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L'inizio

«Non affogare in quello che credi ti schiacci,
schiaccia ciò che ti opprime.»

Era il primo di ottobre; una giornata particolarmente fredda e monotona, come me del resto. Ammirai come la pioggia disegnasse delle splendide righe sulla finestra della mia camera. Nervosamente, afferrai il pacchetto di sigarette portandone una alle labbra: erano così screpolate che a contatto con la cartina le sentii sgretolarsi. La gola iniziava a pizzicare mentre i polmoni si beavano di nicotina. Era strano come un piccolo pezzo di carta contenente del tabacco potesse sprigionare una elevata quantità di tossine: non a caso si irradia nel corpo come un cancro che lentamente mangia ogni cellula, deliziandosi quasi, proprio come una piaga indelebile sulla pelle. Fissai la cicca, spenta e malinconica, depositarsi nel piccolo posacenere sul davanzale ammuffito. Il frastuono prodotto dalle gocce spruzzate con violenza contro il vetro mi costrinse a chiudere gli occhi per un secondo.

Mi ritrovo con le braccia aperte e con il viso rivolto verso l'alto coronato da uno splendido sorriso. Roteo con la stessa intensità di una bambina che scopre per la prima volta il significato di un regalo, magari un semplice pacchettino con la stampa dei suoi animaletti preferiti. Non mi curo dell'acqua che mi bagna. Le nuvole mi coprono in tutta la loro maestosità proprio come degli abiti cuciti su misura per il mio corpo.
Mi sento in pace.

Poi tutto svanì.

Realizzai di ritrovarmi ancora qui tra clacson e palazzi. Del resto, Midtown era un importante distretto residenziale di Atlanta. Le luci accese degli appartamenti illuminavano gli innumerevoli grattacieli in tutta la loro bellezza, sembrava che si abbracciassero a vicenda. Da quel poco che lasciai aperto, nel tentativo di far circolare l'aria, entrò un odore pungente di smog. Storsi il naso reprimendo un senso di nausea. Non amavo la vita di città, preferivo annusare il profumo del terreno bagnato o magari ascoltare il suono grazioso degli uccelli. Emisi un lungo sospiro sbirciando l'ora sull'orologio a forma di gatto. Non ne sapevo il motivo ma la linguetta che fuoriusciva a ogni ora mi strappava un sorriso. Il signor Grage, il vecchietto del quartiere, gestiva un piccolo negozio di animali all'angolo del nostro condominio. Il Pet's Shop era un negozio accogliente dalla tinta verde e gialla. L'insegna del canarino brillava sotto un cielo coperto dal fumo grigio della città.

«Che bella fossetta, mi ricordi tanto Madeline. Oh, quella bestiolina, per poco non mi ha mandato in ospedale» parla della sua gattina di appena tre mesi.

Un angelo baciato dal diavolo... ripeteva, ogni volta che ci entravo, come un automa.

«Guarda che taglio e che unghie, gliel'ho sempre detto a quel fannullone di James di tagliargliele. Ma è ripetutamente impegnato a giocare a quegli stupidi videogiochi» esprime la sua contrarietà verso il nipotino di sette anni. Le sopracciglia bianche si incurvano a ogni espressione mentre con la mano tozza si massaggia la pancia gonfia.

Mi riscossi dai ricordi, tra non molto dovrebbe rincasare mia madre. Oramai eravamo le uniche che restavano di questa piccola casetta: superare l'abbandono da parte di mio padre non era stato semplice.

Dannazione: avevo pur sempre cinque anni!

Aggrottai le sopracciglia al ricordo di Idris, mia madre, una ragazza timida e riservata e di John, mio padre, un ragazzo beffardo dal quale difficilmente puoi scappare tanto da innamorartene, restarne fregata e con il cuore a pezzi.

Inizialmente era presente.

Per quel poco di cui ho memoria ricordo che mi faceva sentire come una tra le bambine più fortunate al mondo. Poi come se nulla fosse, da un giorno all'altro, decise di schioccare le dita e di tagliarci fuori dalla sua vita. Proprio come quando rompi un vaso: è inutile insistere nel rimettere insieme i cocci se sai che non ritorneranno più come prima. Per il resto degli anni si era limitato a pagarci gli alimenti, senza una visita o una telefonata. E da allora, a poco a poco, la mamma divenne apatica. Si isolava tra le mura della sua stanza chiudendosi la porta a chiave. Spesso mi rannicchiavo fuori dalla sua bussola con la speranza che mi facesse entrare e finivo per addormentarmi sul pavimento freddo che a contatto con la mia pelle sembrava tremendamente bollente. I singhiozzi si smorzavano e le lacrime facevano spazio a due occhi esausti e doloranti. Avrei desiderato, nonostante tutto, un semplice abbraccio e che mi avesse sussurrato che sarebbe andato tutto bene. Agognavo all'idea di una madre con cui giocare fino a sfinirci per poi ingozzarci dei nostri biscotti preferiti fino a scoppiare. Ci sono state volte in cui i suoi occhi si riempivano di puro odio: mi disprezzava a tal punto da farmi raggelare il sangue.

Glielo ricordavo troppo, come ora.

Più mi guardavo allo specchio e più vedevo la sua figura al femminile. Una diciottenne complessata con un corpo esile ma con le forme nel punto giusto, secondo il giudizio di mia madre. I capelli neri corvino facevano da cornice a degli occhi verdi con sfumature giallognole contornati da folte ciglia scure. Le labbra erano l'unica cosa che amavo del mio corpo: rosse e carnose.
Un trillo del telefono mi riscosse dai pensieri. Trovai un messaggio da parte di mia madre in cui diceva di volermi parlare a cena.
Chissà di cosa si tratta.
Dopo quella che sembrava essere un'eternità udii sbattere la porta d'ingresso.

«Yala, sono tornata» urlò dal piano di sotto.

Annoiata chiusi la finestra.

Alzai gli occhi al cielo; seppure fosse stata lei a dichiararmi Priyala, non la smetteva di usare il diminutivo. Ero abituata al fatto che molti mi chiamassero Yala o Priya, ma a me piaceva per intero: bizzarro e fuori dal comune. Il tuo bisnonno ha origini indiane, sarebbe fiero di me, mi diceva mentre spazzolava i lunghi capelli che mi ricoprivano il sedere. Un giorno sarai in grado di fare quello per cui porti il nome, chiacchierava a viso sereno nei suoi pochi momenti di lucidità e io non potevo fare altro che starmene lì, raggomitolata tra le sue braccia, a sperare che quel momento non finisse mai.
Fissai per un attimo il mio riflesso.
Avrei voluto truccarmi di una bauta da indossare per il resto della vita. Con una lentezza da far invida a un bradipo scesi le scale. Mi ritrovai davanti una donna minuta fasciata da un camice blu e una frangetta che le delineava perfettamente un viso grazioso e stanco.

«Ciao» la salutai con gesto sbrigativo.

Un cipiglio prese vita sul suo volto.
Dai suoi occhioni azzurri traspariva tristezza e sofferenza, ne erano nitidi i segni sulla sua pelle abbronzata.
Tuttavia, non era riuscita a impedirmi di diventare ciò che io stesso odiavo.

«Potresti anche sforzarti di sorridere per una volta, sai?» sparì in cucina, la sentii adagiare dei sacchetti della spesa sulla mensola di legno.

Mi erano sempre piaciuti, il loro odore mi ricordava tanto quello del muschio. Decisi di restare in silenzio al contrario delle labbra che emisero uno sbuffo sonoro.

Dovevo cercare di mantenere i nervi saldi o avrei perso la pazienza.

«Allora cosa hai di così importante da
dirmi?» sbottai, dopo attimi di silenzio, facendola raddrizzare.

«Perché tanta fretta di saperlo?» sollevò gli angoli della bocca abbozzando un ghigno.

«Riesci a comportarti come una normale donna di trentasette anni e dirmi subito di cosa si tratta?» piagnucolai.

Perché in quel dannato ospedale non le assegnavano i turni ventiquattro ore su ventiquattro? Se si lavorasse di più ci sarebbero meno morti.

«Dai su, tesoro...», fece un profondo respiro,«Ti ricordi di Richard?»

Si voltò a sistemare delle verdure nel frigo completamente vuoto.

A dire il vero c'era soltanto della lattuga e del pollo.

«Il tuo capo? Il Dongiovanni che usa le donne come stracci?»

«Priyala!» tuonò mia madre incenerendomi.
«Non è questo ciò che ti ho insegnato.»

Avrei voluto dirle che erano molte le cose che non mi aveva insegnato.
Ero un cumulo di odio e disprezzo.
Ero irascibile e scontrosa la maggior parte delle volte.
Mi sentivo svuotata della mia stessa anima. Annegavo in un mare in tempesta.
Lottavo con tenacia per mantenermi a galla senza riuscirci.
Sprofondavo, costantemente, in un abisso di non ritorno.

Contrariata appoggiai i palmi sulla superfice di legno. Esercitai una lieve pressione per uscire dal suo sguardo ma fui bloccata dalla sua voce autoritaria.

«Prepara la valigia. Domani il nostro volo per New Orleans parte alle dieci, grazie a Richard diventerò il primario del suo ospedale» disse d'un fiato regalandomi la vista delle sue spalle magre.

Spalancai la bocca ma, poco dopo, la richiusi serrando i denti. Avvertii un intorpidimento alla mascella.

Volevo urlare.

Volevo rompere qualcosa ma mi limitai a ridurre gli occhi in due fessure con l'intento di esprimerle la mia rabbia.

«Congratulazioni Idris, grazie della considerazione!» sfoderai il mio lato peggiore e mi alzai di scatto.

Finalmente uscii da lì, l'aria stava quasi per infliggermi un taglio netto alla giugulare. Salii al piano superiore, mi chiusi in camera sbattendo con violenza la porta alle mie spalle.
New Orleans: una meta del tutto indifferente.
Ciononostante, ero sicura che mi avrebbe fatto bene, almeno non avrei sofferto per nessun tipo di mancanza. I pochi amici che avevo si erano rivelati degli ipocriti che avevano appurato la mia teoria: eravamo delle marionette manipolate con piacimento dal burattinaio e la scuola con tutte quelle maschere ne era l'esempio principale.
Non ero entusiasta né tantomeno delusa.
Qui, in Georgia, ero priva di radici per far crescere degli alberi e non avevo seminato semi per raccoglierne i frutti. Desideravo essere come il sole, che seppure fosse nascosto dalle nuvole, era in grado di filtrare il suo bagliore e come la luna che gagliardamente tesse raggi di saggezza. Avrei voluto avere la forza di un animale e la tenacia di guerriero, entrambi pronti a lottare per il loro onore e per i loro valori.
Desideravo essere tante cose, ma ero semplicemente una piccola macchia dell'universo.

Con il pensiero fisso per domani mi addormentai con la testa poggiata contro la parete dimenticandomi persino di preparare la valigia.

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