Il Galà
«Esiste un filo appena percettibile tra le persone. In molti sanno odiare e in pochi sanno amare.»
Gli eventi non erano un mio forte.
La maggior parte delle volte desideravo vivere nell'ombra, tanto più se si trattavano di quelli dove il cameriere ti serviva caviale e champagne come antipasto.
Le consideravo come una stupida festa, organizzata per dilettare e sfamare delle persone a cui non importava di niente e di nessuno.
Per mia madre, invece, era un modo per aprire la mente al singolo individuo.
Da bambina, quando credevo che le cose andassero per il verso giusto, le chiedevo il motivo dei suoi ritardi: "Uno dei miei sogni, tesoro, è di ridare una speranza a tutti quelli che l'hanno persa" mi sussurrava... raccogliendomi come un piccolo peluche dal pavimento e io finivo per essere stremata dalla stanchezza anche solo per chiederle cosa significasse.
Tuttavia, non si dice che la speranza sia l'ultima a morire?
Forse, la mia, non era mai nata e di conseguenza non aveva una fine.
Le strade di Storyville erano tappezzate da svariati volantini in cui si leggeva: "un tuo contributo salverà una vita domani".
Il JJ'house non era troppo distante dalla piazza e per essere domenica non era molto affollata. Era piuttosto atipico e usuale.
Risultava difficile non notarlo considerando la ponderosa scritta araba glitterata che spiccava tra quelle un po' sbiadite. Lucy mi spiegò, durante il tragitto, che la signora Daher era una ricca ereditiera della città di Rabat; ma sola e stanca della vita decise di studiare moda, seppure in età avanzata, lavorando perlopiù per le grandi compagnie d'Europa. Non appena le porte automatiche ci consentirono l'ingresso una fragranza, opulenta e spirituale, sembrava incantarmi.
Alle pareti miele castagno si abbinavano dei quadri raffiguranti il Marocco. Poco più avanti su una trave di legno bianca illuminata da un neon sottile; sulla quale erano disposte maniacalmente delle borse di Michael Kors, una piccola pallina di pelo bianca con sfumature grigie, si leccava con energia la parte posteriore del dorso.
«As-salamu... sono Jailyne mentre lei è Jane, una persiana di soli due anni: la mia piccola mascotte!» ci salutò una donna con voce delicata.
Era fasciata da un abito seta color perla che le risaltava delle curve minute e sinuose.
Si mosse facendo fluttuare i lunghi capelli neri che profumavano di lavanda. Reggeva tra le mani curate un vassoio ricolmo di biscotti, avanzò verso di noi facendo brillare le décolleté lucide.
«È il mio modo di dare il benvenuto a chiunque sceglie di entrare nel negozio. Questi sono dei fekkas: originari del mio paese. Spero vi piacciano i semi di anice» si inumidì le labbra in un gesto semplice ma voluttuoso.
Con lo sguardo ci invitò a mangiare. Titubante ne presi uno, un misto di sapori esplose nella mia bocca. Una nota di arancio mi pizzicò lievemente le labbra: Lucy, al contrario, sembrava gradirli molto.
«Come posso esservi di aiuto?»
«Ho un ordine da ritirare a nome Neela» le risposi con ancora qualche granello di mandorle conficcato tra i denti.
Non mi meravigliai del fatto che mia madre avesse usato il suo cognome d'altronde se avesse potuto avrebbe cambiato anche il mio.
Poi lo sguardo cadde sulla ragazza al mio fianco: era ammaliante il modo di come si facesse coccolare da Jane che le mostrava con fierezza la pancia rosata.
Sorrisi, sembrava quasi una bambina.
A quel punto, Jailyne annuì mostrandomi uno sguardo attento. Sparì dietro una rientranza ricoperta da una tendina ocra puntellata da alcuni fiori di ibisco. Ritornò poco dopo con due vestiti: blood red e turquoise, si leggevano dalle rispettive etichette.
«Penso che questo valorizzi i tuoi
lineamenti» indicò l'ultimo capo. «Hai mai pensato di fare delle sfilate, tesoro?»
Spinse sul bancone tutto ciò che mia madre aveva richiesto.
Stava anche abbinando delle pochette e décolleté.
Negai con la testa, non mi piacevano quel tipo di cose. Tuttavia, l'unica cosa di cui mi importava realmente qualcosa era il canto: era stato proprio mio padre a trasmettermelo.
Lui era un musicista, spesso in tournée da qualche parte nel mondo, e per me la musica rappresentava: forza, coraggio e ambizione.
«È un vero peccato. Se dovessi cambiare idea, sarei felice di farti sfilare con la mia compagnia» mi porse un biglietto da visita.
«Allora, ragazze, jazakallah Kheir.»
La salutammo confuse dalle ultime parole, mi appuntai di cercarne il significato su internet.
Il cielo aveva lasciato al sole il tempo di riposarsi concedeva, adesso, ai raggi lunari la possibilità di riflettersi sulle strade popolate dalla miriade di macchine che sfrecciano verso tutte le direzioni. Alzai fugacemente lo sguardo, dei nuvoloni mi impedirono di ammirare la bellezza delle stelle. Ne restai delusa e mi riconcentrai nuovamente sui miei passi.
«Per me saresti una modella perfetta... my little angel.»
«Little angel!?» ridacchiai.
«Proprio così» annuì sistemandosi sul sedile. «Gli angeli sono segno della provvidenza di Dio, vegliano sulle persone come una fedele ombra. Tu ne sei un esempio. Ti sei presa cura di me, Yala... non sottovalutarti!» abbozzò un mezzo sorriso prima di concentrarsi sulla guida.
Mi presi il labbro tra i denti stringendolo con forza.
Repressi il dolore voltando la testa verso il finestrino, per un momento pensai che fosse tutto uno sbaglio.
Come posso essere un esempio se mi considero un coccio rotto?
Ci sono oggetti che una volta rotti li puoi aggiustare e altri invece che sono destinati a essere gettati nella pattumiera.
Ed era così che mi sentivo.
Avevo delle crepe che sarebbero rimaste per sempre, come un vaso racconciato con della colla.
Mi riscossi dai pensieri solo quando i miei occhi puntarono la Mustang parcheggiata nel vialetto. Frettolosamente afferrai le mie cose, e salutai Lucy che mi schioccò un bacio sulla guancia. La osservai allontanarsi con le gomme, probabilmente usurate, che stridevano sull'asfalto lievemente bagnato.
Feci un profondo respiro prima di voltarmi. Ero arrabbiata.
Lo ero per mia madre, per mio padre, e per la vita che mi stava tagliando di continuo la pelle messa a nudo.
Con le unghie conficcate nei palmi annaspai verso il porticato.
Il campanello a forma di gufo, comperato in un negozio davvero carino in città, l'avvertì del mio arrivo.
Dalla cucina provenne un forte odore di spezie. Esercitai una piccola pressione sugli abiti che reggevo tra le braccia, se non mi fossi contenuta li avrei sgualciti.
Mi chiesi del motivo della mia presenza al galà. In Georgia era raro che ci partecipassi, a dire il vero ci andai una sola volta: quel giorno piansi per tutto il tempo pur di non restare con Amelie, la mia babysitter.
Ne odiavo l'accento parigino, non faceva altro che parlare al telefono con il suo ragazzo.
«Poggia tutto nel salone, ci penserò dopo a sistemarli. È un evento importante domani... sono felice che tu ci sia» disse risaltando dei bocconcini di pollo con della salsa gialla,
dall'effluvio sembrava si trattasse del curry, sulla sua destra giaceva anche del riso in bianco.
Amava cucinare i piatti tipici della sua tradizione. Infatti, quando ero piccola, mi raccontava come mio nonno fosse diventato uno degli chef più rinominati di Kerala, nonostante il tasso di alfabetizzazione elevato.
Il resto della serata proseguì nel silenzio totale. Mia madre non mi rivolse domande particolari e finii per annuirle la maggior parte delle volte.
Stanca, decisi di rifugiarmi tra le mura della mia stanza.
Aprii leggermente la finestra, il vento solleticò le mani ruvide e screpolate, spesso sanguinanti dal dolore.
Afferrai una sigaretta, era da un po' che non ne toccavo una. Mi concessi la giusta dose di nicotina per calmare i pensieri in subbuglio.
Forse, era proprio questo il problema generale dell'umanità: si pensa troppo, spesso in modo sbagliato e negativo, tanto da privarti della possibilità di diversificati e di sorridere verso quello che la vita sceglie di offrire.
Sospirai appena, gettai la cicca nel posacenere e sperai che una lunga dormita mi avrebbe aiutato a far tacere la mente.
~•~•~•~•~
Dei frastuoni mi costrinsero a stropicciarmi gli occhi secchi e gonfi. Mi stiracchiai il giusto per impedire alle maniche del pigiama di risalire. Faceva particolarmente freddo e quando capii cosa stesse succedendo, mi schiaffeggiai la fronte.
Mi ero addormentata dimenticando la finestra aperta.
Fissai sconcertata dapprima la moquette bagnata e poi le ante che non si davano pace a causa delle raffiche di vento.
Controvoglia mi alzai per richiuderla.
Dalla sveglia sul comodino, che segnava poco meno alle sette, intravidi i fievoli raggi solari. Era una giornata scialba e mesta, ed era arrivato il momento di viverla.
Quella mattina mia madre si agitò più del solito. Non doveva essere semplice cogestire un evento a cui avrebbero preso parte la maggior parte dei cittadini di Storyville.
Da uno dei depliant lessi di una raccolta fondi adibita a finanziare la costruzione di un nuovo centro che avesse come obiettivo il trattare, con nuove cure sperimentali, le malattie rare: come la distrofia muscolare di Duchenne.
Mia madre, poi, si offrì di accompagnarmi a scuola ma rifiutai, sentivo il bisogno di stare da sola.
«Yala, cerca di non fare tardi. Buona giornata, tesoro.»
Urlò il giusto per farsi sentire prima che mi richiudessi la porta alle spalle.
Mi osservai per un secondo i jeans neri strappati alle ginocchia e il maglione rosa confetto.
Sembri la sorellastra di barbie.
Con riluttanza mandai giù un groppo che mi accorsi di aver trattenuto fino a quel momento.
I corridoi della scuola erano sempre troppo affollati e il chiacchiericcio di sottofondo terribilmente snervante.
Intravidi, a un paio di metri da me, lo sguardo riluttante della ragazza che mi aveva fatto cadere i fogli il primo giorno. Scoprii si trattasse di Jennifer Cander: ricca e viziata, nonché la figliastra del preside Anderson.
Chiusi l'armadietto con il codice e mentre mi dirigevo verso il laboratorio di arte, un bip si propagò nell'aria.
«Maledetto interfono, quando decideranno di cambiarlo... ecco, buongiorno ragazzi. Volevo comunicarvi che quest'anno sarà aperto il laboratorio musicale. Come sapete, ci sono degli strumenti abbandonati da un po' di tempo. Ovviamente, vi darà dei crediti extra per l'ammissione al college. Se pensate di essere interessati venite da me per compilare dei moduli di iscrizione, saranno aperte fino alla fine del mese. E ora, continuate a fare quello che stavate facendo!»
La voce squillante di Jessica, la ragazza della segreteria, si volatilizzò in poco tempo.
A quel punto delle immagini ritornavano a galla: le sue mani che riproducevano la sinfonia di Beethoven.
Era bravo, eccome se lo era, probabilmente da piccolo gli saranno state impartite delle lezioni.
Mi chiesi se lo avesse sentito anche lui, non lo si vedeva molto in giro. Senza Lucy al mio fianco sperai che la giornata finisse senza troppi problemi. Per tutto il tempo non feci altro che pensare all'iscrizione. La musica mi piaceva e a livello scolastico, poi, non era così male. Senza pensarci due volte mi recai da Jessica che con un sorriso sulle labbra mi allungò il necessario da compilare.
Sperai solo di non pentirmene.
Il pomeriggio trascorse fin troppo presto. Nell'aria si respirava un'essenza di cocco e cosmetici. Presi da un'anta del mobile delle pinze per capelli e me li spostai il giusto per truccarmi.
Lo specchio rifletteva un viso bianco e inespressivo.
Applicai un po' di crema abbronzante per conferire un leggero colore all'incarnato, disegnai una linea sottile di eye-liner, mi piaceva l'effetto da cerbiatta sul mio viso, e allungai più del solito le ciglia scure.
Terminai il tocco con il gloss alla pesca.
Legai i capelli in una coda alta, nonostante ciò, mi arrivavano quasi alla schiena, e lasciai che dei ciuffi ricadessero morbidi lungo la guancia. Dalle orecchie penzolavano due orecchini sottili e luccicanti. Per ultimo indossai il mio vestito, morbido ed elegante.
La scollatura sulla schiena, ricamata con degli strass, si stringeva verso la punta. Sul davanti, invece, era a malapena visibile una parte di collo. Scendeva delicato lungo i fianchi e dallo spacco non eccessivo ai lati si intravedevano i tacchi neri.
Osservai per qualche istante la mia figura, mi consideravo quasi... bella.
Stavo per afferrare le ultime cose quando mia madre fece il suo ingresso, incredibile dire quanto la sua bellezza fosse disarmante.
Il vestito rosso la fasciava con delicatezza.
Le maniche ricamate lasciavano intravedere il colore della pelle e la scollatura a cuore brillava per la linea sottile di Swarovski.
Aveva raccolto i capelli con del gel cosicché gli ricadessero lungo la schiena.
Il viso, leggermente truccato, la rendeva davvero affascinante.
Sicuro avrebbe fatto effetto sugli uomini.
«Sei... meravigliosa, Yala!» si avvicinò afferrando delicatamente il mio polso.
«Quasi dimenticavo... per l'occasione sono stati già assegnati i posti ai tavoli. Questo è un braccialetto per gli ospiti, qualcuno ne avrà uno uguale al tuo.»
Osservai il cinturino porpora con una rosa rossa di velluto, confusa la sfregai a malapena.
«Perché tu non lo indossi?» notai l'assenza su ambedue i polsi di mia madre.
«A me non serve: sosterrò Richard con i discorsi. Stai tranquilla, la maggior parte dei tavoli sono riservati ai familiari dell'equipe dell'ospedale.»
Controllò l'ora dalla mia sveglia che giaceva con poca grazia sul bordo del comò.
«Il taxi ci sta aspettando, è ora di andare.»
Sorrise prima di lasciarmi da sola.
Spruzzai qualche goccia del profumo a vaniglia e prima di uscire mi concessi una rapida occhiata allo specchio.
Andrà tutto bene Yala: mi ripetei con convinzione.
~•~•~•~•~
Avevano scelto uno dei locali più in voga di New Orleans, il Rizzuto's: si trovava nel West End, non troppo distante dal New Orleans City Park. La strada era particolarmente affollata per questo ci impiegammo un po' di più rispetto all'arrivo previsto dal navigatore.
Quando la corsa finì i piedi doloranti, a causa dei tacchi, toccarono l'erba sintetica.
Era uno dei ristoranti più belli che avessi mai visto. L'ampio vialetto era curato nei minimi dettagli, si notava persino la lucentezza dei fiori. Per l'occasione avevano sfoderato un tappeto rosso illuminato da una serie di faretti che si abbinava al grigio fumo dell'intero edificio. Nell'aria risuonava una leggera sinfonia che si mescolava al chiacchiericcio delle persone.
La maggior parte erano vestiti tutti con abiti eleganti e raffinati. Mia madre mi prese sottobraccio, in silenzio ci avviavamo verso l'interno. Un uomo fasciato da uno smoking blu spento se ne stava in una posizione rigida con le mani strette a coppa: security, c'era scritto sulla targhetta.
Gli mostrai il mio braccialetto e quest'ultimo spostò lo sguardo da me a mia madre, intenta a scrivere il suo nome sul listino.
«Dottoressa Neela, il Dottor Hill la sta aspettando nella sala principale. Quanto a lei signorina, può lasciare tutto alla reception e raggiungere il suo tavolo, ecco a lei il
numero» mi consegnò un disco con scritto tavolo 17.
Annuii raggiungendo mia madre o almeno ci avrei provato se solo non si fosse volatilizzata nel nulla. L'interno era molto intimo e medievale al tempo stesso; dal soffitto pendevano dei lampadari oro ottocenteschi che facevano risplendere le pareti color crema. Alla mia sinistra, un sipario copriva una parte della sala. All'angolo bar c'era della gente ammucchiata; i camerieri facevano fatica a stargli dietro con i vassoi ricolmi di champagne e tartare di caviale, o roba simile. Avevano una divisa bianca e una cravatta nera, uno si avvicinò con dei calici ne presi uno al volo e ne mandai giù un sorso.
Avvertii un fuoco divampare dal petto, era decisamente forte. Poco più avanti c'erano una serie di tavoli ricoperti da lunghe tovaglie bianche ricamate ai bordi.
Ero in cerca del mio numero quando qualcosa urtò la mia spalla, c'era mancato poco e mi sarei ritrovata con la forma del viso stampata sulla moquette tortora.
«Scusami, che sbadato. Non ti sei fatta male, vero?»
Gracchiò una voce stranamente familiare.
Alzai lo sguardo. Era Mattew, indossava un vestito nero lucido ed era riuscito a domare i capelli con del gel.
Sul viso erano spariti i segni violacei.
Che si faceva qui?
Diedi voce ai miei pensieri e glielo chiesi.
Mi scrutò tra un mix di stupore e vergogna, i suoi occhi studiarono la mia figura e poi si concentrarono nei miei.
«Priyala... mio padre, Fynn Collins, è uno dei chirurghi della Tulane!» ne indicò uno a pochi metri da noi: tavolo 20.
Una bambina dalla carnagione chiara e i capelli biondi raccolti in delle trecce, reggeva tra le piccole braccia un peluche bianco e nero. Indossava un vestitino lilla, ai piedi risplendevano delle ballerine simile all'argento. Al suo fianco, una donna mora era fasciata da un abito seta color pesca, era decisamente raffinata.
Mattew le somigliava tanto, sembravano due gocce d'acqua. Il ragazzo al mio fianco mi riscosse con una pacca quasi percepibile.
«Loro sono mia madre Shyla e Kylie, la mia sorellina di sette anni. Sarà meglio andare, buona fortuna Moore!» fece l'occhiolino, mi superò lasciandosi alle spalle una scia di profumo alla menta.
Aggrottai le sopracciglia confusa.
Perché qualcuno doveva augurarmi la fortuna? Non aveva senso.
Perché cosa c'è di sensato nella tua vita?
Semplice, niente.
Quando finalmente trovai il mio tavolo capii. Lui, con la sua bellezza oscurata dal peccato, mostrava agli altri e a me quel profilo maledettamente perfetto. Lo smoking nero e i capelli spettinati lo trasformavano in una delle creature più seducenti dell'inferno. Ebbi l'impressione che il mio sangue avesse smesso di circolare dal momento in cui mi raggelai.
Notai, anche, che le ragazze non la smettevano di fissarlo, d'altronde come poteva essere il contrario.
Adam era bello, indiscutibilmente bello.
Se ne stava lì, con un'espressione vaga e le mani serrate, a fissare il vuoto. Le vene sul collo pulsavano a pieno ritmo, sembrava arrabbiato. Poi, in un attimo, distolse velocemente lo sguardo fino a incontrare la mia figura. I lividi ancora evidenti sul viso sembravano che lo avessero marchiato.
Chissà cosa faceva, la maggior parte delle volte non lo si vedeva tra i corridoi della scuola.
Mi scrutò con molta attenzione giocherellando con il piercing alle labbra.
Avvampai e con poca convinzione avanzai verso di lui.
«A quanto pare non sono l'unico a non voler essere qui... o mi sbaglio, Yala?» sogghignò.
Si sporse il giusto per avvicinarsi: profumava di menta. Mi mordicchiai con veemenza le labbra, potevo sentirne persino il sapore del sangue. Adam osservò accuratamente il mio gesto indugiando sulla bocca.
«Non ti conviene farlo» schioccò la lingua incatenando ancora una volta i suoi occhi nei miei.
Per fortuna la conversazione fu messa a tacere dai riflettori che illuminarono un palco a pochi metri da noi. Un uomo dai capelli brizzolati e degli occhi simili alla neve affiancava mia madre.
Il viso spigoloso e ineccepibilmente squadrato lo rendevano un uomo davvero affascinante. Sentii Adam ridacchiare, mi girai verso di lui: le vene stavolta ribollivano gagliardamente, mentre serrava i pugni quasi come a trattenersi dallo sferrare un colpo sul tavolo.
«Signori e Signore, io e il resto della squadra medica siamo qui, quest'oggi, per ringraziarvi della vostra presenza e del contributo che ognuno di voi ha deciso di donare. Come ben sapete, apriremo una nuova struttura per promuovere l'avanguardia nella medicina. Cercheremo di riaccendere nuovamente un sorriso sul viso di ognuno di voi. Grazie ai miei colleghi, ma in particolare all'idea brillante della Dottoressa Neela, avvieremo un reparto adibito esclusivamente alla ricerca avanzata delle cure per i bambini. Se avete delle domande, saremo lieti di rispondervi» parlò con voce calda e ferma.
Ci fu un attimo di silenzio che venne interrotto dalla sua voce.
«Secondo lei, Dottor Hill, si può salvare un bambino dall'inferno?» chiese con estrema nonchalance graffiando l'aria.
Gli sguardi saettarono su di lui, persino i camerieri si arrestarono.
«Certo, non bisogna mai perdere la
speranza!»
Lo fissò, sconcertato, con un'espressione di rammarico.
Ora che li osservavo meglio sembravano piuttosto simili.
Adam scoppiò in una risata inumana.
«Se mi consente, la Terra è lo specchio del male. Le persone mettono al mondo dei figli semplicemente per riempire un vuoto che portano dentro e, questi, a loro volta, sono obbligati a trovare una soluzione ai loro problemi. Ora mi dica, come si può regalare una speranza a chi è segnato, in partenza, da un destino malvagio e atroce?»
Non ricevendo risposta si alzò lisciando il vestito scuro che aderiva perfettamente al suo fisico.
«Non tutte le cose si aggiustano, il destino è scritto per ognuno di noi e tra le sue pagine non c'è posto per lei» disse prima di rivolgermi un'occhiata lasciando poi che l'assenza prendesse il suo posto.
Osservai la linea delle sue spalle fino all'uscita.
Tutto tacque fino a quando il lieve brusio fu sostituito da un colpetto di microfono.
«Signori e signore!» ci richiamò all'attenzione schiarendosi la voce. «Spero vi divertiate, in fondo siamo qui anche per questo.»
Mia madre mi scrutò per qualche istante, distolsi lo sguardo puntandolo verso la sedia vuota.
E allora capii, Adam era il figlio di Richard.
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