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Which Witch

Sin da quando ero piccola, i miei genitori si sono sempre assicurati che fossi all'interno della Chiesa: al di là delle messe e del catechismo, mia madre in particolare mi ha sempre spinto ad essere attiva in parrocchia e a seguire i comandamenti - il numero di volte in cui mi ha picchiata in nome di Onora il padre e la madre è assolutamente diabolico.

In più, la famiglia di mio padre è estremamente religiosa: zie catechiste, zie coriste, zii che lavorano a stretto contatto con vescovi, un prozio monsignore e mio padre che ha frequentato il seminario per anni - il che è esilarante, considerando che è mio padre.

Quindi per me è sempre sembrato ovvio che la mia vita ruotasse intorno alla Chiesa, che le mie zie mi accompagnassero ai ritiri spirituali, che dopo la cresima intraprendessi il percorso per diventare catechista e che l'unico modo in cui sarei potuta essere felice fosse cercando la salvezza dall'Altra parte.

Poi ho scoperto di essere queer e la "certezza" dell'Inferno dopo la mia morte mia ha distrutto, portandomi a quello che ora posso definire il mio primo episodio depressivo. All'improvviso l'unico Essere in cui confidavo, il cui amore per me era l'unico certo e degno di essere definito tale, l'unico motivo per cui riuscivo a sopravvivere si stava sottraendo a me non per mia scelta o per le mie colpe, ma per la mia stessa natura. Una natura disgustosa a tal punto da rendermi indegna dell'amore dell'Amore per eccellenza.

Per anni mi è stato ripetuto che quello che ho subito - tutte le botte, tutti i calci, tutte le volte in cui ho sentito l'aria abbandonarmi, tutte le grida e le lacrime ingoiate in silenzio per non riceverne altre - tutto questo non era davvero troppo perché Dio non ci dà mai pesi più grandi di quelli che possiamo sopportare. Che ogni sofferenza, ogni silenzio, ogni dolore quotidiano mi avrebbe resa più forte e più degna di accedere alla salvezza. Che ognuno combatte con ciò che si merita e che Dio voleva questo per me, perché diventassi abbastanza forte e pia e pulita da poter essere felice, davvero felice, dall'Altra parte.

Ora mi chiedo come facessi a credere a tutte queste promesse fantasma, quanto fossi disperata per aggrapparmi alla volontà divina per giustificare e sopportare la malvagità di quella umana, per resistere in silenzio a tutto il dolore che mi veniva inflitto. Ma allora ero solo una bambina il cui unico obiettivo era essere felice almeno dall'Altra parte, pronta ad obbedire ciecamente e a strapparsi via ogni piccolo pezzo di sé pur di accedere ad una qualche forma di felicità. E fu traumatico per me scoprire che non importava quanto mi impegnassi, quanto sopportassi, quanto pregassi di essere diversa, di essere migliore, di essere perfetta perché neanche una vita di suppliche e sacrifici avrebbe eliminato il mio essere queer, il che mi escludeva definitivamente dall'essere salva.

Fu allora che iniziai a chiedermi davvero quale fosse il senso della mia esistenza, del mio continuo sopportare e obbedire, come un cane da circo, per avere una ricompensa che ormai mi era preclusa definitivamente. Quale fosse il senso di sforzarsi ad essere buona e santa se, in cambio, avrei ricevuto ugualmente un supplizio eterno.

Dopo anni di riflessione e di ricerca tra testi sacri e riletture moderne, la cosa più semplice per me fu convincermi che Dio non esisteva e che il mondo fosse un posto così crudele, così atroce perfino con una bambina, proprio perché Dio non esisteva e - se proprio fosse esistito - sicuramente ci avrebbe odiato tutti; di qui la dannazione eterna per ogni minimo errore.

E oggi anche questo mi sembra profondamente assurdo, sbagliato e riduttivo, il risultato di un animo arrabbiato con il mondo e l'inesistente per i torti subiti, senza alcuna speranza per il futuro e senza fiducia alcuna nell'umanità. Una riflessione capricciosa e infantile che elimina Dio solo perché l'unico che riesce ad immaginarsi è quello stesso Dio che la considera sbagliata e peccatrice. Ancora adesso, nonostante non sia più arrabbiata, l'unico Dio a cui riesco a pensare è un Dio ebraico, un Dio dell'Antico Testamento, un Dio buono con i buoni e cattivo con i cattivi, con una distinzione tra bene e male così arbitraria e piegata alla Sua volontà arcaica e inflessibile, così inadatta ad abbracciare la natura dinamica e polimorfa dell'essere umano.

Per questo non riesco ad essere cristiana o ebrea o musulmana o politeista, a credere a qualsiasi religione che abbia delle divinità: per me l'idea di un Dio buono, giusto e amorevole verso di me è qualcosa di assolutamente inconcepibile. Ma, allo stesso tempo, escludere che qualcosa esista solo perché non riesco a pensarla è un errore visto fin troppo spesso nella storia della scienza; di qui il mio agnosticismo.

Tuttavia, negli ultimi mesi la rabbia ha ceduto il posto ad una tiepida gratitudine per la vita che mi sto costruendo da sola, per la sorte che mi sta finalmente sorridendo. Perché, se ora sto bene, sono libera e felice e non ho più violenza nella mia vita, è perché sono stata anche fortunata: sono nata con la forza necessaria a stringere i denti e andare avanti ad ogni costo ogni singola volta; sono nata con l'intelligenza e la disciplina necessaria a superare qualsiasi ostacolo e a vincere quelle borse di studio che ora mi permettono di essere indipendente e lontana da casa; ho incontrato lungo la strada delle persone che, nel bene e nel male, mi hanno forgiata e aiutata a resistere e a rialzarmi ad ogni caduta. Perché di bambini come me, purtroppo, ce ne sono a migliaia in questo mondo, ma non tutti sono in grado di scappare dalla violenza ed essere felici.

La gratitudine. La fortuna. L'idea che la mia vita sia allo stesso tempo tragica e piena di speranza, come un continuo alternarsi di bene e male che la rende degna di essere vissuta nonostante tutto. Tutte queste considerazioni mi hanno spinto a credere nell'esistenza di un karma, di qualcosa che rimandasse al mittente tutto il bene e il male che questo ha causato, riportando così in equilibrio l'universo. Ma è stato sempre un concetto così lontano da me e dalla mia razionalità - il karma - da non riuscire a renderlo mio del tutto. E, anche se ora lascio che anche le mie sensazioni abbiano un loro peso nel decidere a cosa credere e a cosa no, perché questa è la vera fede, tuttavia non conosco abbastanza le leggi karmiche per poter aver fede nel loro funzionamento effettivo.

E poi ho incontrato il concetto di Nemesis nella mia vita. Nemesi è, per i Greci, la dea della vendetta, ma questo termine ha una connotazione molto più ampia e profonda, che va dalla più banale vendetta ad un senso di misura ed equilibrio, il che lo rende quasi intraducibile. Nemesi è la forza sovrannaturale che riporta l'ordine nel momento in cui gli uomini oltrepassano la misura. Nemesi è la miseria e la sofferenza a cui sono condannati gli Achei dopo aver distrutto Troia. Nemesi è il tormento che Oreste riceve dalle Erinni dopo aver ucciso sua madre, perché, non importa se ha vendicato suo padre, la violenza è pur sempre violenza: sporca le mani anche dei giusti e attira su di sé altra violenza, in un circolo che gli esseri umani non possono che alimentare.

Nemesi è la facilità con cui ho trovato dei terapeuti che mi aiutassero a guarire le ferite arrecate da mia madre. Nemesi è la difficoltà che lei ora sta provando a vivere in questo mondo. Nemesi è aver ritrovato un padre e un fratello, mentre mia madre ha perso una figlia. Nemesi è riuscire finalmente a parlare di quello che ho passato e smettere di nascondermi, mentre mia madre teme di parlare troppo e svelarsi per il mostro che è dietro alla sua maschera di perbenismo. Nemesi è l'amore di cui mi sto circondando. Nemesi è la pietà che nutro per chi mi ha fatto del male, perché bisogna essere davvero a pezzi per prendersela con una creatura indifesa. Nemesi è la pazienza che ho con mia madre, che continua a riversare il su di me il suo odio per se stessa.

Perché io non sono come lei: come l'Antigone di Sofocle, io non sono nata per condividere l'odio, ma l'amore, nonostante mia madre mi abbia sempre spinto a credere il contrario.

Magari Nemesi sarà avere una famiglia stabile e amorevole. Magari Nemesi sarà saper essere una buona madre, un giorno, e una brava persona. Magari Nemesi sarà riuscire ad avere tutto quello che mia madre ha sempre temuto di sognare per se stessa e ha provato a negare a me, ma senza provare per lei altro che sincero amore e comprensione per una persona così profondamente malata e infelice.

Perché Nemesi è anche la speranza e la fede in una giustizia che conforti i supplici e attanagli i superbi. Una giustizia degna di questo nome e non ferrea, categorica e ipocrita come quel Dio in cui mi hanno insegnato a credere con tutto il mio cuore, con tutta la mia mente, con tutta la mia anima.

Nemesi ora è tutto ciò in cui credo e questo mi basta per andare avanti in pace, senza né odio né rabbia né rancore a far marcire il mio cuore e a oscurare la mia fulgida felicità. 

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