Benvenuto Mr Crash
«Ognuno di noi al mondo è intrappolato in una prigione da cui evadere. Per molti può essere il cuore, per altri il corpo... per me è il cervello. Popolato da sogni e da pensieri funesti o giulivi, sembra quasi... una chimera.»
Dal libro delle favole...
... C'era una volta un talismano a cui piaceva raccontare dei sogni. Per i bambini era l'acchiappasogni delle loro notti; colui che, all'imbrunire del dì, rinchiudeva nella rete i loro incubi, cosicché al mattino la luce del giorno potesse distruggerli. Allora, fu regalato a una pargoletta che credeva fortemente nelle storie. Rimase esterrefatta dai suoi colori sgargianti: le piume cilestrine e rosa erano soffici e vellutate.
«Come lo vogliamo chiamare?» Chiese la giovane donna dal timbro squillante. I riccioli d'oro le scendevano morbidamente lungo la schiena dritta. Il viso minuto e spigoloso era risaltato da guance vivide e labbra rosee. Le piccole rughe sulla fronte facevano trasparire la concentrazione nel carezzare il volto, di porcellana, della piccola dalla capigliatura castana.
«C-cra...» I versi, sconnessi e bambineschi della creatura, erano adorabili agli occhi della madre.
La bambina ridacchiava. Agitava le gambette in aria e gonfiava le guance come un palloncino.
«Dorotea... un tempo era della tua mamma. Ora è giusto che diventi tuo. Ti proteggerà dal freddo della notte e dalla calura del giorno. Ti insegnerà che il cielo è azzurro e bruno se arrabbiato. Ti aiuterà a capire che, delle volte, le stelle sono timide e che gli animali sono i re della landa. Ti parlerà del dolore e della sofferenza, ma più di tutto ha il compito di raccontarti dell'amore: amare è semplice, amarsi è complicato.» Sussurrò con leggerezza massaggiandole i piedini.
Dorotea non era capace di parlare, se non per qualche suono che le usciva di tanto in tanto dalla boccuccia. Osservava in dettaglio, con i suoi occhioni cerulei, le movenze della donna.
Allora la madre le poggiò l'oggetto accanto al corpicino e con soddisfazione pronunciò: «Lo chiameremo Mr Crash!»
Avvertii dei crampi alle ossa, impigrite per inettitudine. La schiena pulsava dal dolore, ma ero troppo stanca anche solo per muovere un dito. Fissai con sgomento la copertina lucida del quadernino: dalle piume candide al cielo stellato. Papà me lo regalò per i miei cinque anni. Era l'unico ricordo lasciatogli da suo nonno che conoscevo solo dal nome.
Da allora lo porto sempre con me: mi faceva sentire a casa.
Mi piacevano le sue storie, nonostante fossero scritte con inesperienza. Jordan Moore era un uomo dall'animo buono, affabile e generoso il più delle volte. Era l'esatto contrario del nonno Henry, cinico e manipolatore, o almeno secondo il giudizio di mio padre. Non avevo avuto l'opportunità di conoscere i miei parenti. I miei nonni materni vivevano in India, e quelli paterni... figuriamoci! A stento avevo un padre su cui fare affidamento.
Il trillo del telefono mi portò a distogliere l'attenzione dal contare le crepe del soffitto: per essere così vecchio, ce n'erano decisamente poche.
Afferrai il cellulare e, al quinto squillo, decisi di accettare premendo sul vivavoce.
«Ciao tesoro, come stai?»
La voce di mia madre, riposta dal baccano di sottofondo, riecheggiò nell'aria.
«Tutto bene... solito. Lì?»
Chiesi osservandomi la callosità all'anulare destro, l'impugnatura della biro rendeva la pelle più spessa e dura.
«Qui procede tutto in fretta. L'evento sta andando alla grande e le persone credono in noi. Per Richard è davvero importante! Mi dispiace che tu non sia qui con me. Come va con Adam? È lì insieme a te?»
Mi alzai frettolosamente dal letto e un capogiro prese il sopravvento su di me, mi costrinse a strabuzzare gli occhi e a rimettermi dov'ero. Dai segni mattutini che filtravano dalla finestra ingiallita e appannata, potevo dedurre che non fosse tardi.
Avevo dormito decisamente poco.
«Yala, ci sei ancora?»
«Mmm... è uscito all'alba per allenarsi.»
Inventai su due piedi, in realtà non avevo la più pallida idea di dove fosse. Stanotte era rientrato tardi, avevo sentito i suoi passi leggeri nel buio inoltrato. Si sentì, dall'altro lato della cornetta, una voce gracile e delicata chiamare il nome di mia madre.
«Yala, dammi un minuto», il timbro si affievolì. «Audrey prendimi quello arancione con le spalline cromate.»
Fece un sospiro e poi proseguì.
«E' la nostra costumista. Ci stanno preparando alla prova trucco e vestiti, nemmeno fossimo delle celebrità! Non ho mai partecipato a degli eventi di questo calibro. Purtroppo, ora, devo andare. James il mio truccatore mi sta mettendo fretta. Mi raccomando stai attenta e auguri di Buona Vigilia, tesoro.»
La telefonata terminò senza darmi l'opportunità di rispondere, ma ci ero abituata; in fondo è sempre stato così.
Stavolta costrinsi il corpo ad aizzarsi con più calma; le fitte alla testa erano da sempre state un punto debole. Non mi curai di lavare i segni della stanchezza dal viso, tantomeno di scegliere con cura quello che avrei indossato. Avevo bisogno di qualcosa di largo e comodo: optai per un paio di jeans Mom a vita alta e un maglioncino beige oversize. Indugiai per qualche secondo prima di dirigere i piedi verso la piccola vetrata: il cielo era avvolto da una leggera fuliggine, mentre l'erba era completamente ricoperta dalla neve. Avrei dovuto comprare una sciarpa se avessi voluto evitare di ammalarmi.
Qualche secondo più tardi, il cellulare trillò nuovamente nella tasca posteriore. Sullo schermo compariva un messaggio da parte di Lucy.
Lucy Brown: "Tantissimi auguri, Angel! Mi manchi tanto, davvero. Alla mamma abbiamo regalato un orsetto davvero carino e la cosa più emozionante è che si potevano incidere le nostri voci. La dottoressa ci ha detto che abbiamo avuto una splendida idea. Le farà bene, ne sono sicura."
Cercai in tutti i modi di sforzarmi per non piangere.
Priyala Moore: "Buona Vigilia anche a te! Sono certa che, nel suo cuore, ci sarà sempre un posto per voi. A presto, Lu."
Digitai in fretta.
Riposi il cellulare dov'era e concessi ai polmoni un po' dell'aria che gli era stata privata. Prima di dirigermi al piano di sotto, fissai il piccolo pacchetto argentato ai piedi del letto. Le avevo preso una collanina con lo stemma di una tela piccola e delicata, come lei.
Ne sarebbe stata entusiasta, me la immaginai con le gote rosse e impacciate per lo sforzo di districare un nastrino stretto con eccessiva premura.
Stranamente, nell'ambiente, si respirava un odore di mele e cannella. Mi rallegrai all'istante, come se fossi ritornata nuovamente bambina.
Mi inebriai di quel profumo marciando in cucina dove ci trovai una donna avvolta da un grembiule lilla.
Mescolava con gioia ed energia della pastella in un recipiente di vetro. Sul bancone in marmo, erano disposti in fila svariati vassoi. C'era persino del tacchino ripieno. I lunghi capelli del colore dell'ebano, tirati perfettamente all'indietro, le ricadevano sofficemente ed elegantemente sulle spalle ricurve e minute. Non si accorse della mia presenza finché un suono, prodotto dalle corde vocali, non attirò la sua attenzione. Mi voltai in quella direzione e gli occhi mi caddero sul volto di un ragazzo: le iridi castano chiaro bisticciavano con i capelli biondo cenere; la fronte lievemente imperlata da rivoli di sudore era rilassata; tuttavia qualche ruga tradiva la sua espressione serena. Il corpo era plasmato alla perfezione: la polo scuro aderiva al petto tonico e asciutto, mentre gli skinny neri slanciavano le gambe magre ma muscolose.
«Qual buon vento ha portato una tale bellezza dagli Hill?» Marcò il forte accento canadese.
Improvvisamente mi ricordai di Parker: un bambino, con dei bulbi neri e la pancia grassa, che si dilettava a tormentare la mia infanzia.
«Guarda un po' chi è tornata... il cadavere vivente! Cos'hai in quella borsetta... eh, Moore?» Mi denigra assieme a quei deficienti di Ross e Smith, il trio per eccellenza della cattiveria.
Avanzano lentamente verso di me. Inizio a sudare seppure l'inverno sia ben inoltrato. Mi stringo nel maglioncino rosa e nei pantaloni di tuta dello stesso colore. I fiocchi di neve si adagiano placidamente sul cuoio, mentre il vento, gelido e tagliente, fa volare con sé i battiti del mio cuore. Il parco della scuola è molto grande: distese di verde si mischiano alle giostre e allo sterrato curato ogni giorno dal signor Huston, il custode. Oggi il sole splende più che mai. Gli uccellini cinguettano e dei cincillà squittiscono rosicchiando un po' di erbetta, accompagnati dalle foglie che ondeggiano con frenesia.
Potrei sentirmi in pace, ma una spinta mi riporta sul pianeta. Vacillo atterrando con il sedere nel fango.
Parker mi strappa dalle mani la tracolla.
«N-no, ti p-prego!»
Piagnucolo cercando di mantenere la calma.
Non devo piangere.
Non posso mostrarmi debole, ma lo sono.
«Cole, Elliot... sapevate che i cadaveri potessero frignare?» scoppia a ridere.
I due negano con la testa, assecondandolo. Mi fissano, poi, dall'alto dei loro centimetri.
A un tratto, Steve rovescia il contenuto della borsa nel fango melmoso: i libri, l'astuccio, il pranzo... e Randy, si sporcano completamente di terreno.
«Ridatemi le mie cose. Lo dirò alla maestra Scarlett...»
Non termino la frase. Elliot con un sorriso sadico dipinto sul viso, afferra il mio adorato panda. Mi guarda per qualche secondo negli occhi, facendo bisticciare l'azzurro e il verde, prima di strappargli brutalmente la testa dal corpicino. Batuffoli di cotone fuoriescono dalla stoffa stropicciata e si vanno a depositare lentamente per terra.
Le parole mi muoiono in gola.
I muscoli si irrigidiscono e la vista si offusca a causa delle lacrime.
Sono delusa per non aver protetto l'unico ricordo che mi ricollegasse a papà.
Una pacca sulla spalla mi riporta alla vita reale: due iridi mogano e delle guance rossastre spruzzate dalle lentiggini mi fissavano sgomentate.
«Stai bene, tesoro?» Chiese spostandosi il giusto per porgermi un bicchiere di acqua.
Annuii con un cenno del capo.
«Non pensavo di fare questo effetto, l'allenamento dà i suoi frutti.»
La donna roteò le pupille schiaffeggiandosi la fronte.
«Non fare il maleducato, Josh», si chinò verso di me. «Ti chiedo scusa per i modi maldestri di mio figlio! Tu devi essere Priyala, giusto?»
«S-si.»
«Piacere di conoscerti, sono Emily. Il signor Hill mi ha avvertita della tua presenza, ma ero impegnata a recuperare questa testa calda.» Abbozzò un sorriso e una fossetta le si formò agli angoli delle labbra.
Prese, poi, a rigirare con il mestolo dell'impasto.
«Cos'è?» domandai osservandone i movimenti precisi e stancanti.
Emily sembrava una donna carismatica e amorevole. Le osservai le linee lievemente ricurve, nascoste da un vestito a fiori.
«Oh, è una semplice apple pie. Ad Adam piace tanto...»
«Perché sei tu a prepararla, Emy!»
Fece capolinea la sua voce grottesca e stanca.
Lo sguardo calamitò verso di lui, era fasciato solo da un paio di pantaloni di tuta. Un telo bianco penzolava con ritegno dalla spalla destra, mentre con l'altro braccio si reggeva allo stipite. I muscoli del petto, lucidi e gagliardi, sembravano scolpirlo. I capelli spettinati gli ricadevano morbidamente sulla fronte sudata e, con movimento lento e preciso, si umidì il labbro inferiore.
Quel labbro che tu hai assaporato!
Zitta.
«Adam!» Lo ammonì. «Quante volte ti ho detto di rivestirti? Madre de dios, perdónanos por nuestros pecatos!» Sentenziò, curvando le sopracciglia in segno di disapprovazione.
In risposta le prese la guancia tra le dita e ci depositò un bacio.
Quel gesto fu davvero intimo.
«Vedo che lo fai ancora.» Ridacchiò.
«Già. Ogni volta che è arrabbiata tira fuori lo spagnolo!» Spiegò il biondo.
Quando si accorse di me, i suoi smeraldi caddero sul mio corpo nascosto con cura dall'abbigliamento oversize. I capelli mi ricadevano lisci sulle spalle e le guance si tinsero di rosso per la rabbia. Non lo vedevo dal giorno prima e in verità avrei desiderato non incontrarlo, almeno per il momento. Un fischio distolse i loro visi da noi. Del liquido traboccava frettolosamente da una pentola dall'argento puro. Tuttavia, i nostri occhi non si mossero sembravano incollati saldamente tra di loro.
Si parlavano in silenzio senza opporre resistenza.
«Per fortuna ho salvato lo stufato di verdure! Quanto a voi, ragazzetti», puntò l'indice verso i loro corpi, «si cena alle sette. Devo solo terminare gli ultimi preparativi. Vedrete, sarà tutto perfetto.» Batté le mani entusiasta.
La casa non era addobbata come la tradizione voleva, anzi, a dire il vero, era esattamente come tutti i giorni: spoglia e fredda. Amavo questo periodo dell'anno. Adoravo le lucine che riscaldavano le dimore e i negozi lungo le strade innevate, l'enorme albero che colmava un vuoto timidamente spoglio e i dettagli dei volti galvanizzati delle persone.
«Hai bisogno di un aiuto?» Mi offrii di darmi da fare.
«Tranquilla, tesoro. Queste mani lavorano anche poco!» Si fermò a guardarci. «Perché, invece, non prendete lo scatolone dal ripostiglio? Potreste aggiungere qualche decorazione. Se la memoria non mi inganna, dovrebbe esserci persino un piccolo albero. Rose odiava...»
Si arrestò all'istante.
Voltò il viso mortificato nella direzione del ragazzo dai capelli castani.
Per un attimo i silenzi divennero parole, mentre l'aria si fece irrespirabile a tal punto da far mancare l'ossigeno.
Se ne stava lì a fissare il vuoto.
«Ho un'idea. Priyala potrebbe occuparsi degli addobbi, le ragazze sono sempre più brave in questo. Io ho ancora voglia di allenarmi. Ti andrebbe di concedermi la rivincita, tiger?» Josh parlò con calma e precisione, come se si fosse preoccupato di misurare con attenzione il suo eloquio.
L'altro si limitò ad annuire, sorpassandoci subito dopo.
Mentre i due si allontanavano, puntai le iridi verdi sul corpo sinuoso di Emily. Dai tratti levigati e delicati, pareva una donna di mezza età. Non aveva chili di troppo, anzi sembrava decisamente in forma rispetto al mio, pigramente allenato.
«Mmh... dove posso trovare lo scatolone?» domandai timidamente, portando la sua attenzione su di me.
I suoi occhi, concentrati nel preparare la torta, mi osservarono sorridendo. La freschezza e la genuinità del suo viso trasmettevano un calore sincero.
Si pulì le mani e mi fece cenno di seguirla. Percorremmo una parte di corridoio sino ad arrestarci di fronte a una scritta incisa nel legno: closet, si leggeva raffinatamente. Emily poggiò le dita sottili e fini, smaltate semplicemente con del rosa, sulla maniglia rigida e lisca. La stanza si illuminò solo dopo che una cordicella fu tirata verso il basso. Le pareti avorio erano ricoperte da scaffali che sorreggevano degli scatoloni di varie dimensioni. Su ognuno c'era scritto il nome del proprietario. Inevitabilmente, la vista mi cadde sul nome di Rose.
«Com'era? Ehm... intendo la madre di Adam!» Mi sgranchii la voce, rovistando con gli occhi tra i cumuli di cartone.
«Lei era tutto ciò che è luce: dal sole che illumina il giorno alle stelle che puntellano le notti. La prima volta che li conobbi, notai da subito la loro intesa: il signor Hill la amava tanto. Blake era ancora in fasce quando misi piede in questa casa. Ovunque c'erano pannolini e delle creme apposite per la sua dermatite.»
Si chinò a raccattare uno scatolone grosso e impolverato più degli altri.
«Ormai, sono passati più di venti anni. Dalla sua morte non hanno più festeggiato il Natale né tantomeno suonato al pianoforte. Rose era una pianista eccezionale; si era laureata a pieni voti alla Juilliard School, una tra le scuole di musica più prestigiose di New York. Blake era un bambino vivace ed eloquente. Appassionato di costruzioni e di robot, era il contrario di Adam. Tuttavia, non sembrava affatto che li diversificassero i cinque anni di differenza. Ricordo che erano molto legati; per Blake, il piccoletto di casa, era come un oggetto prezioso da non scalfire. Sembra assurdo, ma da marmocchio aveva i capelli ricci e profondamente scuri, come sua madre.»
Allora era lui Beethy.
«Ecco. Reggi questo, cara!»
Mi posizionò una scatola più piccola tra le braccia mentre raccoglieva l'altra.
«Direi che abbiamo i buoni propositi per festeggiare l'arrivo del Natale.» Sorrise superandomi.
Come ero arrivata a questo?
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