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New Orleans

«L'arcobaleno si forma quando i raggi solari di luce bianca incontrano le goccioline d'acqua sospese in aria. I due colori che non vedremo mai sono il bianco e il nero.
D'altronde, proprio come in questo caso, non sapremmo accorgerci del dolore di un corpo dotato di anima propria.»

Dalla finestra semiaperta il venticello solleticava la chioma vaporosa e arruffata. Il collo straziato dalla notte pulsava a ogni minimo movimento. Rintuzzai una smorfia di dolore stritolando il labbro tra i denti. Strizzai un occhio e mi concentrai sui primi segni dell'alba. Il manto arancione erano adornato da sfumature grigiastre per la presenza di qualche nuvola. Spostai poi lo sguardo sui vestiti incollati al corpo ma l'emicrania non mi facilitava il compito.
L'orologio segnava poco meno alle sei ero sicura che una doccia calda mi avrebbe aiutato a rilassare la muscolatura rigida.
Controvoglia mi alzai sgranchendo le cosce pesanti. Abbassai la maniglia, dal corridoio proveniva un silenzio angosciante. Guardai per l'ultima volta quella che un tempo era la mia casa. Sfiorai con l'indice una piccola crepa che conduceva alla porta del bagno. Me la ricordavo, troppo piccola e indifesa per fare qualsiasi cosa. I cocci che venivano scagliati con brutalità contro la parete fin troppo nuda, senza alcuna foto che ci ritraesse.
Era sempre stata semplice nel suo stile tipico americano. Piccola ma accogliente se non fosse stato per il fatto che era maledettamente gelida e non a causa di un malfunzionamento termico. Era di un freddo indelebile che si stagliava nelle viscere tanto da provocare dei tagli profondi e impossibili da guarire.
Cercai di riappropriarmi di una forza tale da affrontare al meglio la giornata.

~•~•~•~•~

Il viaggio verso l'aeroporto fu tranquillo e silenzioso. Quello di Jackson era il principale e il più affollato di tutta Atlanta. Mi strinsi nella felpa domando i brividi sulla mia pelle. Seppure fosse ottobre il clima della Georgia era piuttosto gelido.
Ci avviammo verso l'interno e ad accoglierci fu una voce gracchiata.

"Il gate 309 con partenza per New Orleans decollerà con un ritardo di tre ore a causa di un guasto al motore. Informiamo i passeggeri che la squadra tecnica è intervenuta per un rapido ripristino del danno. Ci scusiamo per l'attesa. Auguriamo a tutti una splendida giornata."

Risuonava nell'interfono.

La fortuna, come al solito, era dalla mia parte.

«Vuoi mangiare qualcosa nel frattempo?» chiese mia madre adocchiando una toasteria non troppo distante dalla biglietteria.

Ora che lo osservavo meglio dava l'impressione di un mini-centro commerciale. Mi incantai a guardare un negozio di articoli casalinghi decorato con ghirlande e perline colorate.
Era semplicemente inusuale.
Il locale da lei indicatomi era molto grazioso: i tavolini rustici erano posizionati al centro, racchiusi da alcuni paraventi fiorati. Delle ragazze vestite con una divisa nera entravano e uscivano a una velocità inaudita.
Annuii distratta da alcuni passanti che mangiucchiavano con poca eleganza delle brioche lasciando una scia di briciole lungo i loro piedi.
Mi riscossi ordinando un sandwich con lattuga, pomodoro e salsa tonnata e una porzione di patatine con doppio cheddar e bacon.
Sentii lo stomaco ringraziarmi per la quantità di cibo che gli finiva dentro.
Presi un profondo respiro inserendo le cuffie nel jack del telefono. Azzerai ogni cosa, tutto intorno tacque, a differenza di una bambina che canticchiava tra le mura della sua stanza.

Dopo quelle che sembravano delle ore interminabili una mano picchiettò sulla mia spalla, dovevo essermi addormentata.
Mi asciugai con il palmo il segno della sbavatura.

«Hanno annunciato la partenza, tieni», allungò un biglietto verso di me, «Siederò a un paio di file dietro.»

Ci avviammo verso il check-in e in seguito al solito controllo di routine salimmo sul volo. La signora di fianco mi accennò un sorriso forzato. Dedussi che non voleva avere scocciature, almeno non mi sarei sforzata di fare conversazione. Per la seconda volta ripescai il cellulare che avevo gettato con poca grazia nello zainetto.
Chiusi gli occhi e stavolta vidi una ragazzina tessere la tela di un pittore.

Ancora una volta la spalla fu indolenzita dal tocco di una mano poco graziata. Strizzai gli occhi, uno sguardo inviperito fu tutto ciò che vidi.

«Signorina non sente che siamo
arrivate?» corrugò la fronte, aveva un accento olandese.
«Non ho tempo da perdere, grazie» mi spostò con poca eleganza le ginocchia dal sedile.

Le rifilai un'occhiataccia e mentre si allontanava fece fluttuare il vestito color pesca e i sinuosi capelli castani.
Poi, il profumo morbido e delicato di mia madre mi solleticò il naso.
Non appena la intercettai mi fece cenno di seguirla.

Il sole picchiava cocentemente sull'asfalto, le temperature erano più alte.
Sfilai la felpa e con un elastico, che portavo sempre al braccio, legai i lunghi capelli in una crocchia disordinata. Ci incamminammo per recuperare i nostri bagagli. Le persone si spostavano freneticamente da una parte all'altra senza alcun tipo di criterio. Nell'aria risuonavano i pianti isterici dei bambini esausti dal viaggio e le grida delle loro madri.

«Yala hai intenzione di restare lì per il resto della giornata?» strillò con voce fastidiosa mentre la osservai aiutare il tassista a sistemare le valige nel portabagagli.
Sulla sua pelle erano evidenti i segni della vecchiaia, mi rivolse un'occhiata attraverso le lenti rotonde, regalandomi un sorriso caldo e affettuoso.
Mi sbrigai e mi accomodai sul sedile posteriore.

L'auto si fermò nei pressi di una villetta.
Il quartiere era molto vezzoso, le case gemellate erano distanziate ognuna dal proprio sterrato. Le caducifoglie, con la folta chioma, delineavano il lungo marciapiede ricoperto dalle foglioline. Era affascinate il modo di come la natura ci regalava lo studio di ogni evento che le interessava. Infatti, in autunno, non tutti conoscevano il fenomeno dell'abscissione delle foglie, ovvero, il nome tecnico della loro caduta dai rami. Si trattava di un meccanismo di difesa: il gelo invernale, difatti, distruggerebbe le loro cellule facendole marcire, creando danni seri alle piante.
Le ore di botanica davano i loro frutti.

«Tesoro... aiutami a disfare gli scatoloni» urlò per farsi sentire.

Sull'asfalto erano freschi i segni delle gomme e del taxi non c'era alcuna traccia.

Notai l'assenza delle recinzioni quindi con passo svelto mi avviai verso il porticato. Sulla veranda una panca, anch'essa di legno, era foderata con un tessuto bianco che spiccava tra i cuscinetti aranciati. Veniva solleticata dal venticello che accompagnava il fogliame in una danza leggiadria. Dal giardino, curato con attenzione, sporgeva una piccola piscina interrata con delle sedie a sdraio.
I miei passi ruppero quel silenzio grazioso sovrastandone il canto degli uccellini impauriti.
Varcai la porta socchiusa.
Il salone era davvero molto accogliente. Il colore perla delle mura si abbinava egregiamente alla mobilia crema chiaro e alla moquette grigia satinata. Il caminetto era posizionato di fronte al divano beige; alle sue spalle la cucina in legno, con una penisola al centro, occupava gran parte della sala.
Dalle ampie vetrate i fasci di luce la illuminavano riscaldandola con amore. Dal corridoio delle scale rivestite con della moquette chiara conducevano al piano superiore dove prendevano vita due camere da letto, un ripostiglio e un bagno.
Aprii la porta della mia nuova camera.
Le pareti rosa antico decorate con fantasie bianche risaltavano la bellezza della stanza. Un letto di una piazza e mezza occupava lo spazio centrale e un tappeto di pelliccia bianco era posizionato, al lato sinistro, ai piedi di un comodino dello stesso colore. Di lato a una piccola scrivania, anch'essa grigia, era incastonato un armadio a muro. Da un'altra bussola aperta si intravedevano delle mattonelle azzurro chiaro. Un ponderoso lavandino bianco era colpito con violenza dalla luce che penetrava dal piccolo lucernario: gli occhi si rallegrarono alla vista della vasca.
Uscii dirigendomi verso l'ampia vetrata che conduceva a un piccolo balcone. La spalancai, chiusi gli occhi assaporando il profumo dell'aria pulita.
In Georgia il cielo era per la maggior parte plumbeo e triste.

«Come ti sembra?» fece capolinea mia madre sedendosi sul letto.

Mi osservò accuratamente mentre ero ancora lì a osservare il cielo limpido.

«È davvero... bella» risposi non riuscendo a trovare ulteriori aggettivi per descrivere tale meraviglia.

«Sono contenta che ti piaccia» emise un sospiro di sollievo.

«Yala... ti ho iscritta alla New High School. Richard mi ha assicurata che si tratti di una delle migliori scuole nella zona» si avvicinò poggiandosi contro la parete.

«Dovranno comunicarmi anche gli orari. Purtroppo, sarò spesso fuori per il lavoro» disse dopo un attimo di silenzio con tono di rammarico.

Annuii col capo senza risponderle.
Ci ero abituata, quando ero piccola per la maggior parte delle volte cercavo di non addormentarmi pur di aspettarla.
Ma la stanchezza gravava finiva per gravare sulla mia tenera età.
Il campanello pose fine a quel mutismo.

«Oh, deve essere il fattorino. Scendi... ho ordinato le pizze» si dileguò in fretta sparendo dalla stanza.

E io mi ritrovai ad annuire, per la seconda volta, a me stessa.

Il resto della serata trascorse in modo tranquillo. Mi strinsi nella coperta permettendo al vento di freddarmi lievemente la pelle.
Di sera la temperatura era più fredda e questo lo rendeva strano.
Serrai tra le mani la tazza di cioccolata fumante mentre fissavo il cielo stellato: la notte qui era più scura, intensa.
Il buio era capace di ingoiarti l'anima senza chiederti il permesso. Il cinguettio degli uccelli era sostituito dal canto delle civette mentre dalla strada tutto taceva.
I lampioni illuminavano il quartiere rendendolo tetro.

«Sarà meglio entrare. È stata una giornata stressante... buonanotte, Yala» si avvicinò regalandomi un bacio umido sulla fronte.

Non lo faceva da quando ero piccola, cercai di nascondere il mio imbarazzo. La salutai con un cenno della mano ritrovandomi, poi, da sola.

Andrà tutto bene Priyala, dico a me stessa.

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