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⁸⁴. 𝘋𝘶𝘦 𝘨𝘪𝘰𝘳𝘯𝘪

L'allarme le perforò i timpani quasi immediatamente. Nonostante l'avesse previsto, avendo appiccato un incendio, Dianne non pensava che si sarebbe attivato così presto. Riuscì ad avere solo pochi secondi per strappare il badge dal collo dell'infermiere Ivan, rimasto al lato del poligrafo con una lama di terrore ancora conficcata negli occhi. In quel momento, lo ringraziò silenziosamente per essere uno stoccafisso così a corto di prontezza.

Lasciò la dottoressa Clark e il dottor Mondego urlanti e circondati dalle fiamme, e avrebbe mentito a se stessa se avesse pensato che gliene importasse qualcosa. Quei due medici erano solo un'estensione della sua prigione, e il loro destino non era più affar suo. Inoltre, doveva andare a occuparsi di Nicholas, ancora rinchiuso in isolamento.

Corse a perdifiato lungo il corridoio, scansando infermieri concitati e pazienti claudicanti. Non sentì affatto il peso dei tranquillanti che Mondego le aveva iniettato due ore prima; probabilmente l'effetto era scemato, oppure l'adrenalina aveva già preso il sopravvento su di lei, rafforzando ogni suo passo.

Trovò Nicholas a un palmo dalla porta, con una ruga a solcargli la fronte e un sacco bianco sulle spalle. Dianne pensò che assomigliasse al vecchio stereotipo dei ragazzini scappati di casa, e si fece sfuggire un sorriso. Tuttavia, lo psichiatra la scrutò comunque con un cipiglio preoccupato. Dopotutto, aveva cenere tra i capelli, bruciature sulle mani e un'espressione spiritata incastonata negli occhi.

– Andiamo –, si limitò a dirgli, trascinandolo con sé. L'uomo la seguì senza fare obiezioni, zoppicando tra i corpi che si stavano ammassando nelle corsie. Il caos si era fatto insostenibile, e scorsero persino il lieve guizzo rosso dei caschi di due Sorveglianti.

Sgusciarono furtivamente da una scala all'altra, sfruttando la conoscenza dell'edificio accumulata da Nicholas prima dell'isolamento. Una volta messo piede nel cortile, Dianne constatò soddisfatta come l'incendio si fosse propagato anche nel resto dell'ospedale, probabilmente nutrendosi della vecchia carta da parati che tappezzava i corridoi. Le lingue di fuoco erano visibili da buona parte delle alte finestre, che si aprivano tra le mura come feritoie troppo cresciute. In alto, sulla facciata, lesse "Casa di cura Larkhall". Nonostante stesse scoprendo quel nome per la prima volta, fu certa che non l'avrebbe mai dimenticato.

Oltre alla zolla di giardino della clinica, circondata da spesse mura di pietra, si estendevano solamente campi disidratati e boschetti a perdita d'occhio. Corsero verso il cancello di ferro battuto, e Dianne sentì un'ondata di sollievo investirla quando il badge di Ivan riuscì a sbloccarne la serratura. Si riversarono velocemente all'esterno, liberi e senza alcuna meta.

Smisero di correre solo mezz'ora più tardi, quando si furono inoltrati nel fitto della vegetazione. Dianne si era accorta di essere a piedi nudi solo quando se li era ritrovati inzaccherati di fango fino alle caviglie. Il vestito le si era attaccato addosso come una seconda pelle, e si era girata non poche volte per controllare che Nicholas la stesse seguendo. Lo psichiatra aveva il fiato corto e continuava a zoppicare, ma nonostante tutto non emise un solo lamento.

Il cielo si era colorato di un amaranto feroce, che dopo tutto quel tempo al chiuso le ferì gli occhi. La giornata volgeva al termine, e presto non avrebbero avuto altro aiuto che la debole luce della Luna. Non era la prima volta che Dianne improvvisava una fuga, ma perlomeno a quindici anni aveva avuto con sé una torcia e del cibo, e non solo la sacca di vestiti che Nicholas era riuscito a raccattare.

– Dovremmo scegliere una direzione – esordì l'uomo, affiancandola.

Dianne strizzò gli occhi, rendendosi infine conto di cosa gli avesse interrotto il cammino. Di fronte a loro si snodava un piccolo fiume, che tagliava la foresta in due come una lama appuntita. Le sue acque si contorcevano attorno a dei sassi scuriti dal muschio, e sembravano facilmente guadabili.

Nicholas si schiarì la voce, in attesa. Lei si guardò a destra e a sinistra, scorgendo lo stesso identico panorama da entrambi i lati: erba, alberi, cespugli inselvatichiti. Oltre il fiume, invece, il sentiero proseguiva a fatica, con la foresta che si infittiva verso il centro. Infine si osservò alle spalle, dove l'erba calpestata e le impronte non facevano altro che evidenziare il loro passaggio a chiunque avesse un paio d'occhi.

Senza chiedere nulla, Dianne tirò il braccio all'indietro e lanciò il cartellino di Ivan nel punto più corposo del fiumiciattolo. Nessuno dei due fiatò per qualche secondo, e il silenzio gli permise di udire gli ultimi singhiozzi della sirena svanire in lontananza.

– Ottima mossa – disse Nicholas, lasciando che le rughe del suo sorriso raggiungessero gli occhi. – Se è geolocalizzato, penseranno che abbiamo deciso di seguire il corso del fiume fino a valle. Per un po' riuscirà a depistarli.

Dianne gli rispose con un ghigno soddisfatto. – Già. Adesso non ci resta che tornare indietro.

Nicholas si voltò verso di lei. – Credevo che lo avremmo guadato – disse, smarrito. Puntò un indice nodoso verso la foresta di fronte, rischiarata dagli ultimi bagliori del giorno. – Più in là potrebbe esserci una strada. Perché vuoi tornare indietro?

Dianne sbuffò, passandosi le mani tra i capelli indisciplinati. – Guarda – disse, indicando in basso.

Il terriccio che li precedeva era solcato da decine di impronte, alcune di un paio di piedi nudi, altre a righe come le ciabatte di Nicholas.

– Deve aver piovuto di recente. Presto troveranno queste impronte e sapranno immediatamente dove siamo diretti. Per ora dobbiamo rimanere qui, Nick. È l'ultima cosa che si aspettano.

Così dicendo, portò un piede dietro di sé, posandolo con delicatezza all'interno dell'orma che aveva lasciato poco prima. Le sue dita si adagiarono perfettamente nel terreno, venendo abbracciate da esso.

– Prova tu.

Nicholas si cimentò a fare lo stesso, adottando quella strana andatura da gambero che ormai lei aveva preso a imprimere più speditamente.

– Qui – concluse Dianne, piantandogli uno sguardo deciso negli occhi.

Nicholas la guardò perplesso, spostando il viso in ogni direzione. – Ma qui non c'è alcun nascondiglio.

– Dipende – gli rispose, con un sorrisetto. – Sai arrampicarti sugli alberi?

*

Nessuno dei due aveva ancora chiuso occhio, tenuti in allerta da qualsiasi rumore, fruscio o bubolare di gufo. Dianne si era inerpicata su un ramo dalle fronde spesse, e se ne stava rannicchiata al centro di una biforcazione, a sei metri da terra. Salire sin lì era stato tutt'altro che semplice, sia per lei che per Nicholas, che aveva borbottato a ogni centimetro della propria scalata e che ora stazionava vigile su un albero di fronte al suo. La Luna piena le permetteva di scorgere le schegge di vetro dei suoi occhi, che rilucevano silenziose nell'oscurità.

Fu tra le pieghe della foresta che Dianne notò un guizzo rosso, simile a quello che aveva sbirciato tra le corsie durante la fuga. In basso, sull'erba annerita dalla notte, si faceva strada una figura solitaria, accompagnata dallo scricchiolio degli stivali militari e dalle pozze di luce che dipingeva sul terreno con una torcia.

Sentì l'adrenalina irrorarla nuovamente, percorrendole il corpo come una scarica elettrica. Si mosse un po' sul ramo, mentre il Sorvegliante continuava a illuminare le loro impronte una dopo l'altra, come seguendo una scia di molliche di pane. Lo vide camminare sino in fondo al sentiero, fermandosi di fronte alla linea d'inchiostro del fiumiciattolo. L'uomo si portò una mano accanto all'orecchio, e una luce verde si illuminò sul suo casco.

– Niente – annunciò, parlando con qualcuno. La sua voce profonda fendette la foresta, stridendo come gesso su una lavagna. Dianne puntò gli occhi su Nicholas, che sembrò tirare un sospiro di sollievo. Le gesticolò qualcosa a mezz'aria, concitato. Ora andrà via. Lei annuì, in attesa.

Tuttavia, il Sorvegliante continuò a camminare in tondo proprio sotto di loro. Potevano sentire il suo respiro pesante spaccare la notte, mischiandosi al sussurro delle foglie. Dianne non lo perse di vista un istante, vedendolo infine accovacciarsi vicino al suo albero. La pistola gli pendeva pigra sul fianco destro, accompagnata da un'arma di forma cilindrica che gli pendeva invece sul sinistro. Da dove era posizionata, poteva vedere il suo casco rosso scintillare come una goccia di sangue.

Il Sorvegliante sfiorò una zolla di terra smossa, puntando la torcia a un palmo da sé. Fu in quel momento che Dianne comprese cosa avesse trovato: l'orma del piede che aveva messo in fallo, l'unica traccia che si era dovuta allungare a cancellare con le dita, prima di scalare il tronco. L'unica impronta che avrebbe potuto svelare, a uno sguardo attento, che Nicholas Brenner e Dianne Smith erano ancora lì, mimetizzati come buchi neri nel cielo notturno.

Senza dargli il tempo di sollevare lo sguardo, Dianne piombò sul ramo inferiore al proprio, e poi sulla schiena del Sorvegliante. Schiacciandolo da quell'altezza avrebbe potuto rompergli la spina dorsale, ma poco gliene importava. Sentì la propria carne fare frizione sulla divisa, e l'uomo iniziare a dibattersi per liberarsi dalla sua presa tenace, ancora spaesato dall'impatto. Caddero entrambi per terra, e la punta aguzza di un sasso si conficcò nel suo polpaccio, lacerandole la pelle. Il casco rotolò via, e Dianne graffiò il viso dell'uomo con le unghie, sentendolo restituirle un gemito di dolore. Allentò la fondina, estraendo la pistola con uno strattone. Tuttavia, il Sorvegliante gliela strappò di mano con veemenza, finendo per farla ruzzolare a qualche metro da loro.

Dianne vide Nicholas calarsi sgraziatamente dal proprio albero, atterrando a due passi dalla pistola. Quell'attimo di distrazione permise al Sorvegliante di stringerle il collo in una morsa, piazzandosi dietro di lei. Nonostante il fisico secco, era riuscito comunque a sovrastarla, rinfocolando ancora di più la sua rabbia. Le bloccò meglio le braccia, e Dianne percepì il freddo metallo dell'arma cilindrica premerle sull'osso del bacino.

– Non muoverti – le sibilò. La mancanza del casco fece rimbombare ancora di più la sua voce, ormai impossibilitata a raggiungere le orecchie dei suoi colleghi.

Tu non muoverti – disse Nicholas, puntando la pistola di fronte a sé. La luce lunare gli schiariva ancora di più i capelli bianchi, facendoli assomigliare a un'aureola. Sul viso aveva calcata un'espressione di marmo che Dianne non gli aveva mai visto.

– Lasciala andare – continuò, severo. – Non so come funzioni quell'arma, ma so come funziona questa.

Dianne sentì il corpo del Sorvegliante vacillare contro il proprio, e ne approfittò per provare a strattonarsi via, senza successo.

– Non vogliamo farti del male – disse Nicholas, cauto. – Posa l'arma a terra e va' via.

Lei lo fulminò con lo sguardo. Stupido, pensò. Non crederai davvero che lo lasceremo andare.

Il Sorvegliante allentò guardingo la propria morsa, forse per via della pistola, forse per la punta di sincerità nella voce dello psichiatra. Dianne riuscì a scartare velocemente di lato, andando a piazzarsi accanto a Nicholas, col fiato corto e gli occhi infuocati.

L'uomo lasciò cadere l'arma sul terreno, sollevando le mani in segno di resa. Lei raccolse la torcia, illuminandogli il viso privo di casco. Portava il tipico taglio rasato dei Sorveglianti, e aveva una barba castana a scurirgli il mento. Non sembrava avere più di quarant'anni.

– Nicholas – disse allo psichiatra, inflessibile. – Non farai sul serio.

– Certo che sì – rispose lui, lanciandole un'occhiata significativa. Lei sentì la rabbia attenuarsi lievemente, in favore di un involontario senso di fiducia.

– Ti prego, non uccidermi. Ho una famiglia – disse il Sorvegliante, con gli occhi imperlati di lacrime. A una seconda occhiata, sembrava meno feroce del dovuto, come se una profonda stanchezza gli appesantisse le ossa. – Non dirò a nessuno di avervi incrociati. Avete la mia parola.

– La tua parola non basta – sputò lei, acida. La pelle del collo le tirava ancora dove lui l'aveva stretta. Nicholas li ignorò entrambi.

– Come ti chiami? – chiese all'uomo, addolcendo la voce. Dianne lo guardò allibita. Dannato strizzacervelli.

– Riley – rispose lui, ancora a mani sollevate. Una goccia solitaria si appese alle sue ciglia. – Martinez.

– Bene, Riley – disse Nicholas, gioviale. – Facciamo un patto. Informazioni in cambio di libertà. Noi ti faremo qualche domanda, e poi ti lasceremo tornare dalla tua famiglia. Che ne pensi?

Riley Martinez oscillò sul posto, a disagio. – Come faccio a sapere che non menti?

– Non puoi saperlo – rispose lo psichiatra, allargando le braccia. Smise di puntare la pistola di fronte a sé, rannicchiandosi a gambe incrociate sul terreno, rilassato. La pistola finì incastrata sotto alla sua coscia, fuori portata per tutti loro.

– Sediamoci insieme, su – disse, estendendo la richiesta anche a Dianne. Lei alzò gli occhi al cielo, ma si accomodò senza protestare.

Qualcosa si mosse nello sguardo del Sorvegliante, nonostante non stesse accennando a sedersi. Prima che Nicholas tentasse ancora di persuaderlo, Dianne sbuffò, incuneandosi nelle trattative.

– Se avesse voluto ammazzarti l'avrebbe già fatto, non credi? – disse, scocciata. – O è la prima volta che vedi qualcuno rinunciare a uccidere, Sorvegliante?

Il guizzo che aveva notato prima si allargò ancora nelle iridi castane dell'uomo. Un guizzo che esprimeva sconforto e rassegnazione, annodandole insieme in una matassa.

– Non la prima – disse, semplicemente.

Non si aspettava affatto quella risposta. La colse in silenzio, contraendosi sul terriccio umido. Le parve di sentire la tensione fluire lontano da loro, come fossero stati un semplice gruppo di viaggiatori raccolti attorno a un focolare.

– Non siamo assassini – riprese Nicholas, calmo, – ma semplici cittadini, che la Chiesa ha strappato alle proprie vite senza preavviso.

Dianne storse il naso, stizzita. La Chiesa, e voi Sorveglianti, pensò.

– So bene che il Presidente negli ultimi tempi ha ordinato molte purghe di Disallineati irrecuperabili e sparizioni di dissidenti politici. Anzi, posso affermare tranquillamente di rientrare nella seconda categoria. – Girò un pollice per indicarla, accompagnando quel gesto con un sospiro. – Il problema, però, è che alla mia amica non è stato notificato alcun reato prima della reclusione. E se c'è una cosa che non sopporto, ragazzo, quella è l'ingiustizia.

Il tono di Nicholas si fece duro, risuonando come un boato temporalesco. Dianne vide gli occhi di Riley intristirsi, anche se solo per un istante.

– Ora noi ti faremo un nome, Riley. Se si tratta di una persona che conosci, ci piacerebbe che condividessi con noi quello che sai.

Lo psichiatra smise di parlare, volgendole uno sguardo interrogativo. Dianne inarcò le sopracciglia, salvo poi ricordare che, nella fuga, aveva detto a Nicholas il nome dell'uomo contattato dalla dottoressa Clark, che la donna si era lasciata sfuggire davanti a lei pochi minuti prima del disastro.

– Jonas Kersson – si affrettò a pronunciare, sentendosi osservata.

Riley stette in silenzio un istante, rimuginando. Probabilmente era consapevole che, una volta rivelate quelle informazioni, non sarebbe più potuto tornare indietro.

– Lo conosco – proruppe, infine. Lei e Nicholas erano tutt'orecchi. – Anche se non di persona. La sua firma è sul mio ordine di trasferimento a Larkhall. – Si fermò un istante, valutando se aggiungere qualcos'altro. – La sua... E quella di Davis.

Dianne non disse nulla, spaesata. Tuttavia, il viso di Nicholas si aprì in un'espressione sorpresa.

– Davis? Mauryce Davis? – chiese. – Il Ministro dell'Interno?

Riley abbassò lo sguardo sui propri stivali, ormai scuriti dal fango. – Già – confermò. – A causa della situazione delicata in città, c'era bisogno di un'autorizzazione speciale per trasferire arbitrariamente un plotone di Sorveglianti. Così, Davis ha controfirmato il nostro cambio di sede, voluto dal dottor Kersson. Per rendere più sicura la clinica, scriveva, ma soprattutto per sorvegliare lei. Dianne Smith.

Il Sorvegliante mosse un dito per indicarla, tremolando. Il suo nome nella bocca dell'uomo non le sembrò altro che un suono alieno.

– Non capisco – disse Nicholas. – Perché il Ministro dell'Interno dovrebbe autorizzare il controllo di una Disallineata qualsiasi? – chiese. Sembrò rincorrere un pensiero, perplesso. – Anzi... Perché mai questo Kersson avrebbe messo in moto un'operazione del genere?

– Questo non lo so – confessò Riley, sospirando. – So solo che non credo si sarebbe mai aspettato che la "Disallineata qualsiasi" appiccasse un incendio per fuggire.

Dianne lo squadrò, pronta a gelarlo. Tuttavia, fu alquanto stupita di trovare dipinta sul suo volto una flebile impressione di stima. Senza lasciarsi rabbonire, gli fece una domanda, incrociando le braccia.

– Ho un altro nome per te, Sorvegliante – disse. – Florian Herward. Ti dice qualcosa?

Il nome di Ian le fece quasi male tra le labbra, e Riley corrugò la fronte. – Credo di averlo già sentito. Anche se non ricordo dove.

– Fai uno sforzo – lo incalzò. Avrebbe voluto scuoterlo, rigirarlo sino a fargli vomitare ogni informazione.

– Mi dispiace, non so altro – rispose lui, turbato dal suo sguardo minaccioso.

– Va bene. Ti crediamo, Riley – riprese Nicholas, stirando le mani verso l'esterno. – Ci hai già aiutati molto. Vorrei farti altre domande, ma credo che per noi sia arrivato il momento di rimetterci in cammino. Anzi, saresti così gentile da mostrarci la strada verso la capitale?

Riley lo osservò incuriosito, e Dianne ebbe quasi l'istinto di aggredirlo quando lo vide passare un indice sul proprio polso, rivelando una mappa olografica che si aprì a mezz'aria di fronte a loro.

– Dovrete seguire il fiume verso nord, fino alla fonte – disse, pinzando la schermata con due dita. La linea frastagliata del torrente terminava a ridosso di una parete rocciosa, alla cui sinistra stava un ampio stradone.

– La città è a due giorni da lì. Ma non dovrete fermarvi. Non sono l'unico a essere stato mandato a cercarvi.

Nicholas stirò le labbra, sollevandosi in piedi a fatica. La pistola era tornata ben salda tra le sue mani, puntata verso il terreno. – Be', allora suppongo che dovrò chiedere alle mie vecchie ossa un ultimo sforzo.

Riley sembrò agitarsi leggermente alla vista dell'arma, ma non si arrischiò ad alzarsi.

– Abbiamo finito, a quanto pare. Dianne – la chiamò, ammantando il proprio tono di cortesia. – Dovrebbero esserci dei vecchi pantaloni di cotone, nel mio sacco. Per favore, usali per legare il nostro ospite.

Nicholas fece un sorriso colpevole al Sorvegliante, scrollando le spalle. – Sai, per precauzione.

Dianne approvò silenziosamente quella decisione, soddisfatta. Allora hai ancora un po' di sale in zucca. Anche Riley non disse nulla, nemmeno quando lei si avvicinò per legargli assieme le mani e i piedi, cercando di stringere dei nodi decenti. Poco dopo, Nicholas si inginocchiò accanto a lui, barcollando.

– Hai un modo per far sapere ai tuoi colleghi dove ti trovi? – chiese, gentile. – Sei geolocalizzato?

– No – rispose l'uomo, sincero. Dianne non aveva idea di quando avesse imparato a decifrarlo. – Ho solo il segnalatore d'emergenza. Si trova all'interno del casco.

Dianne non se lo fece dire due volte, e si allungò a raccogliere il casco rosso dal terreno, tenendolo in mano come una granata in procinto di esplodere. Tastò la fodera interna con le dita, trovando infine un pulsante in rilievo nella zona dell'orecchio.

– Se lo premerai, indicherà ai miei colleghi dove mi trovo. Ci hanno sparpagliati per la foresta, dovreste comunque riuscire ad avere un buon vantaggio su di loro.

– Lo spero bene – disse Nicholas, allegro. Sollevò la pistola di fronte a sé, come si fosse trattato di un semplice giocattolo. – Perché non sono un gran tiratore. A proposito, credo che questa la terremo con noi.

Riley si rabbuiò, rassegnato. – Lo immaginavo. Ma sappiate che quelle vengono date in dotazione solo ai Capitani dei Sorveglianti. Sapranno subito che l'avete rubata.

– Vorrà dire che correremo il rischio –, concluse lo psichiatra.

Nonostante i loro averi si riducessero al misero sacco messo insieme da Nicholas, Dianne percepì quegli attimi di preparazione alla ripartenza come sin troppo prolissi. Con tutta probabilità, tuttavia, la sua fu solo una sensazione dovuta al fatto che avessero già premuto il geolocalizzatore, posando poi il casco del Sorvegliante contro il tronco dell'albero dal quale lei gli era piombata addosso.

Nicholas si schiarì la voce, caricandosi il sacco in spalla. Lei puntò la torcia di fronte a sé, illuminando una zolla di terra di un giallo tenue. Un altro gentile regalo da parte del Sorvegliante Martinez.

– Allora noi andiamo, Riley. Sei un brav'uomo, e spero che riuscirai a tornare dalla tua famiglia. Addio.

Riley esitò un istante. – Addio –, rispose infine.

Avevano mosso qualche passo verso nord, iniziando a costeggiare le basse acque del fiumiciattolo, quando la voce del Sorvegliante risuonò un'ultima volta.

– Aspettate! – chiamò, immobilizzandoli.

Dianne si voltò verso di lui, scrutandone il volto sotto i pallidi raggi della Luna. – Cosa c'è? – gli chiese, guardinga.

– Anch'io ho un nome per te, Disallineata – disse, malinconico. – Willas Dresner.

Lei lo fissò. – E chi sarebbe?

– Un mio ex commilitone che ha disertato. Credo l'abbia fatto per via della... Cura a base di Easy che i piani alti gli avevano imposto. Se mai lo incontrerete tra gli altri fuggitivi, ditegli che abbiamo deciso di raccogliere del denaro per continuare a finanziare le cure di suo padre, e che non deve preoccuparsi.

Lei non seppe cosa ribattere, e si limitò a registrare quelle informazioni in silenzio. Gli fece un breve cenno col capo, affrettandosi a voltarsi dall'altro lato. Nicholas sollevò per l'ultima volta una mano in segno di saluto, zoppicando lentamente in avanti. Con quel nome e quel cognome a rimbombarle in testa, Dianne riprese il proprio cammino.

Due giorni per arrivare in città, si disse, come in un mantra. Due giorni.

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