Rock'n'Bowl
«Siete d'accordo nel dire: "la quiete dopo la tempesta?".
Ma cos'è realmente? Potrebbe considerarsi quel breve lasso di tempo in cui il cielo si copre del manto grigio oppure il momento in cui piange per liberarsi dallo stato di inquietudine? No, ragazzi miei. La quiete è un qualcosa di effimero, il cui significato non è facilmente attribuibile.»
Avevo un'emicrania terribile e il naso completamente tappato: mi sentivo uno straccio. Per fortuna le prove erano terminate e secondo il parere di Iago erano andate alla grande.
«Ottimo, ragazzi. È questo quello di cui abbiamo bisogno: l'intesa! Non so cosa avete fatto, ma c'è della chimica fra voi. Vedrete, sarà un successo.»
Ci disse prima di congedarsi assieme alla gran parte dei ragazzi che avevano assistito.
Io ed Adam ci scambiammo diverse occhiate senza soffermarci più di qualche secondo. Guardarlo significava accettare dei sentimenti che, ora come ora, dovevano restare silenti. Nonostante ciò, più passavano i giorni e più risultava difficile controllare la voglia di cingergli le braccia al collo e di baciarlo fino a quando le nostre labbra non si sarebbero consumate.
Fu così che ebbi la cruda consapevolezza di avergli aperto le porte del mio cuore.
Lui per me era casa: una dimora, calda e accogliente, capace di amare i fortunati che ne facevano parte.
Sentivo, aldilà della sofferenza, il bisogno delle nostre anime di aggrovigliarsi come rovi, ma questo non bastava.
Allora, con le lacrime che custodivano dei desideri, ne intrappolai la verità: noi non potevamo stare insieme.
Era come se le mie emozioni navigassero in alto mare lì dove nessuna scialuppa era in grado di salvarle.
Quel pomeriggio in città si percepiva un'aria diversa, mista tra eccitazione e divertimento. Alzai lo sguardo verso il cielo libero dal fumo che lo palliava. Le nuvole che danzavano grazie al venticello, che invece pungeva la mia pelle, dipingevano con eleganza il manto celeste sopra i miei occhi, e per un attimo mi sentii in pace. Unii ambedue le palpebre con la speranza che anche i miei pensieri venissero spazzati via, ma non fu così. Emisi un verso contrariato, che fuoriuscì come una nota scordata, e distolsi lo sguardo.
Finii per piantarlo nel punto in cui si trovava quell'uomo.
Non potevo negare il senso di agitazione che aveva pervaso la mia testa e la paura che inevitabilmente farfugliava nel mio petto. Cercai di scacciare quel ricordo dalla mia mente e mi incamminai verso il parcheggio, dove ad attendermi ci sarebbe stata l'incantevole Ford.
Prima di uscire, infatti, avevo letto un messaggio di Lucy in cui mi diceva di aspettarla vicino alla sua auto: si sarebbe trattenuta per parlare con Gomez, il professore di arte, circa un progetto a cui avrebbe preso parte.
Allora, mi incamminai per il vialetto della scuola constatandone il suo piacevole silenzio.
Nell'aria risuonavano soltanto i miei passi falcati, fino a quando un vociare si mescolò al suono da me prodotto.
Se si trattasse di nuovo di quell'uomo?
Beh, in quel caso avrei cercato di affrontarlo.
Quindi, con un tremolio alle gambe, mi avvicinai il giusto per riuscire a individuare chi fosse.
Per fortuna adocchiai la capigliatura bionda e lucente di Jennifer, e allora i miei nervi si rilassarono all'istante.
Era impegnata a conversare con qualcuno il cui corpo era nascosto dalla folta chioma delle caducifoglie. Avanzai cercando di fare il minimo rumore possibile, un altro passo e avrei scoperto la persona in questione.
Mi nascosi dietro un cespuglio.
Da questa distanza notai che quel qualcuno aveva i capelli castani, una polo color fumo ed era fermo con le mani appoggiate nelle tasche.
Un momento... Adam era lì che mi regalava la vista della schiena muscolosa.
«Bene, bene, bene... mi puoi spiegare cosa c'è tra di voi?» una mano si appoggiò sul suo petto.
Quel contatto mi fece rabbrividire.
I nervi si irrigidirono nuovamente e mi conficcai le unghie nei palmi per cercare di darmi un contegno.
Perché si lasciava toccare da lei con così tanta facilità?
Il cuore minacciava di fuoriuscirmi dalla gabbia toracica.
«Non so di cosa tu stia parlando.»
Jennifer scoppiò in una risata nevrotica.
«Non ti conviene fare il vago, Adam. Dovresti essermi riconoscente, una semplice chiamata distruggerebbe quella meravigliosa bambola di porcellana. E tu non vuoi che questo accada, giusto?»
Bambola di porcellana? Di cosa stava parlando?
Adam le afferrò bruscamente il polso, le sue dita si affusolarono intorno alla sua pelle. «Io non ti devo niente. Mi sembra di essere stato chiaro o hai bisogno che te lo ripeta?»
Jennifer alzò l'indice e lo scosse in segno di negazione. Poi con estrema calma si alzò in punta di piedi, si aggrappò con le mani curate alle sue spalle e gli sussurrò qualcosa all'orecchio.
Cercai di avvicinarmi di più, ma persi l'equilibrio.
Imprecai nel tentativo di pulirmi le mani dal terriccio umido. Sperai di non essere stata scoperta a causa della mia goffaggine.
Caspita, ci è mancato poco!
Quando sollevai il viso verso di loro, desiderai sparire. Il mio corpo parve pietrificarsi e, a poco a poco, udii persino il rumore di un cuore sgretolarsi.
Lui la stava baciando.
Le cinse i fianchi con le braccia e la spinse verso di lui, incatenando le sue labbra su quelle di Jennifer. Lo schiocco prodotto dalle loro bocche mi aveva nauseata a tal punto da sentire il bisogno di scappare da lì.
Di scappare da lui.
Perché lo stava facendo? Perché a me?
Una lacrima sfuggì al mio controllo e finì per solcarmi la guancia.
Scesero, poi, una dietro l'altra ed erano così calde e salate che strabuzzai appena gli occhi per liberarmene. Con riluttanza mandai giù un groppo che mi ostacolava la respirazione. Le gambe si muovevano con movimenti robotici e, con ancora le lacrime agli occhi, mi avviai verso l'auto di Lucy.
Fortunatamente non era lì.
Avanzai fino ad appoggiarmi alla portiera della sua auto e la attesi volgendo il capo verso l'alto. Consentii al vento di asciugarmi le lacrime che avevano bagnato fin troppo le mie guance cadaveriche.
Chiusi gli occhi e per un momento la mente parve viaggiare altrove.
Rileggo più volte l'indirizzo un po' stropicciato: 830 Peachtree St, 2M.
L'appartamento si trova in un condomino celeste e lo riconosco senza troppa fatica rispetto agli altri un po' spenti o del tutto rovinati.
Prima di rimuginare sulle mie azioni attraverso la strada affollata. Mi incanto a osservare la vita frenetica delle persone, perlopiù uomini in camicia e donne con i passeggini, che sfrecciano da una parte all'altra senza fermarsi mai.
Com'è possibile, invece, che io sia così apatica?
Scuoto la testa e con un forte senso di agitazione premo sul citofono.
Cosa sto facendo? Perché sono qui? Per quelle maledette lacrime?
È tutto un errore.
Io lo sono.
Sto per andarmene quando una voce delicata sopraggiunge delicata dall'interfono. «Sì, chi è?» dice soltanto.
Le mie gambe si impalano e il corpo si irrigidisce. Ho la gola secca, la testa pesante e la vista appannata.
Calmati Yala, non ora.
Non qui.
Respira. Respira. Respira.
«C'è qualcuno?» ripete. «Yala, sei tu?»
A quel punto il cuore comincia a pompare così forte da mandarmi i ricettori del cervello in frantumi.
Stringo con veemenza i lembi dello zainetto, afferro in un pugno un pezzo del maglione color senape e lo stropiccio con forza.
Voglio solo afferrare quel piccolo organo che non la smette di battere.
«So che sei tu, lo sento da come respiri. Cerca di stare calma e ascolta la mia voce. Sto scendendo, tu aspettami lì.»
Ma le sue parole sopraggiungono disturbate alle mie orecchie.
Non riesco a controllare le mie azioni.
Mi mordo le labbra con i denti e il sangue comincia a colarmi in gola.
In fretta sfilo il cartoncino che un tempo era bianco e ora non più: una grossa lacrima racchiude le mie vere paure e un dolore che in pochi riescono a vedere.
Ma la dottoressa Stewart sì.
Lei è sempre stata brava in questo.
Allora decido di lasciarlo lì, ai piedi della grossa vetrata bianca.
Ancora una volta le emozioni prevaricano su di me.
E prima di rendermene conto per davvero, scappo nuovamente da me stessa.
Quando riaprii gli occhi notai la figura slanciata di Lucy arrancare verso di me. Probabilmente aveva appena finito di correre considerato il fiatone che la accompagnava nei movimenti.
«Scusa per il ritardo, ma Gomez non la smetteva di parlare. Tra poco meno di un mese ci sarà una mostra al Museum of Art, parteciperanno gli studenti più lodevoli delle scuole di New Orleans. Il professore crede che io sia una delle studentesse migliori del nostro istituto. Non è fantastico?» gonfiò le guance estasiata.
Distolse lo sguardo da me e inserì le chiavi nella serratura malandata della macchina.
«Ma è meraviglioso, Lucy! Cosa devi rappresentare?» le domandai col tentativo di fare conversazione.
Non potevo rovinarle quel momento.
Mi sforzai di cancellare il ricordo spiacevole di quel bacio e mi accomodai sul sedile del passeggero.
«Un quadro astratto che combini amore, sofferenza e lotta. Potrebbe trattarsi di una buona opportunità per il college considerando la presenza dei migliori critici d'arte.»
A quel punto la osservai meglio.
Un sorriso sincero e genuino le incorniciava un viso pulito e fresco.
«Hai già in mente qualche idea?»
«Non ancora. Non è così semplice, purtroppo. Ci vorranno molte notti insonne prima di tirare giù qualche schizzo» ridacchiò.
Annuii e riportai l'attenzione sulla strada, stavolta gremita di persone vestite in abiti succinti e colorati. Lo schiamazzo popolare si mescolava alle note di alcune canzoni che si udivano poco lontano.
«Cos'è tutto questo chiasso?» chiesi meravigliata.
«Non te ne hanno parlato?»
Scossi la testa.
«Beh, dopo l'Epifania inizia la stagione del Carnevale di New Orleans. Vedrai carri festanti, uomini e donne in costume, ma ciò che lo rende unico sono le sfilate delle crew. Questi ballerini si esibiscono sfoderando i colori tradizionali della parata ovvero il porpora, l'oro e il verde. Sai, le vie si affollano per la maggioranza da turisti» proruppe.
«È un evento davvero importante per la nostra cittadina.»
«Perché tra tutti scelgono proprio questi colori?»
«Si dice siano stati scelti dal Duca di Russia durante la sua visita a New Orleans. Ne associò il significato della giustizia, del potere e della fede.»
Assimilai le sue parole, mentre che parcheggiava la Ford nel mio vialetto.
Notai l'assenza dell'auto di mia madre.
Doveva già trovarsi in ospedale.
Allora, uscii dalla macchina. L'aria era fredda e il cielo era popolato dalle nuvole.
«Che sbadata: ho dimenticato la cartella sul sedile.»
«L'importante è che non l'hai lasciata a scuola» ridacchiai.
A quel punto avevo già inserito la chiave nella toppa quando un piccolo pezzo di carta, che sporgeva da una delle piante sulla veranda, catturò la mia attenzione.
Con titubanza lo afferrai e constatai che si trattava di tutt'altro.
No, non può essere.
Di nuovo quel pacchetto.
«Qualcosa non va, Yala?»
«Ehm, no, tranquilla. Ero solo soprappensiero» lo afferrai e lo nascosi dentro lo zaino. «Dai su, entriamo. Qui fuori si gela!»
«Hai ragione! D'altronde, dobbiamo sbrigarci se vogliamo evitare una scenata da parte di Josh.»
Dannazione, l'avevo dimenticato.
In quel momento sperai solo che la serata finisse al più presto.
Il profumo nell'aria era davvero gradevole. Lucy aveva insistito nello scegliere cosa avrei indossato ed era stata brava a domare i miei capelli lisci, che quel pomeriggio somigliavano a degli ammassi di paglia.
«Non credi sia... inadatto?» domandai osservandomi il vestiario con una punta di vergogna.
Rivolsi, poi, un'occhiata rapida allo zaino.
Non potevo negare il senso di inquietudine che mi scaturiva.
Perché qualcuno si divertiva a tormentarmi?
«Sentiamo, signorina», mi squadrò, «Perché sarebbe inadatto?»
Analizzai il pantalone nero a vita alta che fasciava alla perfezione le mie curve e il top bianco merlettato che lasciava scoperto un filo di pancia. «I-io credo di sentirmi troppo... esposta!»
«Sei davvero esagerata» ridacchiò. «Guardati, Yala: sei bellissima. Ricordati che sei un'adolescente e non una donna in pensione!»
Lucy aveva ragione.
Indugiai ancora per un po' sulla mia figura. Il viso era truccato a malapena e i capelli erano stati raccolti in una coda alta: mi sentivo... bella.
Anche lei lo era.
Aveva preso dal mio armadio un pantalone grigio a zampa di elefante e un top nero con le maniche trasparenti. I capelli nocciola le ricadevano in delle morbide onde e aveva scelto di truccare gli occhi con del mascara.
A riscuotermi, poi, fu il suono di un clacson e un messaggio da parte di Josh in cui mi diceva di essere arrivato.
«Sarà meglio andare. Inizia a scendere, ti raggiungo subito.»
Lucy annuì, afferrò una giacca di jeans e si dileguò lasciando nella camera un profumo fruttato.
A quel punto, quando nella stanza c'eravamo solo io e il mio respiro smorzato, mi affrettai ad aprire il pacchetto.
Le mani sudaticce incominciavano a tremarmi.
Con difficoltà strappai i lembi della carta, era più rigida rispetto all'altra.
Quando finalmente ci riuscii rimasi stupita dal suo contenuto: al suo interno c'era un piccolo ciondolo a forma di chiave musicale.
Stavolta, nella busta, non c'era alcun biglietto.
La cosa non mi piace affatto.
Qualcuno stava giocando a farmi uno scherzo di cattivo gusto.
Confusa lo appoggiai sulla scrivania, presi al volo una giacca di pelle e scesi al piano di sotto dove ci trovai Lucy ad aspettarmi.
«Sei pronta?»
No, non lo sono.
Annuii mostrandomi convinta.
Andrà tutto bene, Priyala.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro