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XXXIV. Die Hand, die dich füttert


N E B E L

XXXIV.

Die Hand, die dich füttert



L'effetto era lo stesso di quando ci si risveglia da un sogno, un sogno durato una vita intera, con un secchio d'acqua ghiacciata gettato addosso. Per un attimo la realtà gli sembrò estranea e distante, come se il mondo onirico lo stesse trattenendo a sé ancora per un po' per salvaguardarlo da ciò che si apprestava ad affrontare, o per illuderlo.

Se avesse dovuto dare una spiegazione immediata a quello che stava leggendo, Richard avrebbe detto che Sonne lo conosceva ormai così bene da avergli dedicato un racconto in cui ripercorreva il loro primo incontro e il periodo dell'università, in maniera fin troppo fedele a ciò che ricordava anche lui.

Ma era la data a turbarlo.

Amburgo, 27 aprile 1987, si leggeva in cima alla prima pagina del fascicolo che aveva afferrato dalla scrivania: il giorno del suo compleanno. Alla fine del racconto, inconcluso, una serie di appunti che lasciavano intendere che Sonne l'avesse scritto davvero in quell'anno. Non si trattava di un artificio narrativo.

La domanda che gli affiorò nella mente all'istante: come faceva Sonne a sapere tutte quelle cose su di lui, in particolare i dettagli che non gli aveva mai confidato, tantomeno nell'87?

Abbassò i fogli che stringeva tra le mani e osservò Verena, che invece stava finendo di leggere velocemente un altro racconto.

«Parla di te?» le chiese, notando lo scuro e violento stupore straripato sul suo viso. Era facile intuirlo. Era facile intuire che Sonne stesse scrivendo di loro. Quante volte gliel'avevano chiesto, per gioco. Si era liberato dal blocco creativo grazie a entrambi, del resto, era facile intuire che fossero la sua ispirazione, il suo innesco, il suo soggetto prediletto da maneggiare.

Ma c'era qualcosa di profondamente sbagliato che ancora non arrivavano a capire.

Verena scosse la testa tra sé, con gli occhi sgranati nel vuoto. «Non è possibile...»

Non era soltanto confusa. Era posseduta da una paura glaciale che pareva aver ricoperto di brina il suo corpo.

Richard diede un'occhiata alle sue pagine. La data era diversa, persino antecedente.

«Anche lì ci sono cose intime del tuo passato che Sonne non dovrebbe sapere?»

«È... è un racconto sulla mia famiglia, sulla mia fuga... scritto come se lui fosse Dio» rispose lei, stringendo i fogli al petto, quasi non volesse che Richard li leggesse. «Come... come ha fatto a sapere...»

... tutto?

La domanda finì nel nulla, in parole che non riusciva ad articolare, perché le erano rimaste arpionate in gola. Richard si accorse che sul dorso dell'ultima pagina c'erano delle annotazioni. A differenza del suo racconto, però, erano state cancellate a penna, con mano pesante, di recente. Poi cominciavano dei brevi paragrafi scritti in una grafia inquieta e a stento decifrabile. Ciascuno riportava un'ulteriore data. Novembre 1993, dicembre 1993, gennaio 1994.

«Guarda» le disse.

Verena voltò la serie di fogli e lesse insieme a lui, le teste vicine. La prima postilla si apriva con: "le è comparsa una grossa voglia color caffelatte sul fianco", seguita da poche altre righe. La seconda, invece: "questa sera ricomincerà a mangiare carne sotto i miei occhi e quelli di Richard – zampetto di porco con crauti, da lei preparato – e sarà finalmente sazia..." La terza, successiva al giorno dello sparo: "è guarita nottetempo, miracolosamente. Adesso la ferita è solo un brutto ricordo. Sᴏʟᴏ ᴜɴ ʙʀᴜᴛᴛᴏ ʀɪᴄᴏʀᴅᴏ. È la mia volontà, se la mia volontà vale ancora qualcosa."

Chiaramente le ultime aggiunte, in completo contrasto con il resto, non corrispondevano al vero. Anzi, sembrava che quelle parole fossero state scritte con l'assurda speranza che diventassero reali, che modificassero la realtà.

Non fecero in tempo a fare commenti o a porsi altri interrogativi.

Sonne rientrò in casa in quel momento – lo sentirono girare la chiave nella serratura.

Richard pensò che sarebbe stata l'occasione perfetta per sparire. Non avrebbe mai voluto essere colto in flagrante, subire il suo sguardo deluso. Si sentiva un ladro senza possibilità di ritirata. Tutt'a un tratto non aveva neanche più voglia di conoscere la verità. Adesso capiva quanto quell'effrazione significasse, in modo piuttosto drastico, dirgli addio. Dire addio all'organismo che erano insieme, in tre, al rifugio sicuro che avevano costruito. L'aveva fatto più per Verena che per se stesso. Se lo ripeté: l'ho fatto per lei. Adesso sarebbe voluto tornare indietro per annullare tutto.

Non tentarono di nascondersi. Uscirono in salotto con i fogli ancora in mano, e lo videro lì, a fissare la porta aperta della sua stanza, da cui entrambi comparvero.

Non aveva lo sguardo che Richard si era immaginato.

C'era delusione, certo, ma, su tutto, a essersi impadronito di lui era il terrore. Mosse un paio di passi arrugginiti verso di loro, con la pesantezza di un condannato a morte che esce dalla sua cella per avviarsi al patibolo, pungolato alla schiena da un forcone. Pareva essersi fatto d'improvviso più piccolo, più contorto, chiuso nelle proprie spalle.

Aprì la bocca per dire qualcosa, ma Verena fu più rapida di lui.

«Che significa tutto questo?» gli domandò aggressivamente, dando un colpo di polso alle pagine. «Come fai a conoscere tutti i nostri segreti, tutto quello che abbiamo vissuto e provato nella nostra vita?»

In lei, settimana dopo settimana, si era accumulata una tale rabbia che faceva pensare, per come gli stava ponendo quelle domande, che nel profondo già sapesse le risposte di cui aveva bisogno. Che avesse già compreso ogni cosa. E che non volesse accettarlo, perché le verità maturatele dentro erano mostruose e al di là della sopportazione umana.

Con quell'attacco stava supplicando Sonne di rassicurarla e raccontarle qualcosa di diverso che potesse redimerlo.

Richard non si aggiunse alla sfuriata, ma strinse di riflesso le pagine del racconto, spiegazzandolo su un lato. Poiché in esse c'era la sua vita, era come se la stesse accartocciando con le proprie mani senza curarsene. La sua vita era un foglio di carta. Le sue dita e le sue braccia stavano diventando di carta di conseguenza. Le vene. Il cuore.

Sonne spostava lo sguardo dall'uno all'altra, gli occhi lucidi e una linea tesa al posto delle labbra. Un adulto che non sa spiegare un fatto grave a dei bambini, o un bambino che non sa spiegare un fatto grave a degli adulti, che preferirebbe mille volte dire un'altra bugia.

Era spiazzato.

Si sentiva messo a nudo – la nudità, la condizione che più gli faceva orrore, che gli faceva desiderare di essere invisibile. Spogliato, violato nientemeno che da loro: avevano commesso un peccato mortale.

Per questo Richard stava riuscendo a leggerlo come mai prima d'ora, perché i veli di nebbia su di lui si erano dissolti. Intravedeva, nel retro delle sue orbite, in una zona oscura a cui non aveva avuto mai accesso prima d'ora, una sconfinata voglia di punirli per quello che avevano osato fare e, allo stesso tempo, una muta richiesta di perdono.

«Cos'è che ci tieni nascosto da sempre?» lo incalzò Verena.

Sonne guardò a terra, poi guardò in cucina, poi alle loro spalle, come se stesse cercando di afferrare la sua stessa risposta che svolazzava dispettosa per la casa. «Siete... siete entrati nella mia stanza...» disse con voce roca; non riusciva ad andare oltre quel comandamento infranto.

«Rispondi!» gridò lei.

In lui si sollevò un'onda di avversione. Dinanzi alla tenacia di Verena, alla sua mancanza di rispetto, riuscì a domare il nervosismo e a farsi di colpo gelido e spietato – a una velocità davvero sorprendente, quasi inumana – quanto lo era stato la prima volta che lei aveva messo piede nell'appartamento, il padrone di casa al cospetto di un'estranea, dell'invasore. Raddrizzò la schiena e tornò nel giro di un attimo un Golia che fa della propria abnormità l'arma più pericolosa.

Richard ebbe paura di lui e di ciò che avrebbe detto.

«Volete la verità?» chiese, lugubre.

Entrambi rimasero immobili.

«Bene. Siete miei personaggi. Vi ho creati io.»

Una parte di lui, quella che rilasciò un lungo respiro a labbra schiuse, sembrò sollevata dopo aver pronunciato quelle parole. Si stava spogliando di un opprimente costume di scena. Era stato un bravo attore – ce l'aveva messa tutta, con le sue bugie – ed ecco che finalmente si rivelava per ciò che era davvero (ciò che non voleva essere? Ciò che amava essere?), davanti a una platea sbigottita.

Richard avrebbe voluto prenderlo come uno scherzo, ma sapeva che Sonne era serissimo. Per qualche secondo pensò che fosse impazzito. Cercò di elaborare una risposta che potesse essere adatta a un pazzo, per tenerlo buono. Poi si fermò in tempo e alzò di nuovo le pagine che stringeva in una mano.

Lesse qualche rigo. Spostò lo sguardo su Sonne.

Il volto di Verena aveva raggiunto un sottotono grigiastro. «Ci stai prendendo in giro?»

«No. È questo il motivo per cui sparite: tornate indietro da dove siete venuti, nei miei racconti – non solo nei due racconti da cui avete avuto origine, a quanto pare... ma in tutti quelli che non ho mai pubblicato. Ciclicamente tornate nella mia immaginazione.»

Difficile descrivere il silenzio che scaturì dopo quella replica, la casa che si chiuse su di loro, come un pugno intorno a delle biglie, il rifiuto che colpì Richard in pieno petto, le pupille di Verena che tremarono man mano che connetteva gli eventi gli uni agli altri.

Fu lei a controbattere, di nuovo. «Ammesso... ammesso che sia vero... l'hai saputo per tutto questo tempo e non ce l'hai detto...? Hai mentito per tutto questo tempo?»

Richard trovò paradossale e straniante che gli stesse dando corda. Ma evidentemente la conversazione era destinata a prendere quella direzione, verso un nuovo livello di follia. Non riusciva a pensare.

Sonne si sentì in dovere di dare delle spiegazioni. Si passò una mano nei capelli, che gli erano finiti sulla fronte, se li ammaccò, temporeggiò. Non sembrava neanche voler cercare le parole giuste. «L'ho capito da poco anch'io. Da quando siete spariti insieme un paio di mesi fa per tornare nel vostro passato. Prima... anche se mi suonavano familiari tutti i luoghi in cui siete spariti, non mi sarei mai azzardato a fare un'ipotesi del genere. Come avrei potuto? Capitemi, come può un uomo arrivare a credere che la ragione di tutto sia questa? Ma noi abbiamo cominciato ad abituarci alle cose inspiegabili, non è così? Ditemi voi se non è la vita stessa a essere inspiegabile. Nessuno ci dà delle risposte sul limbo in cui vaghiamo prima di nascere, su come si formi la nostra coscienza, in quale momento, su dove ci porti la morte... o se la nostra esistenza abbia uno scopo stabilito da qualcun altro. Una volta che ci siamo dentro, è finita. Che importa se siete nati da un grembo o da una penna? Cosa cambia? Quando siete capitati sull'Elbstrand e nella Foresta Nera ho ritrovato questi vecchi racconti e ne ho avuto la conferma: voi venite dalla mia mente. E vi siete fatti carne. Non sto dicendo che non esistete, no, come potrei davanti all'evidenza?, dico semplicemente che un tempo eravate dentro di me e che adesso... siete qui. Non so come abbiate fatto. Non l'ho deciso io, è successo e basta.» Fece una pausa per interrompere quel flusso sconnesso e per raccogliere le idee. «Non è vero che posso sparire come voi, ho soltanto dovuto trovare una giustificazione alle vostre domande incessanti. Non vi ho detto la verità per proteggervi. Se non foste entrati nella mia stanza non l'avreste mai scoperto, ve lo posso assicurare.»

«Proteggerci? Proteggerci? Ho iniziato a sospettare di te da quando ti ho incontrato dall'altra parte e mi hai fatto del male» disse Verena, trovando la forza in una sorta di ringhio basso che le vibrò all'interno della bocca. Gli occhi erano due pozzi neri e liquidi di livore. «Sei tu ad avermi sparato e operato.»

La notizia lo fece sussultare. «Come sarebbe?»

«Sei tu la persona che ci insegue dall'altra parte.»

«Non può essere. Sono sempre stato qui.»

«Sì. Sei sempre stato con noi. Sai cosa mi hai detto? Non ci sarà un singolo istante della tua vita in cui non sarò dentro di te. Ora... ora capisco.»

Sonne camminò a scatti fino a lei, ormai in un curioso stato tra il panico e l'euforia. «Se... se posso provare a dare una spiegazione... deve esistere una versione di me anche dall'altra parte, perché mi sono sempre inserito nei miei racconti. O comunque sono sempre presente nella mia fantasia... Lo sguardo che sonda ogni cosa prodotta dentro di me è pur sempre il mio. Sono inseparabile dal mio sguardo. Creo con la vista – voglio dire, non conosco altro modo di creare. Quello che hai incontrato deve essere solo un altro personaggio, che però sono io, come io mi immagino. E non ho controllo su di lui! Tu hai controllo sull'immagine riflessa che hai di te stessa? Non si genera da sola, da un ammasso di bisogni, timori e desideri di cui neanche sei consapevole?» La guardò fisso in faccia, ma con espressione assente, stava riflettendo. «Non ho mai scritto un racconto in cui sparo e opero una donna. In questo periodo mi stavo proprio domandando come avessi fatto a cacciarti in qualcosa che non avevo mai raccontato. A questo punto... credo che lui sia onnisciente e onnipresente rispetto a quel mondo e che possa muoversi nella mia immaginazione... Deve essere lì che ti ha portata. Più passa il tempo, più siete in grado di esplorare l'altra parte, una dimensione che esiste indipendentemente da me, che addirittura non ho ancora scritto e che non farò mai in tempo a scrivere per quanto è sconfinata, per quanto si trasforma ogni giorno... e pulsa più viva che mai! È da lì che voi venite, siete un'escrescenza di quella realtà troppo viva, che doveva trovare uno sfogo, uno sbocco da questa parte, mentre io ero bloccato a morte! Avete trovato un altro canale per venire da me che non fosse la mia penna, l'inchiostro... Mi volevate così tanto? Come io avevo bisogno di voi...?» continuò, afferrandole le spalle.

Verena rabbrividì. «Stai ancora cercando di ingannarmi! Se quel Sonne che ho incontrato è come ti vedi o come vorresti essere... significa che in realtà mi disprezzi e vorresti farmi fuori!»

«No! Te lo giuro, non è dipeso da me. Non ti avrei mai fatto nulla del genere. Non ho controllo su quello che accade né su ciò che è già stato creato, perché ormai esiste ed è altro da me, proprio come voi. Avete letto le mie postille, no? Non posso modificare la realtà, anche se ci ho provato! Ho provato a farti stare meglio, ma non ha funzionato. Te lo giuro, Liebe, come puoi pensarlo...?»

Scese con le mani a stringerle i polsi, ma Verena si divincolò, il respiro che accelerava.

Allora Sonne si voltò verso Richard, in cui sperava di trovare un alleato. Passò ai suoi, di polsi, e lui non si ritrasse, da bravo manichino quando si trattava delle sue attenzioni, seppur avesse fatto caso al luccichio sinistro che gli era balenato nelle iridi e a quanto fossero fredde le sue dita, pezzi di ferro, canne di pistole.

«Tu mi credi, Richard? È vero che non le avrei mai fatto del male? Diglielo anche tu...»

Doveva essere la prova più difficile, provare a convincerli di quella pazzia senza un minimo di preparazione.

Richard assottigliò gli occhi. «No.»

La bocca di Sonne si incurvò verso il basso, creandogli due spesse rughe nelle guance. «No?»

«Non ti credo.» Riuscì a dirlo, incredibilmente, senza timore. Riuscì a sembrare addirittura più razionale di lui. «Sono tutte puttanate. Mi hai sempre riconosciuto come un tuo vecchio compagno di università, dal primo momento che ci siamo rivisti. Io vengo da Amburgo, non... dalla tua cazzo di testa, sono nato e cresciuto lì, poi sono fuggito e ho girato diverse città finché non sono arrivato a Brema. So chi sono, e di certo non inizio a metterlo in dubbio per via delle tue stronzate. Mi stai facendo paura, sinceramente. Cos'è questa storia che io sarei una tua creazione?»

Sonne gli strinse i polsi con più forza, i pollici premuti sulle sue vene. «È perché il vero Richard è morto.»

Era il colmo. Richard provò a fare un passo indietro con una risatina sarcastica, ma l'altro non lo lasciò andare e lo tirò di nuovo verso di sé. Verena lo guardò preoccupata mentre era impigliato nei suoi tentacoli.

«L'ho scoperto quando sono andato ad Amburgo. Ecco cos'è successo davvero lì. Ho scoperto che Richard – Richard Wagner, si chiamava così – è morto di overdose... Sono andato a parlare con tuo padre.» Poi sbatté le palpebre, correggendosi. «Suo padre.»

«Hai visto mio padre?»

«Me l'ha confermato lui. Per qualche giorno mi ero convinto che foste dei fantasmi. Non riuscivo a darmi una spiegazione finché non ho ritrovato i racconti in un cassetto della scrivania.»

«E mi avresti riportato in vita scrivendo?» lo derise.

«No, ti ho solo creato a sua immagine e somiglianza. Come dire... non siete la stessa persona. Richard è morto tre anni fa, mentre il racconto, questo che hai tra le mani, l'ho scritto molto tempo prima, poco dopo l'incendio... Ero ossessionato da te, ecco perché. Allora ho creato un Richard più perfetto, che fosse esattamente tutto ciò che desideravo da lui, senza dipendenze e... pieno di vita. Poi il destino ti ha portato in carne e ossa da me, dopo aver ucciso l'altro.»

Richard diede uno strattone per liberarsi e si fece forza con quell'atteggiamento sprezzante. Sì, adesso ne era sicuro, Sonne era uscito fuori di senno e aveva cominciato a sparare un'assurdità dietro l'altra. «Devo concedertelo, hai una fantasia formidabile.»

«Richard... volevate la verità, e io ve l'ho data. So che è dura da accettare, sono ancora confuso anch'io... Non avevo idea che ci fosse un mio alter-ego dall'altra parte, per esempio! Ma, vi prego, dovete fare uno sforzo...»

«Certo, devo sforzarmi di credere di essere morto, di essere un tuo personaggio. Cristo, ma ti senti?»

«Vuoi delle prove?» domandò, alzando la voce. «Aspetta, ora ti faccio vedere, vado a prendere...»

Si allontanò fiondandosi nella sua stanza e lasciandoli allibiti sotto l'arco della porta. Lo videro tirare fuori dall'armadio lo zaino con cui era andato ad Amburgo e mettersi a scavare al suo interno. Era alla ricerca di qualcosa – qualcosa che non trovava. Rovesciò il contenuto ai suoi piedi, un portamonete, un taccuino, un pacchetto di fazzoletti, ribaltò le tasche. Poi abbandonò lo zaino a terra e si mise a cercare in preda alla frenesia sulla superficie della scrivania, nei cassetti.

«Deve essere qui da qualche parte... ero convinto di averlo portato...»

«Di cosa cazzo stai parlando?»

«Un ritaglio di giornale...» biascicò Sonne. «O forse non l'ho mai avuto...? Potreste venire ad Amburgo con me per...»

Richard incrociò le braccia; se le sentiva rigide come rami senza vita. «Ma per favore.»

L'altro si voltò di nuovo verso di loro, con alcuni fogli in mano. «Non importa, posso dimostrarlo in altri modi.» Tese loro le pagine per incitarli a prenderle. «Su, coraggio. Questo è il racconto sulle ragazze della foresta che si trasformano in animali e vengono braccate dai cacciatori. Vuoi leggerlo, Verena?»

Verena fece istintivamente un passo indietro.

Tornava su di lei perché stava prendendo molto più sul serio di lui quella storia.

«Se non sei figlia della mia mente, come faccio a sapere dei tuoi fratelli, di tuo padre, di Dio?» insisté. «Non me l'hai mai raccontato. Eppure so che fino all'adolescenza hai parlato con Dio tutte le notti, finché, a un certo punto, Lui non ti ha più rivolto la parola. Posso ripeterti le esatte parole che ti diceva, perché ero io, sono sempre stato io.»

Richard le lanciò un'occhiata per esortarla a rispondere. Era anche impaurito, però, per ciò che stava sentendo. «Tu parlavi con Dio? Ma cosa diamine... Sta mentendo o sta dicendo la verità?»

Verena si aggrappò allo stipite della porta per reggersi. «Non puoi essere tu. Tu non sei un dio.»

«Capisco la negazione, la capisco davvero, ma... se non mi credete, che altra spiegazione avete intenzione di dare a tutto questo?» chiese ancora Sonne, esasperato.

«Che sei un fottuto megalomane e vuoi farci impazzire insieme a te» ribatté Richard. «Ma non ci riuscirai.»

Gettò a terra con sprezzo il racconto che parlava di lui. Se avesse avuto l'accendino a portata di mano, gli avrebbe addirittura dato fuoco. Sonne sembrò ferito a morte da quel gesto.

Verena lo imitò. Era di nuovo mangiata viva dalla rabbia e pareva aver dimenticato di aver supposto fino a qualche secondo prima che tutto quello potesse essere la verità, sorda alla realizzazione finale, il passo logico che le mancava e che non osava fare: se dava retta a quanto Sonne decantava, doveva ammettere di essere per natura sottomessa alla sua volontà. Innalzò una barriera per difendersi. «Non ti permettere mai più di parlare della mia famiglia e del mio passato. Non ne hai alcun diritto. Resta pure nelle tue fantasie di onnipotenza, nelle tue storie, nella tua testa. Noi non vogliamo farne parte. Avessimo saputo prima che persona eri, non ci saremmo mai avvicinati a te.»

A Richard venne improvvisamente un groppo in gola, anche se sapeva di star facendo la cosa giusta. Cominciava a sentire quanto facesse male, lo sforzo di scollarsi da lui fino a strapparsi la pelle. Quanto le conseguenze fossero irreparabili.

Solo allora Sonne iniziò ad essere davvero allarmato. «Vi prego...» li supplicò, a vuoto.

Loro, per tutta risposta, andarono a chiudersi nella stanza di Verena.




Quando riaprirono la porta, nel pomeriggio, Sonne li stava aspettando sul divano. Probabilmente non aveva mai cambiato postazione.

Era stata Verena a uscire, per prendere il cardigan che aveva lasciato sull'attaccapanni all'ingresso. Lui si mise in piedi non appena la vide.

«Ci avete pensato?» chiese a Richard, che la seguiva. Era piuttosto in tensione, pallido e con la bocca impastata.

«Certo. Ci abbiamo pensato molto.»

Sonne sbatté le palpebre. «E?»

Verena non lo guardò nemmeno mentre tornava in camera. «Ce ne andiamo.»

Non fecero in tempo a richiudere la porta perché Sonne la bloccò con una mano e si insediò in stanza con loro, scoprendo l'armadio aperto e svuotato, lo zaino di Verena già colmo di vestiti e un'altra serie di indumenti disposta disordinatamente sul letto, pronta a essere stipata altrove.

«Che significa?» domandò in un soffio.

Lei si sforzò di ignorarlo e si rivolse a Richard. «Tu hai due valigie, no? Non credo ci entri tutto.»

«Sì.»

«Tra poco andiamo a preparare anche la tua.»

Sonne oscillò di qualche passo verso di loro, senza sapere su chi dei due concentrarsi. «Non potete andarvene davvero.»

«Invece possiamo» disse Verena. «C'è qualche vincolo di sangue che ce lo impedisce? Siamo obbligati per contratto?»

«Ma... dove andrete con questo freddo? E senza soldi? Vi siete sempre appoggiati a me in questi mesi...» obiettò, con l'obiezione più logica che potesse venirgli in mente. Voleva farli ragionare, dopo averli raggirati.

Non che non ci avessero pensato, ma la loro priorità era andarsene da lì, il più lontano possibile da lui e dalla sua follia.

«Questo non deve interessarti. Ci manca solo che ci rintracci.»

Sonne allungò un braccio verso Verena, ma lei si scansò ancor prima che la sfiorasse, mettendosi a ripiegare un maglione e un paio di jeans. «Cosa... cosa state dicendo...? Non volete più vedermi?»

Il silenzio che seguì equivalse a un'affermazione.

Richard avvertì uno strappo nelle viscere. Stava succedendo tutto così in fretta, senza neanche un istante per respirare. Allo stesso tempo sembrava già passato un milione di ore dalla conversazione di quella mattina. Ma era ancora domenica. Era ancora un giorno qualunque di gennaio.

Sonne sbiancò ulteriormente. «Ecco perché non ve l'ho detto subito... Lo sapevo, sapevo che avreste reagito così. Ma vi scongiuro, fermatevi un attimo...»

Invece di fermarsi, Verena si velocizzò; infilò altri oggetti da toeletta nelle tasche dello zaino, con una mano sul ventre per via del dolore che era ricomparso, ma senza demordere.

«... mettetevi nei miei panni, vi supplico... Mi abbandonate così, solo perché non riuscite ad accettare...?»

Richard aiutò Verena a svuotare il cassettone di fronte al letto, dove era riposta la biancheria intima. Aveva molte più cose rispetto a quando era arrivata, e così anche lui. Si erano ambientati, si erano sentiti a casa. Fino a quel momento. Adesso si sentivano alla mercé di un carceriere.

«Solo? Se ti sembra poco quello che hai farneticato...»

«Vi ho detto che vi capisco! Ma cercate di capire anche me! Cosa volete che faccia?» insisté lui, con voce traballante, tallonandoli da un capo all'altro della stanza.

«Niente. Non devi fare niente.»

«Non posso non fare niente davanti alla distruzione dell'unica cosa importante della mia vita! E non posso neanche starmene con le mani in mano mentre decidete di andare a morire assiderati in strada!» Guardò Richard con il viso stravolto dalla disperazione. Era quasi irriconoscibile. Aveva una nuova pelle vulnerabile di neonato, che lo faceva apparire terribilmente indifeso. «E poi, ci avete pensato? Lontani da me sparireste molto più di frequente...»

«Troveremo un rimedio» disse Verena, riuscendo chissà come a sembrarne davvero convinta. «Ci sono tante persone a cui possiamo chiedere aiuto, lì fuori, fuori da questo microcosmo in cui ci siamo segregati, la tua patria. Il mondo è pieno di gente che non sia tu.»

«E come farete a spiegarlo?»

«Troveremo il modo anche per quello.»

«No, no, no, sono io il fulcro! Avete mai preso in considerazione il fatto che potreste sparire per sempre? Intendo, non tornare mai più indietro. Pensateci! Appena siete arrivati neanche sparivate, ma quando ho ricominciato a scrivere si è scatenato tutto! Non è una coincidenza, lo capite? Una volta smossa, la mia immaginazione ha deciso di risucchiarvi di nuovo a sé... e un giorno la cosa potrebbe essere irreversibile! Dovete restare accanto a me perché non accada.»

«Siamo rimasti accanto a te finora ed è accaduto comunque. Guarda cosa mi è successo, per essere rimasta sempre accanto a te» disse lei, l'ultima frase in un sibilo di rabbia. Subito dopo, ironia della sorte, una fitta di dolore la colpì in pancia e le fece arricciare la faccia. Chiuse gli occhi e si fermò per qualche secondo accanto al letto premendo di più la mano sotto l'ombelico.

«Lascia fare a me» intervenne Richard, accorrendo in suo aiuto. «Ti stai stancando troppo.»

«Ora mi passa. Sta passando.»

Sonne si fece ancora più preoccupato, goffo nella sua appresione, perché lei non si faceva nemmeno toccare. «Se te ne vai e non trovi un posto sicuro in cui stare, il processo di guarigione rallenterà... Come farai?» riprovò. «Restate un altro po'. Vi scongiuro. Lo dico perché non voglio che ve ne andiate ma anche per il vostro bene.»

Verena gli lanciò un'occhiata tagliante. «No, Sonne. Sei tu a dover accettare la nostra decisione. Staremo bene. E poi ho ancora queste.» Si voltò, sollevò di poco l'angolo in alto del materasso e raccolse la dozzina di capsule di morfina che aveva nascosto lì nel corso dei giorni. Era una provocazione, più che una reale necessità, Richard lo capì. Voleva sbattergli in faccia il fatto che l'avesse ingannato per un bel po' senza che si accorgesse di nulla, voleva ferirlo e mostrargli che era stata più furba di lui.

Sonne serrò la mascella, e una vena gli pulsò sul collo. Non disse nulla, non subito.

Poi le si avvicinò repentinamente, bloccandole le vie di fuga. «Dammele. Se non ti sono mai servite non vedo perché debbano servirti adesso.» Il suo tono era già mutato.

Verena allontanò il pugno in cui le teneva, indignata. «No.» Ma lui non si diede per vinto e tentò di afferrarle il polso, dopo averle già bloccato l'altro braccio in una stretta. Lei dimenò la mano in aria, contorcendosi di lato, provando a sgusciare via, ma Sonne continuava a placcarla, in una sorta di aggressiva coreografia. «Lasciami!»

Richard cercò di frapporsi tra i due e di tirare via Sonne, anche se finì col ricevere una gomitata involontaria. «Sonne! Porca puttana!»

Sonne riuscì a raggiungere il pugno chiuso di Verena, ma non ad aprirglielo. Ondeggiarono tutti e tre, lottarono tutti e tre, finché lei non si scontrò con Sonne dandogli uno spintone, con un grido: per errore le pillole caddero tutte sul pavimento, piovendo come una manciata di coriandoli e rimbalzando intorno.

Solo a quel punto Sonne la lasciò.

Verena, furiosa e spaventata allo stesso tempo, in affanno, indietreggiò fino a urtare con i polpacci contro la struttura del letto. «Tu... tu sei crudele. Crudele, sì. Sai cosa ti dico? Tienitele pure, non le voglio.»

Richard osservò le piccole capsule rosse che ora costellavano il parquet, tra la polvere, il tappeto e dei vestiti finiti a terra. Aveva paura di cosa Sonne avrebbe potuto farne, ma non le raccolse. Sia lui che Verena preferivano lasciarle lì a germogliare piuttosto che chinarsi ai suoi piedi.

La disperazione di Sonne era diventata molto più simile alla spietatezza. Non li aveva convinti ad avere compassione di lui, pertanto si riavvicinava alla sua essenza cupa, che loro stessi avevano risvegliato. «Ripudiate così la mano che vi nutre. Vedo che vi rende felici. Se mi chiedete di accettare questa vostra felicità a fronte della mia infelicità, no, non lo farò. Presto vi renderete conto che non potrete più essere felici senza di me, perché è a me che siete legati. Siete costretti ad abbandonare l'Eden come Eva e Adamo per la vostra ostinazione, per la tentazione di aver voluto toccare a tutti i costi qualcosa che vi era proibito, ma a differenza loro vi state cacciando da soli. Io vi ho sempre voluti accanto a me. Vi avrei perdonato qualsiasi cosa. Forse non sono stato poi così lungimirante come Creatore... Allora vi dico: andate, c'è libero arbitrio anche qui. Non dubitate però che lì fuori non incontrerete altro che sofferenza.»

Richard restò alquanto frastornato da quel discorso, intriso di manie di grandezza a tal punto che non poté fare a meno di prenderlo sul serio, per un secondo. Non realizzò se fosse una minaccia o una maledizione, che suonava come un: è inutile che fuggite, prima o poi vi ricongiungerete a me. Via dal paradiso terrestre, per poi rimpiangerlo e struggersi del proprio errore. Quante volte gli esseri umani si allontanano spontaneamente dalla propria felicità, attratti da una strada che li persuade d'essere più radiosa.

Ma Richard e Verena non erano più sicuri di poter essere felici a quelle condizioni. Ci sono casi in cui ciò che ci rende felici è al contempo ciò che più ci fa del male. Allora, se si è abbastanza lucidi da riconoscerlo, vale la pena di salvaguardarsi. Questo, in sintesi, si erano detti. Per loro la libertà era sempre stata più importante. Anche se Sonne era il loro faro.

Era così, Verena l'aveva tentato verso la mela proibita, ma non glielo recriminava: adesso era più certo che mai di essere dalla sua parte, come lo era stato sin dal primo momento. Simili. Pari. Opposti a Sonne, subordinati persino.

Eppure, nonostante fosse adirato nei suoi confronti, non riusciva a odiarlo.

Era questo che lo fotteva. Una parte, dentro di lui, già vacillava.

Verena ripartì alla carica al posto suo. «Oltre che crudele sei... patetico. Hai così bisogno di possedere qualcuno che hai dovuto inventarti questa storia per giustificare il tuo attaccamento a noi, il tuo fallimento ad amare le persone che ti sono intorno senza metterti al primo posto. Ci siamo cascati, all'inizio, ma adesso ci vediamo chiaro.»

«No che non ci vedete chiaro. Siete ciechi, in questo momento. Ciechi

«Sei un bugiardo, Sonne, non credo più a una sola parola di quello che dici!»

Sonne la lasciò perdere e si avvicinò di nuovo a Richard. Con un guizzo dello sguardo aveva notato un minimo tentennamento da parte sua. Gli accarezzò una guancia, un gesto che gli fece sentire le ginocchia improvvisamente, infinitamente deboli. Richard s'irrigidì con tutta la spina dorsale per non cedere. Aveva già respinto una volta la mano che lo nutriva, quella di suo padre. Adesso era mille volte più difficile.

«Richard, il tuo racconto era ispirato a Thomas Mann. Ricordi, Tadzio, la sua bellezza, che fa sentire Aschenbach per la prima volta veramente vivo? Tu sei questo per me. L'apollineo e il dionisiaco. La mia estasi. Non dimenticarlo mai.»

Verena comprese al volo cosa stava cercando di fare. Gli agguantò il polso per sottrarlo a Sonne, poi lo trascinò fuori dalla stanza. «Vieni, prepariamo i tuoi bagagli.»

Richard annuì, sebbene fosse stordito. Si ritrovò ad aprire il proprio armadio, a prendere e gettare confusamente i vestiti in valigia, quasi senza rendersene conto. Sonne li aveva seguiti ancora, disse qualche altra cosa, anche Verena, ma i suoni cominciarono ad arrivargli ovattati alle orecchie. Tirò su col naso. Non si era accorto delle lacrime che gli stavano scorrendo sul viso. Aveva afferrato il walkman.

Lo soppesò per qualche secondo ignorando le grida dei due alle sue spalle. Gli venne in mente la sera della sua prima sparizione, quando lui e Sonne si erano stesi sul letto ad ascoltare i Judas Priest.

Dovette inghiottire a forza la consapevolezza che un momento del genere non sarebbe mai più tornato.

Era già andato tutto in frantumi.

Infilò il walkman e la sua collezione di cassette in uno scomparto della valigia protetto da una cerniera. Prese da un cassetto gli ultimi risparmi che erano sopravvissuti, li contò. I soldi sì che erano una cosa concreta. Si disse che per i primi tempi sarebbero bastati, e che poi avrebbe trovato un altro lavoro. Si sarebbe aggrappato agli sguardi delle altre persone per non sparire. Non sarebbe stato solo nemmeno per un attimo, con Verena al suo fianco.

Alle sei di quel pomeriggio, quando era già buio, uscirono dal 124 di Violenstraße con l'intenzione di non mettervi più piede – e un mare di tristezza che infuriava in petto. L'ultima cosa che videro di Sonne furono i suoi occhi pieni di dolore, gli occhi di un martire, di un amante abbandonato, di un genitore offeso. Era rimasto dritto e immobile nel salotto prima che sbattessero la porta di casa senza neanche salutarlo.

Quella casa... era lo specchio della sua testa. Era lui.

Vi erano stati sopiti troppo a lungo.







Note d'autrice:

Salve. Ho il cuore in mille pezzi. Ancora una volta.

Con questo capitolo si conclude ufficialmente la seconda parte di NEBEL, senza dubbio la più cupa e disperata........ per ora. Scherzo. Forse. Come per le altre due, la terza inizierà con un intermezzo di citazioni che pubblicherò qualche giorno prima del capitolo 35. Volevo avvisarvi proprio di ciò, a proposito: causa ultimi esami universitari (sì, non mi sembra vero), sono costretta a prendermi una pausa dalla scrittura fino a metà marzo. Consideratelo un piccolo hiatus, ma, mi conoscete, state certx che tornerò, anche perché non vedo l'ora di finire questa storia. Dovrebbero mancare ancora 17 capitoli. Stringo i denti, e spero voi con me ♥

Intanto fatemi sapere cosa ne pensate della chiusura di questo arco, se vi va. Come vi è sembrata la reazione di Richard e Verena, di totale negazione e rifiuto? Sonne era più in panico o delirio di onnipotenza (lol, mi è piaciuto molto scrivere il suo "monologo")?

Quale sarà la direzione d'ora in avanti?

Vi abbraccio calorosamente, a presto ♥


PS: Il titolo del capitolo, Die Hand, die dich füttert, significa La mano che ti nutre.

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