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Capitolo 1

Mi mancava il fiato, sentivo una fitta punta al fianco per lo sforzo della corsa. Mi tenevo la spalla con una mano guantata dai miei guanti di pelle senza dita; erano riusciti a colpirmi.
Il mio sangue colava lento dalla ferita, ma dovevo resistere e sperare che non fosse troppo profonda e che non avessi perso troppo sangue sull'asfalto bagnato della città. Non volevo lasciare tracce, non dovevo; oppure, mi avrebbero trovato troppo presto e mi avrebbero preso e io non volevo essere ucciso. Non ancora. Avevo molto da fare, dovevo aiutare i miei fratelli, quelli di sangue e quelli della rivolta.
Con la spalla poggiata al muro di un edificio, mi sostenevo ad esso, nel tentativo di riprendere fiato.
Era notte fonda e a breve sarebbe sorto il giorno. Dovevo sbrigarmi, altrimenti non sarei potuto tornare a casa e sarei morto, bruciato dal sole, preso dalle cellule che erano sulle mie tracce.
Sentii il rumore di pneumatici. Mi avevano trovato. Imprecai, tornando a correre, cercando di non guardami alle spalle.
I miei bassi stivaletti di pelle calpestavano le pozzanghere di acqua nera facendo rumore, la spalla mi doleva da morire e avevo la vista offuscata. Dovevo resistere, dovevo!
Mi guardai appena dietro una delle mie spalle, ed eccola lì la macchina nera e lucente. Appena mi notò accese i fari e io fui nel loro mirino.
Proiettili d'argento iniziarono a piovermi addosso, nel tentativo di colpirmi e uccidermi.
Cercai di affrettare il passo, di correre il più velocemente possibile con le mie lunghe ed esili gambe, ma non ce l'avrei mai fatta.
Avevo il cuore in gola, il fiato spezzato, gli occhi che bruciavano, mentre con un ultimo grande sforzo li chiudevo e mi concentravo.
Il fischio di quei piccoli e acuminati pezzi d'argento mi circondavano, mi sfioravano e mi graffiavano. Dovevo fare alla svelta.
Con un ringhio acuto, con le ultime forze che mi erano rimaste, digrignando i denti evocai le mie ali: nere, grandi, perfette e ampie come ali di pipistrello; all'apparenza fragili, ma in realtà solide e robuste.
Iniziai a sbatterle, a librarmi in volo. I fischi si fecero ancora più intensi, un proiettile mi colpì alla gamba ed urlai, ma non mi arrestai. Dovevo fare alla svelta, prima che mi prendessero, che il sole sorgesse e mi riducesse in un semplice cumolo di cenere.
Muoversi nella Città di Sopra non era semplice, non era stata concepita per esseri alari come me, ma per uomini superiori, malvagi e tiranni, che volevano la nostra morte e che ci cercavano, per bere il nostro sangue e farci estinguere.
Gli edifici erano bassi, le strade strette, piene di travi.
Le luci continuavano ad illuminarmi, il mio sangue ormai colava dalle mie ferite come se fossi un fiume in piena. Per un momento, mi arresi, mentre le cellule continuavano a inseguirmi senza sosta. Mi erano alle calcagna, sempre più vicini ed inutili erano le mie manovre di volo.
Non ce l'avrei fatta, non questa volta.
Le lacrime si fecero pungenti, mentre il cuore mi si stringeva e il viso dei miei fratelli mi si presentava davanti agli occhi. Ebbi paura per loro e non per me. Che cosa gli sarebbe capitato se fossi morto? Io ero l'unico che poteva prendersi cura di loro!
Strinsi i denti, fino a produrre un rumore fastidioso, come di unghie che graffiano la superficie nera di una lavagna.
Aumentai il battito delle mie ali.
I proiettili avevano smesso di volare, probabilmente aspettavano semplicemente che mi arrendessi, che non avessi più forze o che forse arrivasse il primo raggio di sole ormai prossimo.
Il cielo nero si stava tingendo dei colori dell'alba. Imprecai silenziosamente.
-Resisti. - mi incitai. Poi finalmente lo vidi: il profondo dirupo che segnava il confine tra la loro città e la nostra.
Un sorriso mi illuminò il volto, ma in quel momento non potei abbandonarmi al sollievo, poiché altri proiettili iniziarono a volare e a tentare di colpirmi, per fermarmi.
-Un ultimo sforzo! - urlai, mentre aumentavo la velocità in un ultimo sprint che sarebbe valso la mia vita o la mia morte.
Alla fine mi fermai, mi voltai verso quella macchina che si era fermata, sterzando e facendo stridere i freni, mentre si fermava prima di cadere nel dirupo. Osservai quelle cellule uscire dalla vettura, vestiti con quei loro completi eleganti e gli occhiali da sole a coprirgli gli occhi che sapevo essere ciechi sotto quelle lenti scure.
Sorrisi loro, aprii le braccia come ad abbracciare la libertà, chiusi gli occhi e proprio mentre il sole sorgeva, mi lasciai cadere nel vuoto, mentre tutto si faceva buio e perdevo i sensi.
Ero salvo... o così credevo.


Quando mi svegliai sentii un fuoco crepitare. Lentamente e dolorosamente tentai di aprire gli occhi.
Mi sentivo stanco, indolenzito, quasi non avessi dormito; anche se qualcosa mi diceva che invece dovevo aver dormito per parecchie ore se non giorni. Dopotutto, avevo perso parecchio sangue.
Quando riuscii a mettere a fuoco la prima cosa che vidi fu un alto soffitto; era elegante, affrescato con raffigurazioni che rappresentavano alcuni episodi della bibbia. Che fossi in una chiesa?
Voltai il capo, un forte dolore mi colse e strizzai gli occhi. Ero poggiato su una panca, capii, quando la vista tornò di nuovo a fuoco. Mi trovavo davvero in una chiesa, probabilmente diroccata e dove ogni croce era stata tolta per non nuocere a noi, esseri che il nome di Dio non potevamo nemmeno pronunciarlo, poiché eravamo dei reietti, semplici scarti che aveva bandito dal suo regno e destinato alla morte. Eravamo Nephilim: né demoni, né angeli, né umani. Non eravamo nulla, solo fantasmi di noi stessi.
-Non muoverti. - mi intimò una voce fredda e io gelai, immobilizzandomi, mentre sentivo qualcosa di freddo come il metallo, premere contro la mia tempia. -Nephilim. - disse a mo' di saluto quella voce e guardandolo vidi i suoi occhi azzurri, come il più pallido ghiaccio colpito dalla luce del sole. Come poteva essere una cellula nel nostro territorio? Non era possibile!
Alla tempia mi puntava una pistola. La sua canna premeva proprio sulla mia pelle, bruciandola appena. Il ferro non era il nostro vero nemico, ma l'argento, quello che ero sicuro risiedesse nel caricatore pieno di pallottole brillanti di quel materiale.
Il mio cuore si fermò per un attimo, per poi riprendere furioso a battere. Il mio petto si alzava e si abbassava irregolare, frenetico.
Mi morsi l'interno della guancia, cercando di mantenere la calma che non avevo. Quella non sembrava affatto la mia giornata fortunata.
-Se non urli o scappi prometto di non farti nulla. - disse, scostandomi una ciocca di capelli chiari da davanti alla fronte.
Lo guardai incredulo, osservando quel volto imperfetto, solcato da una cicatrice che partiva dalla sua fronte, passava sull'occhio e andava a lacerare il suo labbro superiore ed inferiore.
Sulla gola, scomparendo sotto la camicia bianca e sporca, potevo vedere un tatuaggio. Questo raffigurava una Madonna e tra le sue braccia Gesù bambino in fasce. Non avevo mai visto una cellula tatuata. Per un momento pensai che dovesse averne molti altri sotto quegli strati di stoffa.
-Uccidimi e basta. Sei qui per questo no? - ringhiai, mentre lo guardavo con astio con i miei occhi color dell'oro e le pupille allungate, come quelli dei gatti.
Lui rise e picchiettò sulla mia tempia quell'arma, come a ricordarmi che io ero debole e disarmato, mentre lui forte e con il coltello dalla parte del manico.
-No, ho lasciato quella vita parecchio tempo fa. - disse ritraendosi e nascondendo la pistola dietro la sua schiena, forse in un fondina o dentro i suoi pantaloni, sotto la camicia.
Lo guardai incredulo, curioso, mentre mi aiutava a sedermi. -Puoi andartene quando vuoi, ma hai battuto la testa quando sei caduto e hai perso parecchio sangue dalle ferite che ti ho rammendato. - mi informò, alzandosi e togliendosi la polvere dalle braghe nere e sgualcite.
Sulle sue mani notai altri tatuaggi; precisamente sulle dita: su ogni falange era raffigurato un anello. Sul polso notai poi una scritta in cirillico.
-Che significa? - mi lasciai sfuggire, mordendomi poi la lingua. Avevo forse scordato le prime regole di sopravvivenza? Mai parlare con le cellule, mai avvicinarle e mai avere a che fare con loro.
Lui mi sorrise, mentre con il pollice si accarezzava la scritta in rilievo. -Errare humanum est- rispose in latino. Un'altra lingua a me preclusa. Sembrava un tipo dannatamente religioso con tutti quei simboli sulla pelle; eppure, il suo aspetto diceva tutto il contrario.
Non doveva aver più di ventiquattro anni, i capelli erano neri, che contrastavano totalmente con la sua pelle candida come la neve; le sue labbra erano carnose, quella cicatrice che si era fatto rendeva i suoi tratti ancora più duri, quei tatuaggi un'aria misteriosa, mentre le sue spalle erano larghe e il suo corpo trasudava la parola "uomo" da tutti i pori, grazie a quei muscoli gonfi, che era impossibile non notare.
Arrossii nel constatare che lo stavo fissando da troppo e con troppo interesse. Corpi come quelli ce ne erano a bizzeffe se volevo farmi un giro! Dovevo smetterla di guardarlo e basta!
Lui mi osservava ridacchiando. -Nephilim, vuoi una foto? - chiese sarcastico e io per tutta risposta mi alzai per andarmene via stizzito, ma avevo completamente dimenticato i suoi suggerimenti. Così alla fine mi sentii mancare la terra sotto i piedi.
Chiusi gli occhi e aspettai l'impatto che non arrivò, ma anzi, percepii il suo braccio reggermi. Perché mi stava salvando se era una cellula? Non avrebbe dovuto uccidermi e consegnarmi ai suoi grandi capi o come diavolo li chiamavano lassù?
-Stupido. - bofonchiò, rimettendomi in piedi, mentre io ero di nuovo rosso sia per la rabbia che per l'imbarazzo, anche se per la figuraccia questa volta.
-Non sono stupido. Lo sei tu cellula! - ringhiai. Ma forse non avrei dovuto pronunciare quell'ultima parola.
Il suo volto si indurì all'istante e la rabbia lo tramutò. Mi sembrò un animale feroce, pronto ad uccidere.
Senza che potessi fare nulla mi ritrovai schiacciato contro una parete, un crocefisso a bruciarmi la pelle.
Cercai di scappare, di divincolarmi, ma il braccio che premeva contro la mia gola era troppo forte.
-Non chiamarmi mai più così stupido, piccolo, Nephilim. - allontanò quell'oggetto da me, ma il bruciore rimase come le lacrime che rigavano il mio volto, inumidendolo.
-Allora dimmi come devo chiamarti e falla finita. - dissi, con un filo di voce; tutta quella che mi era consentita usare.
-Neon, il mio nome è Neon. - rivelò, allentando la presa, ma non allontanandosi di un centimetro.
I nostri petti erano l'uno contro l'altro, si alzavano e abbassavano senza mai staccarsi; i nostri visi invece erano così vicini che sentivo il suo respiro accarezzarmi caldo la pelle, mentre il suo profumo non era dei migliori (sapeva di polvere e sporco), ma in qualche modo mi inebriava, come una droga.
I miei occhi affondarono nei suoi e poi fu un attimo. Uno di quei frangenti che non ti spieghi, del tutto dettati dall'impulso e dalla pazzia; uno di quelli di cui ti penti il secondo dopo che li hai fatti, ma mentre compi quell'azione ti senti bene, vivo come non mai.
Le nostre bocche si unirono, si scontrarono violente, mentre le nostre stesse mani andavano a cercare la pelle scoperta e calda, alla ricerca del brivido.
Mi ritrovai completamente sotto il suo corpo, appiattito contro la parete di quella chiesa sconsacrata.
Le nostre gambe si erano intrecciate e ci stavamo spogliando. Possibile che un'attrazione fisica potesse essere così forte da superare la ragione? O forse era solo l'astinenza? Da quanto tempo non toccavo un corpo? Troppo, sebbene non avessi più di diciannove anni.
Presto i nostri petti furono nudi, mentre le nostre bocche continuavano a divorarsi, le labbra danzare. Con la punta delle dita percorrevo tutto il suo sterno soffermandomi su quei tatuaggi neri, che solcavano quel marmo duro: una farfalla sul fianco destro, un crocefisso sul cuore, qualche altra frase cirillica sulle braccia, un teschio che tra i denti stringeva un coltello vicino all'ombelico e per finire la rappresentazione di un tramonto o un'alba con un uccello che volava verso il sole sulla linea dell'orizzonte che si rifletteva sul mare sul fianco sinistro.
Rabbrividii, mentre tenevo gli occhi socchiusi e non vedevo l'ora di toccare e graffiare quella schiena e scoprire magari altri tatuaggi. La magia, però, finì com'era iniziata.
Le nostre bocche si separarono, il nostro fiato era rotto e i nostri occhi si osservavano colpevoli e guardinghi.
Sentivo le gambe molli, mentre il desiderio non riusciva a sopirsi dentro di me. Volevo di più e questo era un male. Lui era una cellula e io un Nephilim; quel bacio non sarebbe mai neppure dovuto esistere!
-Credo sia meglio che tu te ne vada. - disse staccandosi, e fu come ricevere un'ulteriore ferita fisica.
Dannata chimica! E dannato, dannato cirillico!
Come poteva un uomo risucchiarti l'anima con un bacio, tenerti saldo con le sue braccia e plasmarti con le sue mani? Non aveva senso alcuno!
-Sì, credo anche io che sia meglio. - risposi duro, ma non mi mossi, totalmente carpito dai suoi occhi chiari che avevo capito non essere per niente ciechi. Sembrava una cellula anomala in tutto e per tutto.
-Neon? - chiamò una voce più giovane, aprendo una delle porte dietro l'altare.
Era un bambino di non più di dodici anni, capelli neri e occhi chiari come quelli dell'uomo che mi stava davanti, ma senza alcun tatuaggio. Doveva essere suo fratello.
-Torna di là Andrey, arrivo subito. - gli ordinò la cellula, sciogliendo il nostro contatto visivo.
Mi sentii spezzare ancora di più e mi risultò difficile respirare, quasi mi avessero colpito al cuore. Che diamine mi stava succedendo? Non è che mi ero preso una di quelle malattie da cerebrolesi come "il colpo di fulmine", vero? Certo che no! Io ero superiore a tutto questo. Allora perché qualcosa mi diceva di sì?
-Va pure, posso cavarmela da solo. - lo scacciai con una mano, quasi fosse una mosca, mentre scivolavo via nonostante le mie gambe ancora risentissero di quel dannato bacio il cui sapore non voleva abbandonarmi.
Lui mi guardò senza dire niente e freddo annuì, andandosene verso il bambino, mentre io raccoglievo la mia maglietta che era stata buttata ai miei piedi.
La rimisi e poi mi azzardai a voltarmi verso di lui, ma era già sparito, oltre la porta pesante che si chiudeva.
-Non pensarci troppo, Matar. - dissi a me stesso, sottovoce, mentre mi scostavo dietro le orecchie i capelli di un pallido biondo platinato, che in realtà erano di un nero corvino simile al blu, ma che continuavo a tingere.
Mentre me ne andavo una leggera pioggia iniziò a scendere all'interno della chiesa. Stupida, stupida pioggia; anche lei ci si metteva a farmi ricordare il sapore di quel bacio umido che sapeva di pioggia, rugiada e neve siberiana.

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