Nelle tue mani
Il biondino colpì la schiena contro la parete, dopo aver sobbalzato ad una voce inaspettata.
Era buio, troppo buio per capire da chi provenisse.
Era di una tonalità nuova per lui, quasi agghiacciante.
«Draco», capelli neri ed occhi fissati sul ragazzino rammentavano la stanchezza dell'uomo di mezza età che si limitava a parlare dentro un quadro.
«N-no, mi dispiace, io... non sono Draco. Sono Scorpius. Solo Scorpius», abbassò il tono, schiarendosi la voce.
«So esattamente chi sei», sorrise con una punta di tenerezza.
«Mi scusi, io... non dovrei essere qui».
«No, non dovresti essere qui», riprese il necessario con tanto di neutralità, che fu sufficiente per farlo uscire dalla stanza dove il suo ritratto spiccava con fierezza.
* * *
Dicembre aveva portato via le lezioni e, con lui, l'aria autunnale.
Le vacanze natalizie erano alle porte, ancora una volta.
Rose e Hugo si avviavano dalla madre, felici di passare una giornata con lei.
Ronald lo avrebbero visto il giorno seguente.
«Mamma, ti devo parlare», le disse la primogenita, seria.
Scorpius si stava incamminando a passo svelto verso l'unica figura genitoriale rimasta.
«Papà, ti devo parlare», gli disse il primo e unico figlio, serio.
* * *
DRACO'S POV (pensiero di Draco)
Il mio corpo è imprigionato sotto strati di lenzuola pulite e fresche di un inverno che non lascia scampo al gelo.
Fuori dalla finestra appare, alla vista di chi guarda, un panorama ricoperto dal bianco innevato delle alte ed impetuose montagne.
La neve si propaga, travolge quel che incontra in cammino.
L'unica compagnia che ho è il vento che soffia sommessamente e si espande nell'aria fredda di questo gennaio infinito.
Le palpebre abbassate restano tali, le sopracciglia si alzano spesso in maniera infastidita, le mani cercano disperatamente calore così come mi promettesti tu con il tuo solito modo sprovveduto di rinfacciarmi questioni di cui mi imbarazzo.
I capelli si muovono come onde agitate nel mare in stagioni differenti dall'estate, profumati di vaniglia e ribelli sino alle punte.
Un flebile sospiro fuoriesce dalle mie labbra rosee ma assetate.
Fa freddo.
Sobbalzo.
In un grido, do sfogo alle voce che non credevo possedere.
Un tono ovattato dal sonno tormentato, affievolito dal fruscìo delle radici degli alberi spogli.
La luna splende, nasconde egoista le stelle attorno a sé.
Io regolarizzo il mio respiro, concentrandomi su di esso; lascio che l'aria trapassi le mie narici e poi la rilascio.
La rilascio, come gli alberi fanno con l'anidride carbonica.
La rilascio, come quando le persone sfruttano il cuore altrui e pensano di avere il diritto di illuderlo.
La gola è secca, mentre l'alcol percorre il tragitto all'interno di me.
La mia lingua è bagnata dall'ultima bibita imbevuta sottoforma d'acqua per sentirmi meno in colpa e nel frattempo reprimo un pensiero.
Mi affaccio al davanzale per vedere là dove tutto è affascinante.
Questa sera il cielo non fa trasparire nuvole che limitano il mio vedere, non esistono barriere che possano infrangere quel che la mia falsa spensieratezza mi ripete.
Passo le dita sui miei occhi tracciati da occhaia scure e marcate, lentamente, poi con rabbia.
Come stai?
Quello che ti chiedo è niente di meno che questo.
Come stai?
Mi torturo le unghie lunghe, per poi imprecare quando si impigliano nelle calze che dovrebbero fungere da riscaldatore umano e che puntualmente falliscono.
Come dare loro torto, anche io ho fallito.
E sai, è buffo.
È buffo perché, se inganno i miei sensi, io sento ancora la tua voce da bambina.
La stessa, che non ha mai pronunciato il mio nome, ma solo il mio cognome.
Le ore scorrevano tra una testa appoggiata al banco e l'altra verso l'insegnante.
Gli stessi docenti che ci spiegavano la vita, ma non come viverla.
E tu, tanto appassionata nell'arte di imparare, prendevi appunti per costruirti un futuro.
Potevo esserne parte.
Salazar, ne ero diventato parte.
Odio la parola "quasi", è la più dolorosa tra quelle nel dizionario.
L'amavo tanto quasi da mettere via la mia codaria. Ero quasi perfetto per lei.
Ce l'avevo quasi fatta.
Richiudo gli occhi, perché è la via più semplice.
Sogno, quello che respingo da troppo.
Sogno l'immensa cazzata che ho fatto.
È tutta colpa mia.
Della mia codardia.
Del mio "essere me".
Ho rovinato tutto.
Ancora.
«Proteggila, ti prego».
Lenticchia mi guardava, con un sopracciglio inarcato.
«Le hai fatto qualcosa, Malfoy?», si mise subito sulla difensiva, ed era comprensibile.
Si tratteneva dal tirarmi un pugno in pieno volto, mentre io non avevo nemmeno le palle di guardarlo negli occhi.
«Non voglio spezzarle il cuore. È troppo fragile e non voglio danneggiarlo con la mia presenza. È assurdo detto da me, ma... sono convinto che sei tu che la puoi rendere felice».
Leggevo nella sua espressione facciale la voglia di vendetta, io che gli avevo sottratto la ragazza che aveva capito d'amare tardi ma che pensava appartenesse a lui.
Io l'ho capito tempo prima quel che sentivo per quella so-tutto-io.
Nel momento in cui ho avuto dei dubbi su quanto avesse potuto perdonarmi dopo le menzogne a lei rivelate, ho capito di non essere il suo angelo.
Sono più un diavolo che tenta di risucchiarle l'anima perché vuole renderla contenta, ma senza rendersene conto le oscura la purezza e la conduce dove non si fa più ritorno.
«D'accordo», mi strinse la mano.
Un accordo.
Come se in quell'attimo le mie mani automaticamente lasciassero andare la mia Granger tra le mani di Weasley.
Come un voto infrangibile.
Come se quel gesto potesse alleggerirmi di un qualcosa di più grande di me.
Ma non era servito.
Non è passata notte, giorno, in cui non avessi smesso di pensare a lei.
A quei suoi occhi nocciola che mi hanno stregato.
A quel viso bagnato da lacrime, mentre le puntavo la bacchetta contro.
Alla sua voce rotta che le mie orecchie udirono quando avevo già aperto la bocca.
È bastata una parola.
Oblivion.
Lei voleva un Supereroe.
Lei era il Superman di entrambi.
Io ero più un Joker a metà.
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