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Nel Ricordo Di Una Foto

«L'uomo si ancora a un bene terreno.
Uno spiraglio di luce in un giorno in tempesta.
Nutre speranza, e un desiderio vano e inconsistente.
Ma, allora, si può vivere di sogni?»

«Mi racconti un'altra fiaba?» sbadiglio appena stringendo l'orsacchiotto tra le mie braccia.
Lui volge il suo sguardo altrove, come perso nei ricordi. Poi finalmente li punta, quei cristalli che amo tanto nei miei.
Tuttavia, stavolta, non luccicano come le altre volte.
Annuisce abbozzando un sorriso.
«C'era una volta una mamma farfalla che depose delle uova dalle quali nacque un piccolo bruco verde; aveva tanta fame da iniziare a mangiare moltissime foglie, voleva diventare grosso e paffuto. Era, però, un po' fanatico. Incominciò, a quel punto, la trasformazione del simpatico brucone. Prima bozzolo, poi crisalide e infine mutò in una bellissima farfalla dal manto colorato!» mi carezza delicatamente la testa sporgendosi più vicino al mio corpo.
«Ma io volevo ascoltare quella di Cenerentola!» metto il broncio, a differenza di
papà che ridacchia con sincerità.
A un tratto delle grida e un frastuono proveniente dal piano di sotto catturano la nostra tranquillità. «La mamma è di nuovo triste?» le palpebre gravano sempre di più.
Non voglio addormentarmi, non ancora.
Lui nega con la testa, e si abbassa all'altezza del mio viso.
«Qualsiasi cosa accada resta fedele ai tuoi sogni, sono sicuro che ti trasformerai in una farfalla meravigliosa. Se le cose andranno controcorrente cercherai in tutti i modi di non perdere la strada. Ti voglio bene mia piccola stella.»
Mi lascia una carezza sulle guance delicate.
Un movimento d'aria rabbrividisce il mio corpo, gli occhi si uniscono senza darmi l'opportunità di lottare.
Voglio vederti ancora, penso.
Tutto ciò che sento, però, è la chiusura appena percettibile della porta di legno.
Stavolta ci sono solo io avvolta dal silenzio.

~•~•~•~•~

I primi raggi del sole filtravano tra le pareti magenta. Invano cercai di sgranchirmi le ossa. Il vestito appiccicato al corpo non mi facilitava i movimenti. Gli occhi bruciavano e la testa pulsava senza darmi pace. Scostai delicatamente il braccio di Lucy, poggiai un piede per terra col tentativo di non fare rumore. Il letto scricchiolava a ogni minima movenza.
Mi persi nei segni dell'alba, mia madre sarebbe dovuta rincasare nel pomeriggio.
Controllai se ci fossero eventuali chiamate perse o messaggi ma il display non segnava alcuna notifica. Sospirai gettandolo sulla scrivania color miele. Una pila di libri era sparsa senza un ordine preciso. Per essere spoglia era maniacalmente composta. Il letto singolo copriva lo spazio centrale, mentre ai piedi del piccolo armadio un tappeto rosa sorreggeva il peso di un orsetto gigante. Da uno specchio accanto erano disposte con ordine delle foto.
Ne presi tra le mani una un po' ingiallita.
Una ragazza dai capelli neri e dagli occhi di ghiaccio stringeva un'altra poco più piccola.
I lineamenti erano delicati e meravigliosi; somigliava, quasi, alla dea della neve. I suoi colori si mescolavano alla perfezione con quelli di Lucy. Con cura la rimisi al suo posto. Cercai di studiarne altre ma fui distratta dal cigolio del letto. Mi girai a osservare la ragazza distesa sgranchirsi le braccia. Con sguardo perplesso fissò prima il mio vestito e infine il mio viso. Probabilmente la mia faccia potrebbe essere paragonata a un panda in gestazione.

«Non ricordo assolutamente nulla ma... sono felice di trovarti qui.»
Si massaggiò una tempia a causa delle fitte estenuanti.
Si piegò districando la maniglia malmessa del comodino. Con poca forza si mise una pasticca tra le labbra e la ingoiò aiutandosi con dell'acqua.

«Mi dispiace per le tue occhiaie!» si mortificò alzandosi o almeno ci avrebbe provato se un capogiro non glielo avesse impedito; costringendola a rimettersi dov'era.

«La porta d'ingresso era aperta» sviai volgendo lo sguardo verso il cielo.

La finestra, ora libera dalle sbarre che la circondavano, rifletteva una massa grigia e scura. Le nuvole delimitavano egregiamente l'aria e il vento le faceva muovere a un ritmo costante.
Giocavano a rincorrersi l'una con l'altra.

«Oh beh, sono sicura che da un giorno all'altro avremo degli ospiti a cena...» ridacchiò aizzandosi lentamente.
«Dylan è convinto sia un quartiere sicuro: la lascia sempre aperta quando vede che non sono ancora rientrata» fece spallucce.

Vorrei chiederle altro ma mi limitai ad annuire.

Potrei essere l'ultima persona che potrebbe dare consigli.

Ero troppo incasinata.
Troppo distrutta.
Troppo apatica.

Un lieve venticello soffiò appena da sotto il margine della finestra. Era piuttosto vecchia per il tipo di arredo: antico e usurato.
Mi era sempre piaciuto il loro odore, mi ricordava tanto quello di una casa piccola e intima, magari con un bel caminetto che si prendeva cura del tuo corpo.

«Dovresti fare una doccia. È il minimo che possa chiederti per scusarmi del tuo aspetto» bofonchiò armeggiando nell'armadio in cerca di qualcosa.
Ero così concentrata a immaginarmi in un turbine di amore e calore che non mi resi conto della scia del suo profumo: nonostante la sbronza odorava di vaniglia.

«Non è necessario... sarò presto di ritorno a casa...»

«Ti prego, Yala. Resta per pranzo, ti prometto che dopo sarai libera!» mi rivolse uno sguardo cupo e perso.
Sembrava che una lacrima le avesse rigato la guancia arrossata.

Non potei fare altro che annuire.
Lucy mi passò dei vestiti che profumavano di Ibisco: un misto di vaniglia dalle sfumature raffinate. Sorrise mostrandomi la strada per il bagno, era esattamente come l'avevo lasciato: in ordine e vuoto.

«Prenditi tutto il tempo che vuoi.»

Mi incoraggiò richiudendosi la porta alle spalle, lasciandomi poi sola.

Le piastrelle azzurre risaltavano la moquette grigio chiaro.
Era piccolo come ambiente, a stento c'era lo spazio per muoversi.
Mi appoggiai contro la superfice fredda del lavabo. Lo specchio rifletteva un aspetto orribile; due occhiaie violacee decoravano gli occhi arrossati dal trucco sbavato, e i capelli arruffati non si districavano a causa della cera. Mi passai frettolosamente una mano sulle linee nere, somigliavano tanto ai tagli del mio cuore. Distolsi rapidamente lo sguardo e mi infilai al di sotto del getto di acqua calda. Una nuvoletta di vapore cinse la pelle nuda in preda ai brividi. L'acqua scivolava graffiandomi il corpo senza farmi male. Il cuore minacciava di fuoriuscire dallo sterno; più pulsava e più la vista si appannava. Con le mani tremanti strinsi il petto in un pugno: volevo strapparlo, ricucirlo e infine rimetterlo al suo posto.
Chiusi gli occhi giocando con il respiro.

Devi concentrati sull'ascolto del tuo corpo. Cerca di inspirare ed espirare normalmente; focalizzati su una frase e buttala fuori. È tutta una questione mentale, giochi una partita dove il tuo cervello è il mazziere e tu una giocatrice alle prime armi: scegli di vincere o perdere?

Ricordavo ancora le parole della mia psicologa, da allora mi ero sempre iterata la stessa cosa: andrà tutto bene.
Ancora una volta ascoltai la potenza del mio corpo, i muscoli tesi a poco a poco si rilassarono e il battito ritornò alla normalità. Mi liberai dei pensieri lavando via i segni sulla mia figura. Con un aspetto ripulito mi armai della forza necessaria per camuffare l'agonia dietro a un sorriso finto. Mi guardai un'ultima volta prima di abbassare la maniglia e dirigermi verso la cucina: un profumo dolce di soffritto costrinse lo stomaco a lamentarsi. Percorsi il corridoio e man mano si diffondevano delle voci via via più nitide.

«Chi è stato a fartelo?» chiese lei con voce incrinata.

Mi sporsi appena cercando di capire chi fosse l'altra persona. Un ragazzo dai capelli neri piantava due occhi come la neve verso Lucy. Era vestito totalmente di nero se non fosse per il colletto bianco della polo che sbucava dal maglione. Nonostante fosse seduto su uno sgabello era più alto di lei di qualche centimetro. Sul viso perfetto; un taglio rosso e profondo gli baciava il labbro a differenza della guancia, ove era appena evidente un livido nero-violaceo. Il fisico asciutto e tonico sembrava scolpirlo in tutta la sua bellezza. Socchiusi appena lo sguardo per focalizzarlo meglio, era identico alla ragazza della fotografia.

«Santo cielo Dylan... hai ripreso con quella merda?»
Gli tamponò la ferita con dell'ovatta imbrattata di disinfettante.

Come bruciato, si scostò reprimendo una smorfia di dolore. I suoi occhi saettarono sul pavimento di legno. Sembrava assorto dai pensieri, finché Lucy non riportò la sua attenzione verso di lei.

«Avevo delle questioni in sospeso. È tutto risolto, puoi stare tranquilla» abbozzò un sorriso forzato.

«Lo capisci che sei tutto quello che ho?» fece una breve pausa, gli occhi le si riempirono di lacrime.

«Non voglio perdere anche te, dannazione. Non farlo mai più!» gli cinse il collo tra le braccia.
I suoi singhiozzi nascondevano delle grida di dolore.

Mi chiesi, allora, se nel silenzio si potesse trovare il significato della lotta tra il bene e il male, di quello che riponevi dentro di te: proprio come i vestiti ordinati in una valigia.

A un tratto qualcosa strusciò sulla mia caviglia.

Sussultai per lo spavento alla vista di una massa di pelo, piccola e gracile: un Chihuahua bianco, con al collo un collarino rosa, alitava verso la mia gamba. Gli occhi dei due si calamitarono su di me. Lucy si affrettò ad azzerare le loro distanze e mi osservò con un velo di preoccupazione.

«Io... non sapevo avessi un cane» mi grattai la nuca imbarazzata.

Lei si avvicinò abbassandosi alla sua altezza.

«Lei è Ariel: un connubio perfetto tra angelo e demone...Ahia!» si massaggiò la mano staccandosi dalla sua presa.
Come ripresa da un gesto cattivo se ne andò scodinzolando.

Velocemente passò lo sguardo tra me e il ragazzo seduto che mi osservava senza alcun tipo di emozione.

«Yala...lui è mio fratello Dylan, noi...» si voltò verso di lui torturandosi le dita.

«Abbiamo preparato il ragù alla bolognese, spero ti piaccia: avendo origini italiane lo amiamo tanto.
D'altronde, Dylan non è niente male in cucina.»

Il fratello le regalò un buffetto sulla spalla facendola ridacchiare e si alzò venendomi incontro.
«È un vero piacere conoscerti, Yala» lasciò lo stampo di un bacio sulla mia mano.

Istintivamente la ritrassi arrossendo.

Rise schioccando un bacio sulla guancia di Lucy.

«Vai via così presto?»

«Il lavoro mi chiama sorellina!» si infilò il cappotto; afferrò il suo pranzo e dopo un saluto sbrigativo, se ne andò lasciandosi dietro una scia di profumo di pino bagnato.
Era leggermente forte e aspro.

«È spesso fuori per lavoro... per fortuna non lo spediranno più in missione» si rallegrò.

Mi allungò la porzione di pasta; il profumo di cipolla era delicato e speziato al punto giusto.

«Era un Marines?» chiesi ingoiando un boccone.

Annuì pulendosi la bocca con uno strofinaccio.

«È stato per un anno in Afghanistan, la chiamavano missione suicida. Per mesi non ho avuto sue notizie, pensavo fosse stato rapito o addirittura ucciso» si rammaricò.

«Poi un giorno finalmente il cellulare squillò, ero in preda all'euforia la stessa che vacillò non appena ascoltai la voce del tenente Calligan:
"Suo fratello è in stato di infermità fisica, ha subito un'operazione alla gamba a seguito di una ferita da arma da fuoco, sono sicuro che capirà quanto sia stato un ottimo soldato. Le assicuriamo al più presto il suo ritorno a casa" ricordavo ogni sillaba di quella frase.
Per Dylan l'esercito rappresentava la salvezza, voleva fare del bene per le persone. Me lo diceva anche quando, stretta tra le sue braccia all'aeroporto, cercavo di dissuaderlo. Col tempo, però, ha accettato di essere semplicemente un agente di pattuglia» sorrise versandosi dell'acqua nel bicchiere.

Era una ragazza semplice e innegabilmente forte.

Nel suo sguardo perso e irraggiungibile ci potrei annegare.

Sembravamo così uguali, sole e distrutte.

«Ma raccontami un po' di te, cosa ti ha spinto a trasferirti nello stato della
Louisiana?»

L'agitazione prese nuovamente possesso delle cellule del mio corpo.
Parlare della mia famiglia non era mai stato semplice.
Cercai di mantenere la lucidità abbozzando un mezzo sorriso.

«Mia madre è il caporeparto del Tulane Medical Center. Ha ottenuto il trasferimento solo da un paio di mesi, e in pratica vive di più in quella struttura che a casa» feci spallucce.

«E tuo padre?» chiese appoggiandosi con i gomiti alla superfice del tavolo in marmo bianco.

Le gambe divennero di colpo mollicce, sarei cascata da un momento all'altro se non ci fosse stata la sedia a sostenermi.
Non avevo mai parlato a qualcuno di John, non avevo mai parlato di lui e basta.
Nemmeno con la mia psicologa che favellava mentre appuntava, con la stilo nero, le poche frasi sconnesse su quel dannato foglio bianco.
Mio padre per me non era una paura, bensì il mostro di me stessa.
Non mi accorsi di una mano calda stringere a malapena la mia fredda e irrigidita.

«Va tutto bene, Yala. Ascolta la mia voce, respira gradualmente!»

Ascoltai il suo timbro delicato, lentamente aprii gli occhi, non mi ero accorta di averli chiusi.

«Esattamente, ora premi le dita a intervalli lenti e regolari, guarda le piante dei piedi per terra.»

Cercai di ascoltare la sua voce calda.
I suoi occhi non mi lasciarono e il suo sorriso mi accompagnò nelle respirazioni. Piano piano acquistai la padronanza dei miei sensi riuscendo a fare ciò che mi era stato indicato. Finalmente riuscii a ritrovare un contatto con la realtà, rilassai la muscolatura e mi concessi una pausa dal digrignare.

«Grazie, io...» la voce mi uscì smorzata, mandai giù un groppo di saliva concentrandomi nuovamente sulla figura al mio fianco.

«Come hai imparato a farlo?»

«La chiamano la tecnica dell'ancoraggio. Durante un attacco di panico devi essere brava a riportare l'attenzione sul presente. Devi focalizzarti sulle parti del corpo coinvolte. Questi movimenti ci aiutano ad ascoltare le nostre sensazioni e a ripristinare il controllo. Avevo dieci anni quando il dottor Harley riuscì a insegnarmela» sorrise, fece un respiro profondo continuando a parlare.

«Consideravo la mia una bella famiglia, mi piaceva trascorrere la maggior parte del tempo a casa. Giocavo quasi sempre con i miei fratelli, la mamma ci sorrideva dalla cucina mentre sfornava i nostri biscotti preferiti con mio padre che la stringeva teneramente tra le sue braccia. A volte mi sembra di sentirlo ancora, sai?» sospirò appena.

«Erano molto innamorati, si conobbero ai tempi del collage. Mia madre era una ragazza meravigliosa, con lo sguardo di ghiaccio e i capelli scuri come la notte era in grado di ammaliare qualsiasi persona volesse. Aveva un carattere testardo ma tenero, era una veterinaria: amava ogni essere vivente, persino quello più raccapricciante. Mio padre, un ragazzo dagli occhi e dai capelli uguali alla nocciola, era un architetto brillante. La maggior parte delle costruzioni in città sono opera sua, della Brown's corporations» spiegò fiera con gli occhi lucidi.

Osservò per un attimo la casa vuota riportando ancora una volta l'attenzione su di me.

«Per me, mio padre, era come un eroe dei fumetti: quelli che ne leggi con amore senza stancarti mai. Ricordo che non faceva ritorno senza un regalo, anche banale. Oh, alla mamma si coloravano le gote di rosso, non voleva che ci viziasse. Alla fine, però, si arrendeva con un sorriso» ridacchiò con una punta di angoscia.

«Poi un giorno papà cadde inerme ai nostri piedi. Il tonfo fu deciso tanto da sentirsi dal piano di sopra. All'epoca pensavo si trattasse di uno dei suoi scherzi, quelli che ci faceva per farci ridere. Però, quando gli toccai le mani mi accorsi che erano più fredde delle mie. La mamma mi spostò e lo chiamò più volte senza ottenere risultati. Poi, in un attimo, la casa si riempì di paramedici e barelle, sotto shock li fissai mentre ce lo portavano via.»

Lucy si alzò camminando fino alla finestra.

Guardai il suo profilo perfetto, il nasino alla francese e le labbra carnose. Gli occhi privi di energia si concentravano sull'oscurità del cielo.

«Gli fu diagnosticato un Epatocarcinoma, un tumore causato da uno sviluppo incontrollato delle cellule dei tessuti del fegato. Provarono da prima con la chemioembolizzazione epatica e poi con l'immunoterapia. Mio padre non rispondeva alle cure, a poco a poco il suo corpo mutò e il viso si gonfiò così tanto che a malapena lo si riconosceva. Ma il suo sorriso e la lucentezza negli occhi restarono sempre con lui; anche quando ci sdraiavamo al suo fianco, e ci stringeva delicatamente per non farsi male a causa degli aghi conficcati nella pelle. "Sarò per sempre il vostro angelo custode": ci disse prima di morire. Lasciò un vuoto incolmabile e mia madre si ritrovò da sola a crescerci. Dylan e Charlotte avevano preso da lei, mentre io somigliavo a mio padre. Charlotte... era la mia migliore amica, il mio punto di forza. Aveva un carattere riservato e tagliente, ed era bella.
Di una bellezza rara, ingenua. Poi, come tutte le adolescenti si innamorò di una persona con un cuore di ghiaccio.
Come si può amare un mostro?» rise nervosamente.

Qualcosa nei suoi lineamenti mutò, si torturò la bocca tra i denti e si conficcò con forza le unghie nel palmo.

«Un giorno senza rendermene conto, per la seconda volta, Dio si era preso una persona che amavo. Quella mattina eravamo sole in casa: sentimmo dei frastuoni all'esterno. Non avrei saputo, di certo, che da lì a poco, la mia vita sarebbe cambiata. Poco dopo osservai una pallottola, piccola e veloce, sfondare il vetro e penetrare il petto di mia sorella. Fu rapido come il suo sangue imbrattò le mie braccia e in poco tempo il suo diaframma agonizzante smise di alzarsi. Morì stretta tra le mie mani mentre alle mie orecchie il suono delle sirene sopraggiungeva ovattato.
Col tempo mia madre ha subito un crollo psicofisico. Ora è ricoverata in una delle migliori strutture psichiatriche a Gibsland.»
Mi osservò con le lacrime agli occhi.

«Yala per te esiste veramente un Dio che è in grado di proteggerti?»

Noncurante della mia poca forza mi alzai stringendo il suo corpo tra le braccia.
Era così piccolo e fragile che temevo potessi farle del male.
Dei singhiozzi agitavano il mio cuore, la intrappolai per proteggerla.

Si aggrappò alla mia maglia per non sprofondare.

«Mi dispiace... non volevo che la giornata finisse in questo modo!» disse con un filo di voce incrinata dal pianto.

Sorrisi stringendola ancora di più nella mia presa. Vorrei chiederle di più sulla morte di charlotte e chi fosse quel ragazzo ma decisi di darle del tempo.

Come si poteva amare un mostro?
Non lo so, ma anche i mostri hanno un cuore, no?

A interrompere il silenzio tra di noi fu il suono del mio cellulare. Controvoglia lo afferrai costringendo Lucy a distaccarsi.
Afferrò un fazzoletto e si soffiò il naso.
Risposi al terzo squillo.

"Priyala, ho avuto un intervento più lungo del previsto. Potresti ritirare al JJ's House gli abiti che ho ordinato per il Galà? Mi dispiace, adesso devo andare."

Il bip si diffuse nel mio orecchio.

Ancora una volta nessun segno di interessamento.
Sospirai concentrandomi sulla ragazza che mi stava di fronte. Probabilmente avrà ascoltato ogni parola considerando la voce squillante di mia madre.

«Vorresti accompagnarmi alla boutique?»

Senza farselo ripetere annuì gioiosamente.

Forse per la prima volta acquisii la consapevolezza di aver trovato una persona simile a me.
Qualcuno che fosse in grado di comprendere i miei silenzi, le mie paure.

Sorrisi a me stessa per avercela fatta.

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