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Un Regalo Macchiato Di Mistero

«In un momento tutto sembra andare a mille, come una macchina che percorre strade e strade senza fermarsi mai. Tuttavia, immediatamente dopo, realizziamo che si tratta di un misero istante: un lasso di tempo breve e immensurabile.»

Nonostante l'inverno fosse pungente, il quartiere era allegramente in festa; infatti alcune famiglie del vicinato non avevano badato a spese. Gli occhi saettavano dai Babbo Natale gonfiabili alle svariate renne incollate alle slitte, dalle lucine calde e sgargianti al numero sproporzionato di pupazzi di neve. Sembrava tutto più vivo.
Osservai, poi, le decorazioni nello scatolone: un mantello di luci con qualche neon staccato, delle palline per metà rotte e per metà sbiadite e un alberello malconcio.
Decisamente malinconico e scialbo.
Per un attimo, lo sguardo fu catturato dalle striature della finestra: le vetrate erano appannate dallo strato di ghiaccio. Nonostante il cielo fosse in parte nuvoloso e in parte soleggiato, i piccoli fiocchi di neve cadevano indisturbati uno dietro l'altro. Mi sentii stranamente più leggera, come se il mio corpo avesse voluto avviare una trasformazione: gli arti sarebbero mutati in zampe robuste, i piedi in possenti zoccoli, i capelli in una folta e vaporosa criniera e dalla schiena dritta avrebbero preso vita delle splendide ali. Nel mio immaginario sarei diventata un unicorno vispo, dal manto bianco e lucente, libero di spiccare il volo ogni qualvolta l'avesse desiderato.
Ma la realtà era ben diversa: ero soltanto un semplice essere umano.
Un lieve sbuffo, ma chiaramente percettibile, riportò l'attenzione alla donna che mi affiancava. Il suo viso era increspato in una smorfia di desolazione, le rughe erano mostrate con chiarezza e le mani non la smettevano di torturarsi. Emily sembrava agitata, i muscoli parvero elettrificarle il corpo.

«Non posso crederci che si siano deteriorati a tal punto. Avrei voluto regalare ad Adam un compleanno perfetto...»

«Oggi è il suo compleanno?» Interruppi, incredula, il suo discorso.

Allora... eravamo nati a pochi giorni di distanza.
Questo è destino!

«Oh, no... Adam è nato il giorno di Natale, ma solitamente lo festeggiavamo durante la Vigilia. Quel bambino aveva così tanta fretta di uscire e di scoprire il mondo che alla povera Rose le si ruppero le acque con due settimane di anticipo; proprio quando tutti avevano la testa impegnata con i preparativi.» Un sorriso incurvò le labbra sottili e rosee e una fossetta prese vita sulla guancia sinistra.

Rigirò tra le mani le foglioline verdi, alcune si staccarono senza controllo. Potetti sentire il suo sgomento mescolarsi col mio, ma con ogni probabilità erano di natura diversa. 

«Potrei uscire per comperare qualcosa. C'è un negozio nei dintorni?» Mi offrii di rendermi utile.

In fondo lo facevo anche per me.

Giusto?

Gli occhi di Emily si riempirono di gioia. «Sei sicura, tesoro? Non sei costretta a farlo.» Mi fissò per qualche secondo, come se avesse avuto il tempo necessario per studiarmi.

Mi sentii fuori luogo, quelle parole mi fecero sentire sudicia.

Assentii. Non volevo deludere le sue aspettative e fare una passeggiata non mi avrebbe arrecato nessun danno. Avrei giurato, persino, di ascoltare dei ringraziamenti da parte dei miei muscoli.

«E va bene! C'è il Christmas Quarters a pochi isolati da qui: 1027 Decatur Street. È un negozio ben rifornito, per fortuna è aperto per l'intera giornata. Direi che è perfetto, vado a dire ai ragazzi che usciamo...»

«Posso andarci anche da sola! Tu hai già il tuo bel da fare, puoi stare tranquilla.» La rassicurai.

Ne avrei approfittato per trascorrere del tempo con me stessa.

«Oh... va bene, come preferisci!»

Mi strinsi così nel maglione e con falcate repentine mi avvicinai alla porta d'ingresso. Prima di varcarne la soglia, una voce delicata mi fermò.

«Priyala...», il mio nome uscì come una nota ben intonata dalla sua bocca, «... volevo ringraziarti e non solo per questo. Mi raccomando, fai attenzione!»

Cosa intendeva?

Decisi di non chiederle altro, avevo già un grosso problema con cui confrontarmi e non avevo spazio per credere, che forse anche lui, potesse provare qualcosa per me.
Con la mente altrove richiusi la porta dietro di me.
L'aria era piacevolmente fredda e una nuvoletta di fumo prese vigore una volta abbandonata la mia bocca. Percepii le mani gelarsi all'istante, il vento contribuì a infliggermi dei tagli delicati sulle nocche sgretolate. I capelli, non ordinariamente acconciati, si arruffarono per l'umidità. Ciononostante, ero incantata dalla purezza e dalla genuinità di quel momento.
Ero un'amante dei periodi freddi: mi consideravo un orso polare a tutti gli effetti.

Le strade erano affollate, i bambini entusiasti e i genitori stremati.
Tutto era in preda all'eccitazione.
Alcune persone conversavano in tranquillità; altre passeggiavano reggendo tra le mani, perfettamente coperte dai guanti, dei pacchi regalo e, altre ancora, si concedevano a qualche dimostrazione d'affetto.
Poteva sembrare la mostra di un quadro perfetto, a eccezione di una piccola pecca: io.
Somigliavo a un frammento microscopico della galassia; mi sentivo come un pesce fuor d'acqua, o come un bambino che impara per la prima volta a gattonare.
Mi consideravo uno sbaglio della natura, o meglio, inappropriata.
Scossi la testa.
Dovevo concentrarmi nel trovare qualcosa che soddisfacesse Emily e un regalo per Adam... anche se non lo meritava affatto.

Il Christmas Quarters era a pochi passi da me. L'insegna, poderosa e fluorescente, non lo faceva passare inosservato. Avanzai con passo deciso fino a imbattermi in una fila fatta, perlopiù, da giovani ragazzi. Poco distante da me, infatti, lessi delle parole su un foglietto: "svendiamo i nostri migliori prodotti, affrettatevi! Vi aspettiamo con amore e, intanto, vi auguriamo buone feste."
Perfetto! Ci mancava solo questa.
Controllai l'ora: mancava poco alle tre del pomeriggio.
Sperai di rincasare quanto prima.
L'attesa era sempre stato un punto a mio sfavore, persino quando ero costretta ad aspettare che la dottoressa Stewart mi ricevesse.

Le pareti sono spoglie e io mi sento languida. Mi accomodo sulla poltroncina di pelle stringendo, con forza, i lembi della felpa in cotone. È un ambiente stranamente intimo e accogliente; osservo allora le svariate riviste, sparse con cura, sul tavolino di vetro.
Margaret, la segretaria stilosa, mi adocchia di tanto in tanto dalle lenti rotonde. È vestita con il solito tubino nero; i capelli, simili al bronzo, sono raccolti ordinatamente in uno chignon e sul viso spiccano le labbra carnose, accese dal rossetto rosso. Gli occhi verdi brillano alla luce del giorno tanto da somigliare a degli smeraldi raffinati. Le piccole lentiggini sono risaltate dalla pelle lattea, quasi più della mia. Poi distolgo lo sguardo. Punto i miei diamanti spenti sulle dita trepidanti delle mani. Le gambe tremanti e il cuore scoppiettante non mi aiutano a rilassare i nervi. Ho ancora i ricordi ben impressi nella mente e segni che bruciano alla semplice vista. Mi sento pericolosamente fragile: potrei rompermi solo udendo delle semplici parole.
È lecito che una ragazzina di dieci anni provi tutto ciò?
Mi concedo un piccolo sbuffo e, quando sto per alzarmi, la porta della dottoressa si apre. Con voce armoniosa fa avvicinare Margaret, riferendole qualcosa. Lei annuisce, per poi poggiare il sedere sulla sedia da scrivania.
Un uomo di mezza età ci supera rifilando un semplice arrivederci.
«Signorina Moore, può entrare», mi richiama, «ricordi a sua madre di consegnarci il foglio con la nuova autorizzazione, altrimenti dovrà accompagnarla alla prossima seduta.» Fa schioccare la lingua sul palato.
È sempre stata fastidiosamente formale, nonostante la mia frequenza.
Mi tratta come se fossi una donna adulta, o forse un'estranea.
Potrebbe anche rilassarsi, no?
In fondo, sono io quella a cui deve essere strizzato il cervello.
Mi limito ad annuire, mi sistemo la felpa color senape un po' stropicciata e mi muovo verso la porta di legno antracite.
La vista mi cade sulla targhetta: Annalyse Stewart, era scritto a caratteri cubitali.
Prendo un grosso respiro prima di varcare la soglia.
Nell'aria si respira un profumo fruttato, o forse di mela caramellata. La stanza è graziosa: le pareti cilestrine sono arricchite dai vari titoli di studi conseguiti e da un lato, sulla sinistra, un divanetto beige riempie gran parte dello spazio. Sul tavolino di fianco, fiori gialli e lilla luccicano di freschezza. Annalyse è concentrata ad annottare i suoi pensieri su un dossier prima di accorgersi della mia presenza, accogliendomi così con un sorriso sincero stampato sul viso minuto. I suoi occhioni marroni mi squadrano con affetto e le sopracciglia scure si rilassano, cancellando ogni traccia di affaticamento.
«Ciao, Yala. Vieni, accomodati pure», la voce le esce con armonia. «Come stai?»
Perdo qualche minuto a osservarla: il fisico, piccolo e slanciato, è fasciato da un completo nero; le mani, ben curate e smaltate con del gel rosa, sono affusolate intorno ad alcuni fogli di carta. Con un movimento delicato, raccoglie i capelli castani dietro l'orecchio.
«Le va di andare subito al sodo senza perderci in inutili chiacchiere?» Rifilo decisa, sorvolando la sua domanda.
La dottoressa scoppia in una risata naturale. La guardo di sottecchi, quasi a volermi nascondere. Ho imparato col tempo, come l'indifferenza fosse il miglior indumento che avrei potuto indossare. Sono un caso con problemi irrisolti; lo avevo spulciato per errore durante il nostro primo incontro.
«Hai la stessa lingua, affilata e tagliente, di una bambina che conoscevo.» Sembra che per un attimo il suo sguardo si assenti. «Se ben ricordo, l'ultima volta avevi detto che non saresti più tornata, o sbaglio? Quindi penso non ti dispiaccia affatto la mia compagnia.»
Colpita e affondata.
Spazientita, consento al mio corpo di atterrare con un tonfo sul materiale morbido del divano.
Annalyse sorride soddisfatta, preparandosi così, a stilare il suo interrogatorio.
«Molto bene, vedo che inizi a collaborare. Ora dimmi, hai fatto quello che ti ho chiesto?»
Mi ha incitato a comperare un cartoncino da disegno e degli acquarelli.
E io l'ho fatto.
Poi a dipingere la prima cosa che mi venisse in mente, seppure fossi negata nel disegnare.
E qui ho avuto il primo incidente di percorso: in preda alla rabbia, o forse alla collera, ho colorato completamente di nero tutto il cartoncino, per poi bruciarlo.
Perché mi sento inadatta e con un'anima marchiata da un nero indelebile.
Annuisco, poggiandomi comodamente sul bordo. «Posso farle una domanda?» Svio la conversazione.
La dottoressa mi presta la sua totale attenzione, lasciandosi cadere gli occhiali da vista sulla punta del naso.
«Crede che un giorno possa essere felice?»
La mia domanda sembra spiazzarla; lo si nota dalle gote leggermente gonfiate e dallo sguardo pietrificato.
Oh, dottoressa... sono in grado di inglobare il male e a tramutarlo in carne e ossa. In questo modo, intraprenderei una delle battaglie più ardue della storia: quella con la mente.
Riuscirò a salvarmi?
«Tutti siamo destinati a essere felici. Seppure la strada possa essere frastagliata e ricca di crepe. E per esserlo, però, dovrai sentirti viva. Quindi devi provare: rabbia, frustrazione, dolore, angoscia, follia, e... amore. Sono emozioni che ognuno ha dentro di sé, Priyala. Con il tempo, imparerai a crescere con i sentimenti e a plasmarli con chiarezza nella tua testa. Ma deve partire tutto dal tuo motore di ricerca: il cuore.» Mi sorride.
Una lacrima sembra sfuggire al mio controllo: forse non ho più paura di mostrare la mia debolezza.
«Penso proprio che tu sia pronta.» Richiuse il fascicolo con inciso il mio nome.
La guardo stranita. «Per fare cosa?»
«Per lasciarti andare. Spicca il volo e raccogli tutto ciò che la vita ha da offrirti. Imparerai a perdonare e a perdonarti. Gli errori fanno parte della nostra indole, siamo pur sempre degli esseri umani e in quanto tali sbagliamo per la maggior parte delle volte. Sono sicura che diventerai una ragazza meravigliosa, Yala.»
Le sue parole mi cullano come fossi una bambina.
Sono pronta a volare?
Lo scoprirò solo vivendo.

A riportarmi alla vita reale fu una mano che tirava verso il basso il mio maglioncino. Mi girai in quella direzione e vi ci trovai due occhi celesti a fissarmi con aria corrucciata. L'artefice era una bambina, che sosteneva un orsacchiotto tra le tenere braccia, mentre, con la mano libera, reggeva un pacchetto argentato con un fiocchetto azzurrino a completare la decorazione. La bocca rosea era saldata in un'espressione di disapprovazione e lievi spruzzate di lentiggini decoravano il nasino a patata. I lunghi capelli di un nero limpido ricadevano morbidamente lungo le spalle minute e piccole. Indossava un vestitino rosso a collo alto, stretto in vita da un cinturone nero, e ai piedi portava delle splendide ballerine dello stesso colore. Il cappottino finiva con il completare il quadro perfetto di quella creatura principesca.
Per un momento mi sembrò di vedere me in miniatura.

«Cerci qualcuno, piccolina?» Chiesi guardandomi intorno. La fila si era sfollata di molto: poche persone e sarei finalmente entrata.
Sbirciai l'ora: era passata poco meno di un'ora.
La bambina negò con la testa.
Al contrario di quanto pensassi, mi allungò il pacchetto che reggeva con la mano sottile e delicata.

Forse ti avrà scambiato per qualcun'altra?

«No, questo non è mio. Ti stai confondendo.»

Scosse nuovamente la testa e mi indicò con più determinazione.

Perché non parla?

Forse è muta.

A quel punto decisi di prenderlo.
Il pacchetto era stranamente leggero, come se nulla vi fosse contenuto al suo interno.

È sicuramente uno scherzo, non mi fiderei così tanto.

«Elizabeth... quante volte ti ho detto di non sgattaiolare via quando parlo con qualcuno? Ti stavo cercando ovunque.» La voce inconfondibile di una donna interruppe quel momento.
«Per fortuna non ti è successo nulla.» Le afferrò la manina puntando lo sguardo verso di me. «Ci scusi tanto, signorina!»
I lineamenti giovanili erano piacevolmente disegnati sul suo volto. Le somigliava tanto, a eccezione del colore delle iridi, dal colore dell'arsenico.
Ero sul punto di riferirle l'accaduto quando vidi le due allontanarsi impedendomi di dire qualsiasi cosa. La bambina, poi, si girò per un secondo nella mia direzione e si portò l'indice sul naso per farmi segno di tacere.
Ero molto confusa.
Cosa poteva essere? Dovevo aprirlo?
Non lo so.
Ci avrei pensato dopo.

Il negozio era davvero carino e le vetrate bianche incantavano gli occhi dei visitatori. Si poteva notare come fosse suddiviso, per sezioni, dai colori delle pareti. Una parte era a tinta chiara, mentre, nell'altra, le mattonelle avorio, si abbinavano al parquet marrone. La gente trottava dagli scaffali, su cui erano poggiati in ordine dei peluche variegati, ai piccoli souvenir; c'erano persino dei vinili. Il locale, quindi, era pieno di alberi decorati, schiaccianoci di tutti i tipi, neve finta, perline colorate, cassette rivestite e molto altro ancora. Sembrava che ogni piccolo angolo di questo spazio prendesse vita.
Decisi di comprare il minino indispensabile, alla fine, si sarebbero trattati di semplici addobbi.
Presi tutto ciò che ci serviva.
Ero sul punto di dirigermi verso le casse, quando una piccola sfera di cristallo catturò la mia attenzione. Al suo interno vi erano incastonate delle stelline che illuminavano uno sfondo blu. Se lo si fosse scosso, le piccole particelle di neve finta, avrebbero ricoperto la figura di un bambino, il cui sguardo era catturato dal bagliore della luna. Un braccio del piccolo era sollevato verso l'alto. Sulla cordicella, che reggeva strettamente tra le mani, fluttuavano dei sogni. Si trovava in una sorta di dimensione parallela, precisamente, tra realtà e immaginazione.
Ne restai affascinata: somigliava a un vero e proprio dipinto in miniatura.
Pensai, allora, al compleanno di Adam.
Al bambino che aveva smesso di sognare.
Si sarebbe meritato un regalo da parte mia? Probabilmente no, ma le emozioni finirono per prevaricare sulle azioni e allora, con il cuore che si frammentava scagliandosi in cocci di vetro, uscii dal negozio confezionando la piccola sfera.

Il percorso verso casa fu davvero breve.
L'aria era gelida e il vento tagliente più che mai. Avevo posato il pacchetto di Elisabeth nella borsa; ne avrei scoperto il contenuto solo più tardi. Affrettai il passo verso la dimora e ne varcai l'ingresso. La sala era piacevolmente allestita da un tavolo in legno su cui era adagiata una splendida tovaglia rossa; al centro, invece, giaceva un candelabro decorato con piccoli ciuffetti di erba verdi e marroni. Le diverse pietanze erano disposte in ordine e con degli stracci a coprirle in modo da non impolverarsi. Mi avvicinai il giusto per sbirciare cosa ci fosse al loro interno: tartine, stuzzichini, tacchino arrosto, patate aromatiche e dell'insalata di verdure miste, riempivano i piatti di porcellana.
Emily, a quel punto, fece il suo ingresso dalla cucina, munita dell'immancabile grembiule lilla.

«Ben tornata! Allora, com'è andata?» domandò, venendomi incontro.
I suoi occhi si rallegrarono alla vista del sacchetto con la stampa di Babbo Natale.

«Ho comprato un alberello, delle lucine e delle palline colorate!» Elencai le compere, omettendo alcuni particolari.

«Ottimo!», batté le mani estasiata, «abbiamo ancora un po' di tempo prima di cenare. Ti andrebbe di aiutarmi, tesoro?»

«Oh... sì, certo!» risposi, poggiando le mie cose sul pavimento.
L'ambiente era caldo e i miei occhi scrutarono con rapidità la sala: il camino brulicava rumorosamente e le fiamme illuminavano l'ambiente con una luce vivida.

«Mettiamoci all'opera!»

Iniziammo con il districare i rami ispidi di quell'ammasso verde. A poco a poco prese vita un meraviglioso alberello, alto quanto la sedia, e dall'aspetto mi soddisfaceva nonostante fosse ancora spoglio.

«Priyala...», mi riscosse, «... puoi passarmi il mantello?»

«Non dovremmo metterci prima le palline?» Chiesi a pochi centimetri dal suo viso concentrato.

«No. Potrebbero cadere se le appendessimo prima del manto.»

Giusto, non ci avevo pensato. Feci un cenno col capo e le passai ciò che mi aveva chiesto. Quando finimmo di decorarlo con le luci e ad appendere le varie sfere colorate (quella con lo stemma della renna era al momento la mia preferita), battemmo le mani soddisfatte del risultato. Non avevamo fatto molto, ma quel poco era bastato a rallegrarci gli animi.

«Direi che abbiamo fatto un ottimo lavoro.» Mi osservò per un istante «Vai a rinfrescarti, cara... tra non molto si cena. Andrò ad avvisare anche i ragazzi!» Mi sorrise prima di dileguarsi.

Distolsi lo sguardo da lei per puntarlo sui sacchetti colorati. Salii al piano di sopra con passo lento e, quando entrai nella stanza, mi lasciai cadere a peso morto sul materasso morbido.

Fissai il regalo che avevo confezionato per Adam.
Si sarebbe arrabbiato?
Perché dovrebbe? A tutti fa piacere essere pensati.

Accantonai quei pensieri e come un flash, mi tornò in mente il ricordo di Elizabeth. Mi drizzai con il busto, quasi mi fossi bruciata, e mi precipitai a recuperare quello che mi aveva dato. Il cuore mi palpitava senza sosta e non so per quale motivo, ma avevo un brutto presentimento a riguardo. Lo agitai, speranzosa di scoprire di cosa si trattasse, ma la leggerezza di quei movimenti non mi fecero capire molto. Allora rintuzzai una smorfia e mi affrettai, presa dalla curiosità, ad aprirlo. Le mani mi tremavano come una foglia agitata dal vento, presi coraggio e lo aprii. Una piccola clessidra, poggiata su un dischetto di legno chiaro, era ben fissata sulla parte dura della faccia del pacchetto.
Piccoli granelli di sabbia scendevano in concatenazione l'uno dietro l'altro, senza toccarsi mai.
Ero confusa e agitata.
Indugiai per qualche secondo prima di aprire un foglietto ripiegato su sé stesso e, con titubanza, ne lessi il contenuto: "così come le lancette dell'orologio decretano lo scorre del tempo, questi piccoli granelli sanciranno il nostro incontro. Ci vedremo presto." La calligrafia era precisa e ordinata, nonostante le parole fossero scritte con il calamaio.
Chi lo utilizzava ancora?
Dei brividi mi percorsero la colonna vertebrale.

Chi poteva essere?
Dovevo dirlo alla polizia?
Forse si trattava di uno scherzo di cattivo gusto.

Con il cuore in gola lo poggiai nuovamente nella borsa e con la mente altrove afferrai il regalo di Adam: gliel'avrei lasciato lì dove meritava di essere.
Cancellai ogni segno di incertezza e mi precipitai al di fuori della stanza.
Il corridoio era silente a eccezione del rumore dell'acqua che proveniva dal bagno. Doveva essere sicuramente lui. Approfittai di quel momento e, senza pensarci troppo, tirai la cordicella verso il basso. Salii in fretta ogni gradino. Ero sul punto di accendere la luce quando qualcuno mi precedette. Gli occhi gelidi e il profumo di menta del ragazzo che mi tormentava la vita mi investirono all'istante.

«Mi sono domandato più volte che aspetto avesse il ladro che era entrato in camera mia senza il mio permesso.» Si alzò riordinando il libro che aveva tra le gambe.
«Credo sia arrivato il momento di restituirmi quello che mi appartiene, Priyala

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