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Capitolo 1: Iniziano gli anni '90


Tre mesi dopo la mia nascita fu deciso di non lasciar trascorrere altro tempo e battezzarmi, così, nel caso fossi morta di morte bianca, o di qualsiasi altro tipo di morte, la mia anima avrebbe trovato posto oltre i cancelli dorati.

Mia madre tutt'oggi racconta che appena varcate le porte della chiesa smisi di lamentarmi e agitarmi e mi addormentai. Ho dormito serena fino a quando la cerimonia non ebbe termine. Secondo i miei genitori  era tutto merito di quel luogo sacro che aveva sopito i demoni dentro di me. Secondo me invece la spiegazione è decisamente più semplice e meno mistica: tra le braccia di mia madre potevo ascoltare il battito del suo cuore e dormire in pace.

Fatto sta che i miei presero seriamente sul serio l'idea di farmi esorcizzare, ma, come per tutte le idee malsane che hanno avuto nel corso degli anni, alla fine erano troppo pigri per metterle in atto e dopo un po' se ne dimenticavano.

Per la grande occasione fu organizzata una festa a casa, con invitati amici e parenti vari. Mio padre, megalomane nell'animo, fece preparare una torta di un metro abbondante di diametro. Dovettero mangiarla per circa due settimane, visto che all'epoca ancora non potevo contribuire allo smaltimento dei dolci di casa.

Visto che tutto sommato quella era la mia festa e quella era la mia torta con Minnie sopra, mamma decise di farmela assaggiare ... fu allora che mi innamorai del ciucciotto intinto nella panna.

E così, tra una corsa scatenata nel girello al ritmo di "Ancora ti chiamerò Trottolino Amoroso e Dudu Dadada" e attaccamento morboso al ciucciotto che Maggie Simpson scansati proprio arrivai a un anno.

Grazie al training intensivo di mia madre parlottavo già abbastanza, ma ahimè, ebbi la conferma che non sarei mai stata una cima negli sport visto che a quell'età i miei coetanei sgambettavano allegramente ovunque e io inciampavo nei miei stessi piedi. Proprio non ne capivo l'utilizzo e come diavolo si facessero a coordinare. Purtroppo anche mia madre, con suo notevole disappunto, capii che sarei stata goffa e scoordinata a vita e che era necessario lavorare su questo punto per rendermi perfetta.

Per compensare lo smacco del mio primo podio perso, pensò di inviare la mia foto a una rivista e fui pubblicata tra i bambini nati a maggio nel 1989. Ancora conserviamo quella rivista, anche se non ce ne vantiamo più da un bel pezzo.

I miei nonni paterni si fanno vedere di rado e i miei nonni materni arrancano, la vecchiaia per loro sembra essere arrivata troppo in fretta.

Mia nonna aveva un gozzo benigno. La sua tiroide non è mai andata molto bene, poco dopo i trent'anni iniziò a funzionare male; ebbe mia madre per miracolo e subito dopo entrò in menopausa. Nella foto del mio primo compleanno sembra le sia rimasto un uovo di struzzo incastrato in gola.

Sarebbe stata operata dopo poco e tutto il peso delle responsabilità, la paura e l'ansia sarebbero piombati sulle sole spalle di mia madre, ad aggiungersi a quelle che già le causavo io con i miei problemi di insonnia e con le mie continue febbri.

Le mie tonsille si infiammavano di continuo e passavo febbricitante più giorni di quelli che passassi da sana. I medici le avevano consigliato di farmele rimuovere, ma lei si oppose, ricordando come un evento traumatico il momento in cui anche a lei furono rimosse.

Non ricordo molto di quel periodo se non sporadici flash: il gelato al mascarpone, la pesca che mi sbucciava la mamma, i biscotti della Plasmon, la zeppola sotto l'ombrellone al mare, il bagnetto nel lavatoio, l'orsetto coccolino che mamma prese con i punti del detersivo per me, mio padre che mi teneva in braccio per farmi dormire e alla fine si addormentava lui, il letto grande dei miei genitori ... tutto sommato era una bella vita, anche se non avevamo tanti soldi e papà arrancava ancora con il lavoro.

Quell'estate andammo a Cetara, in costiera amalfitana; mia nonno era originaria di la e possedeva la casa in cui era vissuta da bambina e da ragazza. Mia madre mi portava lì per farmi respirare l'aria di mare, sperando inutilmente che la febbre mi desse tregua. Papà doveva lavorare, ci raggiungeva solo nel fine settimana e io ero sempre molto contenta di riabbracciarlo.

Una di quelle sere mi teneva per mano, ancora non ero molto brava a camminare e spesso e volentieri le gambe cedevano, mi abbassai per raccogliere chissà quale schifezza mi fosse sembrata interessante in quel momento e papà, temendo fosse una cacca mi tirò su si colpo slogandomi il polso.

Se ne accorse mia madre qualche ora dopo, quando tornati a casa mi vide giocare solo con la mano sinistra, tenendomi la destra stretta al petto, senza dire una parola nè piangere. Non ricordo di quando me la rimisero a posto, ma ricordo le urla che volarono in casa.

Papà non lo aveva fatto a posta e sono certa si sentisse una merda, ma mia madre adora rincarare la dose.

Nonostante le feroci litigate, mio padre non riuscì a memorizzare la lezione perché dopo meno di un mese si ripeté la stessa scena e di nuovo mi slogò il polso, lo stesso. Fortuna volle che all'inizio degli anni '90 nessun medico si facesse troppe domande sul perché una bambina di un anno fosse finita due volte in ospedale con il polso slogato.

I rapporti tra i miei genitori intanto sembravano avere la stessa saldezza del mio povero polso, giorno dopo giorno sembravano incrinarsi sempre di più.

L'estate terminò senza altri problemi rilevanti e  intanto il mio indottrinamento continuava senza sosta e a due anni ormai camminavo bene, sebbene non si fosse trovato ancora rimedio alla mia goffaggine, e parlavo praticamente come un'adulta.

A quell'età iniziavo a prendere coscienza del mondo che mi circondava e iniziavo a farmi domande. Tipo: perché nonna aveva quel brutto segno sulla gola? Perché nonno non riusciva a salire le scale senza dover inalare del medicinale? Perché i miei nonni paterni e i miei zii non c'erano mai? Perché mio padre non c'era per tutto il giorno? Perché mamma non giocava sempre con me?

Mi diceva di non aver tempo, che la casa andava pulita, il pranzo preparato, che io dovevo mangiare cose diverse e papà mangiava alle 12:00 e quindi doveva cucinare e pulire la cucina tre volte, che i vestiti andavano lavati e i miei sterilizzati e quando aveva finito non si reggeva in piedi e non ce la faceva a giocare anche con me.

La verità è che questa era solo la percezione di una bambina di due anni che non aveva fratelli, non aveva cugini e non aveva praticamente parenti. Avevo solo la mamma e stavamo sempre a casa da sole noi due, mi annoiavo parecchio e tutta la mia attenzione di centrava su di lei non avendo altre distrazioni. Lei giocava ogni tanto con me, poco a dire il vero, ma lo faceva, mi scattava un sacco di foto e mi girava tanti filmini, ma più di tutto mi raccontava favole inventate da lei, la maggior parte per spaventarmi e convincermi a fare quello che non volevo fare, tipo non mangiare il pesce da sola o non affacciarmi al balcone senza di lei.

Tra tutte ricordo la storia di "Mao che ingoiò una spina", un gattino molto monello che non ubbidiva alla mamma quando lo ammoniva di non mangiare il pesce da solo. Alla fine lui lo mangiò di nascosto e tutte le spine del pesce gli si conficcarono nella gola, sotto il palato e sulla lingua. Dovettero operarlo e fargli molte siringhe.

Questa storia fu sufficiente a farmi diventare ago fobica e a smorzare la mia voglia precoce di indipendenza. Tutt'oggi, ormai trentaduenne sono inconsciamente terrorizzata dalla possibilità che se facessi di testa mia le spine mi si conficcherebbero in gola, per cui smorzo sul nascere qualsivoglia mio spirito di iniziativa.

Un'altra storia che mi ha particolarmente segnata mi veniva raccontata ogni volta che dovevo fare un prelievo. Nell'immaginario di mia madre non mi sarei spaventata se non avessi saputo che mi tiravano via sangue dal corpo, così iniziò a raccontarmi che avevo bevuto troppa coca-cola e che quindi l'infermiere doveva togliermene un po' per il mio bene. Inutile dire che da allora non bevo nessun tipo di bevanda gasata.

E poi la mia preferita, la storia delle storie, la storia che mi raccontava ogni volta che volessi uscire fuori. "I bambini che escono da soli muoiono. Le strade sono piene di bambini morti."

Mi sono chiesta spessa come mai non ne avessi mai visti quando uscivamo a fare la spesa, ma lei diceva che tutte le mattine passava un camioncino a raccoglierli e li andava a buttare in una fossa. Non sono mai uscita molto volentieri di casa, nè con lei, nè senza, e odio profondamente i balconi, mi fanno venire le vertigini.

Ora che ci penso, il mio secondo anno di vita ha gettato le basi di buona parte dei traumi che mi porto ancora dietro e che credo non risolverò mai, ma nonostante ciò lei restava il mio punto di riferimento, la mia mamma. Ricordo quando finito di pulire la cucina andava a stendersi sul letto per guardare Beautiful e io mi raggomitolavo vicino a lei e le chiedevo "Stanca stanca, mamma?"

Non capivo quella sua stanchezza e quella sua profonda tristezza, anche perché io mi sentivo felice, i nonni mi amavano, i miei genitori anche, cosa poteva mai esserci che non andava? Cosa poteva mai essere tutta quella stanchezza? 

Non capivo, però ci provavo lo stesso a starle vicino, ad arrampicarmi sulla sedia quando lavava i piatti, a fare il bagno con lei. Lei mi sgridava sempre: ti sei bagnata i vestiti, non si mettono le mani nel secchio, non si prendono i coltelli, non si tirano le lenzuola non si gioca con il sapone e così via.

Volevo solo aiutarla, volevo che fosse meno stanca e avesse più tempo per me, ma lei continuava a sgridarmi e a urlarmi contro, qualunque cosa facessi continuavo a sbagliare e non capivo perché ce l'avesse così tanto con me.

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