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Un Bacio Che Profuma Di Delicatezza

«Nulla fa più male di un ingranaggio rotto al centro del petto; graffiante e sanguinante per la moltitudine di aculei, rappresenta quello che di reale c'è.»

Dalla cena dagli Hill il tempo trascorse velocemente, le giornate erano diventate una monotona routine: studiavo, mangiavo, uscivo di tanto in tanto, poi finivo per andare a dormire.
Nulla di nuovo, nulla di insolito.
Sperai vivamente che quel giorno non arrivasse; ma non ero in grado di arrestare lo scorrere delle lancette che decretavano la fine dei dì e delle notti.
Il momento della partenza era sempre il più confusionale: quella mattina, mia madre era alle prese con i suoi bagagli. Ci aveva messo le cose essenziali: alla fine, si sarebbe trattato di un viaggio di una settimana. Avrei trascorso le vacanze di Natale da sola, senza Lucy. Sarebbe andata a Gibsland da sua madre, e io non potevo che esserne felice.
Rammaricata, presi le mie cose e mi diressi al piano di sotto; dove Idris mi accolse con un sorriso sgargiante.

«Sei pronta?» Chiese, distratta, dal cercare le chiavi.

Feci un cenno col capo.

Non ero psicologicamente pronta a trascorrere dei giorni con lui.
Mi sentii ingabbiare, contro ogni mia volontà, da un destino a me superiore.
E fu così che mi arresi al suo volere.

Il tragitto fu tranquillo e tacito.
L'uber ci sostò dinanzi al villino. Richard se ne stava sul porticato con le braccia conserte, lo sguardo rivolto all'orizzonte e una valigia blu al suo fianco. Non appena ci vide, si incamminò verso di noi per posare il trolley nel portabagagli.

«Buongiorno, fanciulle», sorrise educatamente. «Il volo partirà tra due ore esatte, quindi... sarà meglio andare.» Si rivolse, concentrato, verso mia madre porgendole, poi, il suo biglietto.

Dopo piantò le iridi chiare nelle mie.
Da una tasca posteriore dei jeans scuri estrasse delle chiavi e un foglietto bianco ripiegato meticolosamente. Si avvicinò, cauto, e me li porse con gentilezza.

«Questi sono un duplicato che ho sempre di riserva e i nostri numeri di telefono. Il primo è il mio, puoi chiamarmi per qualsiasi problema. Il secondo è di Adam. Non credo tu ce l'abbia: non è solito darlo a tutti.» constatò, poggiandosi le dita sotto al mento rasato dalla barba.

«Presto conoscerai Emily: è la nostra domestica, ma io preferisco definirla come una seconda madre. Da quando Rose è morta, mi ha aiutato molto con Adam. Domani non ci sarà: suo figlio rientra da un viaggio in Europa. È una chiacchierona delle volte, ma ha un cuore d'oro.» Disse a fior di labbra.

Gli occhi gli brillarono: doveva volerle veramente bene.
Fissai, dopo, il pezzo di carta.
Lo rigirai, agitata, tra le mani.
Mia madre mi strinse affettuosamente in un abbraccio, mentre Richard mi regalò una pacca sulla spalla. Si sistemarono frettolosamente nel taxi, chiudendo le portiere. Prima di partire, il finestrino del passeggero si abbassò, mostrandomi la figura dell'uomo simile al mio peccato.

«Ah, Yala... oggi è una giornata particolare per Adam. È il giorno della ricorrenza, perciò lui... tende a rientrare tardi. Quindi... inserisci tranquillamente l'allarme che troverai all'ingresso sulla tua sinistra. Ti basta digitare la data di oggi. È un semplice numero a quattro cifre», disse piano per non farsi sentire dal tassista. «E... grazie, di tutto.» Mi risalutò sventolando una mano.

22.12: sua madre è morta poco prima di Natale.

Li osservai allontanarsi da me, lasciandosi alle spalle una scia di fumo.
Sarei corsa volentieri verso la mia, di casa, se solo mia madre non mi avesse sequestrato le chiavi, per sicurezza.
"A mali estremi, estremi rimedi..." Mi aveva detto.
Scossi la testa, e afferrai la piccola valigia sbuffando; marciando, poi, in direzione del villino.
Con agitazione feci quello che mi aveva detto Richard, e una lucina verde si innescò all'istante.
Tutto era silenzioso e tetro.
La casa era decorata da un vuoto incolmabile.
Avrei studiato tutto il pomeriggio per mantenermi al passo con i compiti.
Mi sarei preparata un bagno caldo, e avrei ordinato qualcosa da mettere sotto i denti.
Tutto sarebbe andato per il verso giusto, ne ero sicura.

~•~•~•~•~

La notte celava le peggiori fantasie. Poteva essere il mostro cattivo dei bambini e una migliore amica per gli adulti. E a me piaceva: ero affascinata dal canto delle civette, dal cielo tinteggiato di giallo e dalla luna che elargiva consigli migliori. Mi strinsi nel pigiama rosa di pile. Sbirciai con gli occhi stanchi l'ora dalla piccola sveglia: segnava poco meno alle undici.
Ero sola e spaventata più dalle emozioni che dai numerosi rumori.
Il vento soffiava fortemente tra le foglie, scombinandole. Dei gattini miagolavano per solitudine e dei cani abbaiavano con stanchezza.
Si era fatto tardi.
Era il caso di chiamarlo? Stava bene?
La mente era popolata da numerose domande a cui non avrei saputo dare una risposta. Così mi strinsi le ginocchia al petto, come facevo sempre da bambina, e tentai di chiudere gli occhi. Sperai che il buio, stavolta, mi avrebbe portato presto con sé.

«Piccola, vuoi vedere una magia?» Sorride, afferrando la mano di una bambina dai lunghi capelli neri.
«Perché sei un mago?»
Pianta i piedi sulla sabbia rovente, puntando lo sguardo vuoto all'orizzonte.
Vorrebbe essere come le onde del mare: impetuose e violente. Chiude gli occhi beandosi della brezza marina che le scompiglia la folta chioma.
La risata dell'uomo è calorosa. La bambina, invece, lo scruta con la fronte aggrottata.
«Guarda le nuvole che dipingono il cielo, puoi darle tutte le forme che desideri.» La osserva sorridendo.
«Vedi, proprio quella...» Ne indica una farsi spazio tra le altre, catturando l'attenzione della piccola.
«Ha le sembianze di una stella, somiglia un po' a te.»
Sono proprio dietro di loro, ma sembrano non fare caso a me; dal cielo filtrano dei raggi intensi tanto da bruciarmi la pelle, mentre il ticchettio di un orologio si propaga nell'aria.
All'improvviso, il cielo diviene tetro come il carbone; veniamo, poi, illuminati dal bagliore dei lampi che squarciano l'aria.
«Aiuto, papà!» Grida la bambina sbracciandosi da tutta quella violenza.
Osservo Jhonn voltarle le spalle, sta abbandonando sua figlia un'altra volta.
«No, non andare... fermati, ti prego.» Gli urlo, ma dalle labbra non esce una sillaba. Sono come intrappolata.
Mi volto verso la piccola, ma di lei non c'è traccia. Mi accascio con le ginocchia sulla sabbia, portandomi una mano al viso.
Vorrei gridare, ma ciò che percepisco sono solo delle lacrime bruciarmi la guancia.
A un tratto qualcuno mi afferra facendomi voltare bruscamente. Un uomo dall'aria gelida mi scruta con cattiveria.
Ride in modo sadico. Cerco di dimenarmi, ma la sua presa è ferrea sul mio corpo.
La vista si offusca mentre lascio al corpo la codarda debolezza di arrendersi.

Mi svegliai con il cuore martellante e la fronte imperlata dal sudore.
Avevo avuto un altro incubo; lo stesso, simile, di ogni notte.
Sbirciai l'ora dalla graziosa civetta affissa alla parete chiara: segnava le tre del mattino.
Il cielo, in quel momento, stava bagnando la terra con le sue lacrime, mentre picchiava i suoi figli con delle raffiche di vento più violente.
Osservai, stropicciando un occhio, gli scatolini che riempivano la camera sgombra.
E allora pensai al dolore di una perdita.
Alla sopportazione di un bambino.
E a un padre logorato dal dispiacere.
A riscuotermi dai pensieri fu il rumore di un vetro rotto che mi fece sussultare per lo spavento.
Cosa poteva essere?
Se fossero dei ladri sarebbe scattato l'allarme, no?
Dovevo chiamare Adam!
Ottima soluzione, spero tu abbia imparato il numero a memoria.
Mi schiaffeggiai mentalmente per la mia goffaggine: avevo lasciato il foglietto nel portaoggetti a forma di candela.
Sei sempre la solita sbadata.
Cercai, in preda al panico, un oggetto con cui mi potessi difendere. Ma nulla: a parte me, il letto e una cabina armadio beige, vacante, non c'era nient'altro. Potevo restare lì, buona, chiudendo la porta a chiave, ma la serratura rotta non me lo consentì. A quel punto decisi di farmi coraggio. Mi appoggiai una mano al petto cercando, in qualche modo, di placare i battiti irregolari. La vista incominciò a ombrarsi e le gambe divennero gelatina. La paura era, purtroppo, uno dei miei punti deboli. A ogni gradino il frastuono si intensificava, proprio come la mia ansia.
Riprenditi, non è il momento di fare la fifona!
Il mio corpo era in preda agli spasmi; arrancai fino a poggiare gli occhi su una figura avvolta dalla penombra, illuminata a malapena dal bagliore della luna.
E... lo riconobbi all'istante.

«Dannazione Adam, mi hai fatto prendere un colpo. Si può sapere dove sei stato?» Sbottai, agitata, pigiando l'interruttore della luce.

Dei cocci di vetro erano sparsi per terra mentre del sangue colorava il marmo lucido. Dell'acqua stava entrando dalla finestra, agitata dalla tempesta. La chiusi facendo attenzione a non toccare con i piedi nudi i frammenti di vetro.
Si voltò verso di me.
Mi pietrificai, il suo viso sofferente, era osculato da alcuni tagli.

«C-Cosa ti è successo?» Chiesi, agghiacciata, speranzosa di ricevere una spiegazione.

Al contrario, Adam mi superò, fulminandomi. Ma lo placcai costringendolo a fermarsi. Ritrasse bruscamente il polso dalla mia presa. Sembrava... furioso.

«Non sono affari che ti riguardano.» Sputò, velenosamente, reprimendo forse una smorfia di dolore.

«Si dà il caso che dobbiamo vivere sotto lo stesso tetto, quindi sì, per il momento sono affari che mi riguardano.» Rifilai, decisa, contraendo la mascella per la rabbia.

«Non sono stato io a chiedertelo.» rispose immediatamente, poggiandosi una mano sul fianco.

I tuoni incominciarono a farsi sentire con più veemenza e la casa a essere illuminata con ardore. La pioggia fitta sgrondava senza vergogna. Avanzai, con passo deciso, verso di lui. Con la forza che avevo gli sollevai il lembo della maglia zuppa di sudore, o forse di acqua. Un livido, grosso e nero, sanguinava per la presenza di un taglio più profondo. Lo toccai appena e costatai quanto la sua pelle scottasse. I capelli fradici gli ricadevano in disordine sulla fronte bagnata. Gli abbellivano un viso ricoperto da un lieve strato di barba.

Ed era dannatamente... proibito.

«Dov'è il kit di pronto soccorso?» Chiesi, distogliendo lo sguardo dalle labbra. Erano carnose e lucide, repressi la voglia matta di risentirle sulle mie.

Adam fece per andarsene, ma lo bloccai nuovamente, stavolta, con più facilità.

«Non ho bisogno del tuo aiuto, me la cavo...»

«Se non vuoi collaborare, lo troverò da sola. Vado a vedere di sopra... va a sederti!» Lo zittii, categorica, sperando che facesse quello che gli avevo detto.

Salii in fretta, marciando nella direzione del bagno. Era piuttosto semplice con le ceramiche bianche e le pareti del colore della sabbia. Lo specchio rifletteva una figura stanca e un volto ricoperto da due occhiaie violacee. Scossi la testa e mi riconcentrai sul ragazzo nel salotto. Con agitazione frugai tra le ante dello specchio e la trovai: una piccola cassetta rossa con lo stemma di una croce. Dentro c'erano guanti, bende, disinfettanti, dei punti per la sutura e alcuni medicinali. Forse non era la prima volta che gli capitava. Richiusi il kit, presi un telo pulito e feci un respiro profondo prima di incamminarmi verso di lui. Con stupore lo trovai seduto sul divano aveva gli occhi chiusi. Gli toccai la fronte ed era veramente calda. La ferita gli stava provocando un'infezione. Gli sfilai la maglia, nonostante i suoi costanti mugolii. Un petto tonico e liscio guizzò alla mia vista.

È uno spettacolo per gli occhi!

Mi riconcentrai nuovamente su di lui: dovevo saturargli immediatamente la zona lacerata. Presi un profondo respiro, dovevo stare calma, non era la prima volta che lo facevo. Così, con determinazione, infilai i guanti celesti e passai a disinfettare la zona.

«Maledizione, brucia...» Lagnò con struggimento.

«Sta' fermo, mi rendi tutto difficile!»
Presi una garza sterile e gli tamponai il sangue che fuoriusciva senza sosta. Dopodiché afferrai ago e filo e iniziai a fargli una sutura continua. Sentivo i suoi muscoli agitarsi al di sotto delle mie mani. Il suo continuo dimenarsi non mi aiutò affatto.

«In questo modo complichi tutto. Un attimo... ho quasi finito.» Continuai a cucirlo.

Dopo quelli che sembrano minuti inarrestabili; finii per applicargli una garza pulita sulla ferita, per evitare che si aprisse di nuovo. Ripulii con cura la zona; con il telo gli asciugai la fronte e passai, poi, ai centimetri di pelle macchiati dai rivoli di sangue.
Presi anche una pasticca di antinfiammatorio e gliela allungai.

«Forza, prendila. Ti aiuterà a sentire meno dolore. Tra qualche giorno tornerai in forma.» Gli porsi un bicchiere d'acqua.

Stranamente fece quello che gli ordinai.

«Ora, dormi... hai bisogno di riposare.» Cercai di ricoprilo con una coperta, ma la sua mano mi fermò. Si portò la mia sul petto, che si muoveva a un ritmo irregolare.
Potevo sentire i suoi battiti mescolarsi con i miei.

La sua vicinanza mi mandava in confusione.

E... mi sentivo più viva che mai.

Il sangue mi ribolliva in ogni centimetro della pelle. Ero accaldata: il corpo lo reclamava come un bisogno. Con l'altra mano libera mi sfiorò un lembo di guancia scoperto dai capelli; e le sue dita erano gelide, a fronte del fuoco che mi divampava da ogni poro.

I suoi lineamenti sembrarono addolcirsi.

«Lo senti questo!?», sussurrò a pochi centimetri dal mio viso. «È il boato di un cuore scheggiato. Non posso essere aggiustato, non voglio. Ho come ombra il mio stesso demone... lo capisci, Angel?» Mi scrutò le labbra e il suo respiro mi solleticò la faccia.

A quel punto lo vidi: il dolore nei suoi occhi limpidi, riflesso nei miei, simili al prato bagnato. Non riuscii a muovermi da quella posizione: ero intrappolata dalle sue parole.

«Non lasciarmi solo...» Bofonchiò prima di attirarmi tra le sue braccia.

In quel momento il cuore incominciò a martellarmi il petto, i timpani tamburellavano come uno strumento a percussione e le gambe divennero gelatina. Gli occhi minacciavano di far fuoriuscire delle lacrime di vetro, taglienti e dure, che tuttavia potevano essere, se solo lo avessero desiderato, dei cristalli preziosi e delicati. Adam appoggiò, con stanchezza, il viso sulla mia spalla. Lo sollevai con delicatezza: aveva gli occhi chiusi e respirava con regolarità.

Si era addormentato.

Gli fissai le labbra. Mi abbassai di poco fino a sentirle. Lo baciai, così, nel buio di quella notte, sciogliendomi come un gelato in piena estate.

«Sai una cosa? Avrei voluto odiarti: come solo un cuore spezzato e ustionato dalle ferite è in grado di fare. Avrei voluto respingerti, con tutte le mie forze, ma credo di essere un angelo a cui piace farsi baciare dal proprio diavolo.
E la realtà è che mi sei entrato nel cervello... come un cancro maledetto.» Confessai, consapevole del suo silenzio.

Ascoltai placidamente il soffio sottile del suo respiro. Era così meravigliosamente tranquillo. Gli carezzai i capelli profumati, simili alla seta, e finii per appoggiarmi sulla sua testa.

Sfinita, chiusi gli occhi.
Il sonno gravava sulle palpebre assonnate.
E mentre i nostri respiri si abbracciavano i nostri corpi si fusero come delle fiamme.

Fu quella la prima volta che mi addormentai senza che i mostri mi facessero visita.

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