, lo veneravano, perché era il creatore, era colui che aveva dato loro la vita, l'intelligenza, la razionalità e la superiorità; non vedevano affatto quanto in realtà quella caratteristiche, in confronto per esempio a un sasso, fossero in realtà negative, punitive.
Dopotutto, però, sebbene noi li chiamassimo cellule, erano comunque umani. Gli ultimi rimasti in vita dopo la grande apocalisse che aveva mandato noi qui e aveva sterminato la maggior parte della loro razza, riducendo la Terra a qualcosa di piccolo, ma profondo.
Uscii dal bagno completamente nudo, troppo sovrappensiero per pensare di asciugarmi o coprirmi. Andai in soggiorno e mi buttai sul divano.
Samael coprì gli occhi alla piccola Nadia che mi guardava interessata.
-Vestiti! – mi ordinò il mio fratellino, buttandomi una maglietta appena piegata sul tavolo. Era lui a fare da "casalinga"; io non sapevo nemmeno da che parte voltarmi per fare le pulizie o cucinare. Lui invece era bravissimo a preparare da mangiare, sebbene avesse imparato tutto da solo.
Presi al volo l'indumento e gli altri a susseguirsi, fino a che non fui completamente coperto.
-Fratellone! Mi leggi una favola? – chiese quel piccolo esserino dai boccoli neri, gli occhi due agate lucenti e brillanti, correndo da me non appena Samael la lasciò andare.
In mano aveva un piccolo libro di fiabe, che ero sicuro di aver letto mille volte quando ero bambino. Lo presi, sorridendole, e ne accarezzai la copertina consunta.
-Vieni qui. – la presi sotto le braccia e la sollevai, facendola sedere sulle mie gambe. Lei si accomodò allegramente, mettendosi comoda e con i suoi capelli mi fece leggermente il solletico. Annusai quei fili corvini che sapevano di orchidea rossa e lamponi; sorrisi, iniziandole a leggere la mia storia preferita. Era la storia di un angelo che aveva ceduto le sue ali in cambio di una singola vita, ma non una qualunque: quella della sua amata.
Era una fiaba un po' romanzata, di per sé grottesca, ma quel libro era stato scritto per noi fratelli, da nostro padre.
La sua calligrafia era ancora chiara tra quelle pagine ingiallite e scurite dal tempo, ma rimaneva comunque impressa la sua gentilezza, il suo impegno nella pressione dell'inchiostro che non sbavava mai. Mamma mi aveva sempre detto di averlo composto quando ancora ero nel suo grembo e che quindi era praticamente per me, ma a me piaceva pensare che fosse per tutti noi, per questo lo avevo regalato a Samael prima e a Nadia dopo.
Non ci impiegò molto ad addormentarsi, cullata dalla mia voce e dal mio calore.
-Sam, io esco. – informai l'altro, accarezzando i boccoli neri di lei e adagiandola sul divano consunto, coprendola.
Lui alzò gli occhi stralunato, confuso e preoccupato.
-Ma è giorno e... - mi avvicinai a lui e gli scompigliai i capelli ramati; era l'unico tra noi tre ad aver ereditato quel colore vivo e vero.
-Non vado di sopra. Resto in città, ma devo vedere una persona. – Lui annuì mogio, ma io gli sorrisi incoraggiante. –Non mi metterò nei guai, promesso. – mi misi una mano sul cuore e lo giurai.
Lui sbuffò, ma annuì mentre mi guardava andare via.

Quando entrai in quella chiesa questa volta notai quanto fosse fredda: le pareti erano grigiastre, gli affreschi sbiaditi o del tutto rovinati dal tempo; su alcune sporgente erano state poste tante candele, in quel momento spente.
Percorsi tutta la navata centrale guardandomi attorno e tutto con la sola speranza di vedere lui; solo e soltanto lui.
-Non dovresti essere qui. – sentii la schiena leggermente bruciare; di nuovo quella maledetta pistola di ferro, tuttavia, percepii anche caldi brividi percorrermi.
-Metti via quel giocattolino, Neon. Sono venuto in pace... o quasi. – mi voltai e ghignai, scostando la canna della pistola delicatamente e il più velocemente possibile. Mi avvicinai a lui, umettandomi le labbra e poi gli accarezzai il viso, sensuale, finendo per accarezzargli il collo e i relativi tatuaggi a solcarlo.
-Che cosa vuoi? – mi chiese, guardandomi con quegli occhi chiari, curioso e diffidente allo stesso tempo, ma lasciandosi toccare da me. La sua pelle era calda esattamente come la ricordavo, dura e tesa come una corda di violino, forte come una lastra di pietra marmorea e sapeva di uomo.
L'acquolina mi tornò in bocca a causa del desiderio.
-Beh, mi chiedevo se volessi finire ciò che avevamo iniziato. – spostai la mano su quel petto scolpito, coperto da una maglietta nera e leggera. Lo dissi con tono sensuale, avvicinandomi ancora di più a lui, mentre non sentivo alcun pudore provenire da me, poiché la brama era troppo forte per sentire la vergogna che sapevo sarebbe arrivata solo più tardi, solo dopo che quell'attimo sarebbe sfuggito dalle mie mani senza che ci potessi fare nulla; proprio come diceva Schopenhauer, dopotutto, la vergogna arriva solo dopo l'atto sessuale, poiché dallo scontro di due infelicità si sarebbe data alla luce una terza. Non che io potessi avere figli, comunque, con lui.
Lui mi prese il mento, lo serrò tra le sue forti di dita che avrebbero lasciato il segno. Mi guardò dritto negli occhi.
Azzurro contro topazio. Cielo contro terra. Cellula contro Nephilim.
-E' davvero solo questo che ti ha portato qui? E' per questo che non ci hai denunciati? E' stata solo la voglia? – chiese curioso, perplesso, ma un lieve sorriso aveva inarcato le sue labbra.
-La voglia e la curiosità. – asserii –E comunque chi mai crederebbe che qualcuno come te sia qua sotto? Nessuno, soprattutto viste le condizioni di caos in cui versiamo. – ed era vero. Non avevamo un capo o una guida; poi, oltre a dover combattere contro le cellule, noi stessi, stavamo combattendo tra di noi alla ricerca di un leader che però non era ancora arrivato.
-Curiosità? Credevo che solo gli uomini la possedessero e che voi di origine celeste la aberraste. – mi lasciò andare, riponendo la pistola nei suoi pantaloni come la prima volta e voltandosi, per andare verso una delle finestre colorate a guardare attraverso un'apertura. A quanto pare non mi credeva.
-Noi... beh avremo anche sangue di Dio nelle vene, ma siamo stati ripudiati dal suo regno. – mi scostai una ciocca di capelli azzurri dietro l'orecchio, mentre mi sedevo accavallando le gambe su una della panche. Osservai la sua schiena, provai ad immaginarla; l'ultima volta non ero riuscita a sfiorarla, a scolpirla nella mia mente.
-Perché? – chiese, rimanendo a fissare fuori.
Guardai il soffitto. Osservai gli angeli con le trombe che rappresentavano l'apocalisse.
-Sembra che uno di noi Nephilim abbia commesso un peccato troppo grande per essere perdonato. – risposi con voce lontana –Non so se sia vero, ma uno di noi portò un uomo in paradiso. "Era il suo ultimo desiderio" si era giustificata la Nephilim al cospetto di Lui, quella grande entità che sta sopra le nostre teste "voleva vedere il paradiso prima di morire" -.
Si voltò verso di me e camminò in mia direzione, prendendomi una mano e costringendomi ad alzarmi. A causa della sua forza mi ritrovai contro il suo petto, circondato dalle sue braccia e toccato dalle sue mani che si erano infilate sotto la mia maglietta.
Gemetti appena, mentre il cuore iniziava a battermi all'impazzata come faceva solo in sua presenza.
-E tu, a cosa credi? – chiese al mio orecchio, mentre mi faceva retrocedere di nuovo verso la parete.
Sorrisi. –Credo che ne sia valsa la pena se è stato per amore. -.
Le sue labbra si posarono sulle mie nello stesso momento in cui mi sbatté nuovamente contro quella dura superficie. Alzai una gamba e gli circondai la vita, avvinghiandomi a lui e tenendolo più stretto che potevo.
Le mie mani viaggiarono nuovamente su quel corpo maturo, mentre lui mi marchiava con la sua violenza.
Quella volta ero sicuro che niente ci avrebbe interrotti, che tutto sarebbe stato splendidamente perfetto, mentre i nostri indumenti volavano di nuovo, facendo incontrare le nostre pelli che bramavano il reciproco contatto, mentre ci stavamo divorando di baci e di morsi violenti.
Avevo anche appena messo le mani sulla sua schiena, la stavo graffiando, mentre percepivo sotto i polpastrelli altri disegni neri; tra cui delle ali.
Stavo per scoprire altro, stavo per ricevere altro, ma poi un verso strozzato arrivò alle nostre orecchie e fummo costretti a separare le nostre fameliche bocce e guardare la provenienza di quel rumore.
Fu allora, tra il velo opaco di passione, che incontrai gli occhi di Samael che doveva avermi seguito.
Rosso come un peperone arretrò e poi scappò via, facendo risuonare il pesante portone di legno che si chiuse alle sue spalle.
-Cazzo. – imprecai staccandomi da Neon, che però mi mese una mano intorno al collo. Una rabbia cieca all'interno delle sue iridi spiritate.
-Mollami. – gli ordinai –E' mio fratello... non dirà nulla. – gli svelai, sperando mi credesse.
La presa si allentò. –Vallo a prendere e portalo qui, Nephilim, altrimenti non ti piacerà ciò che farò. – mi minacciò.
Lo fulminai con lo sguardo. –Osa fare del male a Samael e sarai tu quello a dovermi temere, umano. – sibilai, attirandolo verso di me e baciandolo ancora, mordendogli la lingua e poi andandomene mezzo svestito.

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