XIII. Rarität
N E B E L
XIII.
Rarität
L'imbarazzo Sonne l'aveva sempre sentito dietro le orecchie, su quella porzione di pelle tesa tra il collo e l'attaccatura dei capelli. D'un tratto gli si faceva bollente, come se avesse tenuto troppo a lungo la testa appoggiata su un cuscino di braci.
Era mattina e lui era seduto a tavola con una tazza fumante di caffè tra le mani, proveniente dalla nuova macchina da caffè espresso, quando Verena comparve in cucina introducendo nell'ambiente un profumo di bagnoschiuma alla vaniglia. Sonne aveva ascoltato lo scrosciare della doccia fino a pochi minuti prima, assorto.
In ogni momento della giornata sapeva con precisione cosa lei e Richard stessero facendo. Non sapeva se stesse cominciando a piacergli l'idea di poter assistere a ogni aspetto della loro vita quotidiana, di essere sempre presente con l'udito o con la vista.
Era un modo per controllarli, costantemente. E poiché lui amava avere il controllo su tutto, in fondo ne ricavava qualcosa di buono. Così si assicurava almeno che non stessero per fare qualche affronto alla casa così come avevano fatto durante la sua visita a Dresda.
Verena lo salutò con un «Buongiorno» che aveva un sentore di freschezza.
Le orecchie gli si fecero roventi. Sperò sul serio che non si fossero anche arrossate, che il suo imbarazzo non fosse visibile a tal punto. Le rispose con un cenno del capo, prima di bere un sorso di caffè.
Lei prese una bottiglia di latte dal frigo e un pentolino per scaldarlo, ma poi si ricordò all'improvviso, con un lievissimo sussulto delle spalle, che quell'azione implicasse accendere il gas davanti a lui. «Posso?» gli domandò, con una mano pronta a sfiorare una delle manopole dei fornelli.
Sonne fece per alzarsi. Era meglio che non vedesse fiamme e fiammelle neanche da lontano. Era meglio che cambiasse stanza, glielo suggeriva la spiacevole combinazione di paura e imbarazzo che si stava acuendo al suo cospetto.
«No, no!» esclamò subito Verena. «Tranquillo, lo bevo freddo.»
«Non c'è bisogno. Devo lavorare, tra poco.»
«Ma non hai ancora finito il caffè. Davvero, non importa. Resta.»
Resta.
Glielo chiedeva di nuovo. Una fitta agli stinchi gli impedì, in ogni caso, di mettersi in piedi. Era lei che gli faceva quest'effetto, dopo la sera precedente. Si chiese come potesse provare due istinti tanto diversi allo stesso tempo: dileguarsi e restare lì inchiodato, con il solo fine di osservarla.
Iniziava a capire che faceva tutto parte di un piacere infimo che non avrebbe dovuto provare.
Verena si sedette di fronte a lui, con il suo bicchiere di latte e un pacco mezzo vuoto di biscotti al cacao. La fissò spudoratamente mentre mangiava, scordandosi anche di bere il caffè.
Gli aveva dato lei il permesso.
Finì per concentrarsi sulle sue labbra, larghe e tumide, quello superiore che sporgeva appena di più rispetto a quello inferiore. Non era una bocca che divorava soltanto. Era stata clemente, con lui. Lui che l'aveva baciata con il timore di un cacciatore disarmato. Verena non ne era a conoscenza, ma nella sua mente aveva sperato fino all'ultimo secondo che lei si ritirasse.
Perché sapeva che dopo un gesto simile nulla sarebbe più stato al suo posto.
Si diceva che fino alla sera prima non aveva mai pensato a lei come a una possibile amante, ma in realtà l'aveva fatto eccome, più o meno coscientemente. Non contava granché la sua relazione con Richard, nel senso che non era un ostacolo per la sua immaginazione. Verena aveva le sembianze di un'amante universale. Ne aveva l'essenza. L'insaziabilità. Il corpo sodo e agile.
Una come lei potrebbe amare solo così, senza limiti.
Chiunque, nel vederla, avrebbe voluto prenderne un pezzo. Sì, qualcuno avrebbe anche voluto smembrarla per portare i pezzi con sé. Non aveva a che fare con la bellezza. Era una donna che generava reazioni forti, negli altri. In lui. Era troppo potente e Sonne non riusciva a spiegarsi da dove prendesse un tale potere.
All'apparenza era una ragazza normale.
Lui intravedeva molto, troppo altro.
Baciarla era stato come gettarsi in un pozzo senza fondo, giù verso il centro della Terra, nel suo nucleo incandescente ma oscuro. Si era sentito perso e poi ritrovato, perché nell'oscurità c'è anche, ed è impossibile non ammetterlo, un elemento familiare. Aveva dovuto fermarla prima che lei si spingesse oltre, fino a svelare, approfittandosi di quella familiarità, l'orrido corpo in cui era costretto a vivere. Era a quello che puntava, spogliarlo per poter vedere a sua volta?
I vestiti erano il limite materiale che si era cucito addosso per sempre. Ne aveva tanti, di limiti, a differenza sua. Forse lei avrebbe capito. Non aveva insistito, era stata clemente ma anche infinitamente comprensiva.
E Sonne le aveva toccato i capelli. Il momento che più ricordava con uno strappo al cuore. I capelli delle donne avevano per lui un fascino incommensurabile, non solo alla vista. Aveva affondato le dita tra le sue ciocche spettinate e si era sentito al sicuro: era così che aveva capito che Verena non gli avrebbe fatto del male, non quella volta, perché era la stessa sensazione che provava da bambino giocando con i capelli di sua madre. Struggimento che si univa a un piacere tattile.
Quella mattina li portava sciolti. Erano la florida selva sul pianeta del suo corpo.
Verena finì di mangiare prima che lui potesse accorgersene, ed era un paradosso dal momento che la stava guardando. Senza voracità e senza fretta aveva fatto sparire il cibo davanti a sé, tanto da fargli domandare se quel bicchiere fosse mai stato effettivamente pieno. Anche lei prese a osservarlo, con le mani intrecciate sulla superficie del tavolo.
«Ti è piaciuto, ieri?» gli chiese a bruciapelo.
Un'altra onda di bollore dietro le orecchie, e le gambe che si fecero di piombo. La voce gli uscì più roca di quanto si aspettasse. «Non è qualcosa che avevo preventivato.»
Verena fece un risolino divertito, ma non scortese. «Basta rispondere sì o no.»
«Beh, Verena... siete voi ad esservene andati.»
«Tu saresti rimasto?»
Sonne detestava le domande dirette. «Sono rimasto.»
«Vero» disse lei, mordicchiandosi il labbro. «Se non fosse stato per quello scemo di Richard...»
Era incredibile come per lei fosse facile, parlarne. Aveva un'aria accomodante e rilassata, per niente maliziosa – un'attitudine ben diversa da quella di Richard. La cosa peggiore sarebbe stata confrontarsi con lui e le sue stupide insinuazioni, a breve.
Verena invece faceva sembrare tutto naturale. Il mondo le scorreva accanto e lei vi si tuffava per partecipare, ma senza perdere nulla di se stessa, neanche un briciolo di ardore, anzi, era lieta di condividerlo con gli altri. Sonne la ammirava come si ammira un essere vivente diverso da sé. Funzionava in modo completamente opposto a lui, che voleva solo osservare il mondo attraverso un cannocchiale.
Era andato a dormire credendo che la proposta erotica della sera precedente sarebbe stata unica e irripetibile, ma adesso, adesso che si ritrovava di nuovo Verena di fronte, pregna di disinvoltura e limpidezza, cominciava a pensare che avrebbe tentato di coinvolgerlo ancora.
Perché pareva decisa a ottenere ciò che voleva.
Ma lo vuoi davvero?
Si umettò le labbra e incrociò le braccia. Poteva solo immaginare cosa gli avrebbe fatto Verena se non ci fosse stato il tavolo in mezzo. Si sarebbe seduta sulle sue gambe e...
L'imbarazzo diventava eccitazione, solo grazie alla sua forza immaginativa. Lei e Richard erano il supporto visivo alle sue fantasie. Non avrebbe mai potuto tirarsi indietro. Erano materiale preziosissimo per uno scrittore. Per la prima volta, dopo mesi, si era sentito ispirato. Era la sua mente ad essere sollecitata, più d'ogni altro organo. Disprezzava e puniva a tal punto il resto del corpo che non provava neanche più il desiderio come le persone normali.
Non aveva scritto niente, una volta rimasto solo, ma era stato colto dalla voglia spropositata di creare qualcosa, seppur qualcosa di indefinito. Era quella la sua eccitazione più grande, un brivido che serpeggiava fin nei polpastrelli, dove finiva la pelle e iniziava la penna, il foglio.
Si era messo a letto e non si era neanche masturbato. Si era convinto di dover digerire gli avvenimenti nel corso della nottata e di mettersi a scrivere l'indomani. Al buio aveva fissato il soffitto convinto di scorgervi immagini rivelatrici, che gli avrebbero mostrato il senso di ciò che era appena accaduto. In realtà non aveva dormito. Si era trattato più di un dormiveglia curioso, nei cui intervalli di coscienza erano giunti suoni sfrenati dalla stanza di Verena, e lui aveva provato a trasformarli in parole che si sarebbe dovuto appuntare, e che inevitabilmente erano state perse al risveglio. Non si era mai rigirato così tanto nel letto: quella mattina si era ritrovato con le gambe infreddolite e le coperte sul pavimento, aggrappate ancora al materasso solo per un lembo.
«Quindi ti è dispiaciuto per l'interruzione improvvisa» insinuò, studiando ogni minimo movimento di muscoli sul viso di Verena. Era difficile da descrivere, un viso come il suo. Se avesse dovuto metterlo per iscritto, avrebbe cominciato col dire: ricorda quello di un cerbiatto. Ma non vogliate farvi ingannare.
Verena si appoggiò allo schienale della sedia con un sorriso seducente. Incrociò anche lei le braccia, quasi mimandolo o riflettendosi dinanzi a uno specchio. «È stata una situazione davvero particolare. Avrei voluto vederne l'evoluzione.»
Era una conferma in qualche modo terrificante.
Lui a Verena piaceva.
Non sapeva come metabolizzare quell'informazione. Aveva bisogno di tempo per ragionare sui propri sentimenti.
Non poterono continuare la conversazione da soli perché in quel momento Richard entrò in cucina, in boxer e con una maglietta dei Metallica sgualcita. Anche di lui Sonne percepì l'odore, di membra che hanno assorbito il sudore e il sesso della notte. Era un odore che gli piaceva, che lo rendeva più virile. Il naso era coperto da una fasciatura ormai allentata, gli zigomi e le guance rovinate da chiazze che oscillavano tra il giallo e il viola. Vederlo così gli faceva ancora contorcere lo stomaco. Gli aveva fatto realizzare che la sua carne non era invincibile, né resistente quanto i diamanti, il marmo, l'alabastro e tutte le pietre a cui l'aveva sempre paragonata: colui che l'aveva sottratto alla morte, sfidandola, che avrebbe dovuto possedere qualcosa di sovrumano, che trasudava vita più di chiunque altro... era mortale.
Era stata un'epifania dolorosa.
«Avete fatto colazione senza di me?»
Verena non distolse lo sguardo da Sonne, ma ribatté ugualmente: «Non sei al centro dell'universo, Richard.»
«Del tuo sì.» La raggiunse alle spalle e le posò un velocissimo bacio sul collo, assicurandosi che Sonne vedesse. Poi guardò lui dall'altro capo del tavolo. «Chissà, forse anche del suo.»
Ancora quelle provocazioni inutili, come aveva immaginato, accompagnate da banali tentativi di farlo ingelosire. Sonne tollerava il suo lato infantile solo perché a volte riusciva anche a essere vagamente divertente.
Se non fosse stato per lui e per i suoi dispetti Sonne avrebbe potuto continuare ad assistere al loro piacere, la sera prima, rubandone un po' per sé.
Tuttavia, se non fosse stato per lui e per i suoi dispetti non sarebbe nemmeno accaduto nulla. Era sia merito che colpa sua.
Però gli aveva strappato la parte migliore, e in fondo non riusciva a non biasimarlo per questo. Esibizionista a metà, solo quando si era trattato di esibire i genitali, un modo animalesco e anche piuttosto scontato di rimarcare la propria presenza.
Credevi che non ti stessi prestando abbastanza attenzione?
A Sonne non interessava affatto la loro nudità. Gli interessavano le loro interazioni, la scena che avrebbero performato per lui, sapendo che lui era lì.
Gli chiedevano di guardare, ma non capivano bene che cosa significasse realmente.
Richard andò ad aprire il frigo con fare gongolante. Si compiaceva del suo stesso umore. Ancora, infantile, ma stavolta nel senso più amabile del termine. Rimase per qualche secondo a osservare i ripiani, tamburellando le dita sullo sportello. Poi lo richiuse di colpo.
Andò a sedersi accanto a loro a mani vuote, all'improvviso rabbuiato.
«Non prendi il latte?» chiese Verena.
«Nah, oggi no.»
«Ne hai bevuto così tanto che ti disgusta, adesso?»
Richard si rosicchiò una pellicina intorno al pollice. «Probabilmente sì.»
Sonne trovò interessanti i segni del suo nervosismo intorno a quell'argomento. Non solo l'iperattività che lo constraddistingueva, ma anche una sorta di impulso agognante, che era impossibile da ignorare. Si stava obbligando a non bere il latte, per motivi di cui Sonne non era al corrente, e il risultato era qualcosa di molto simile a una crisi d'astinenza. Dopo averlo conosciuto, all'università, aveva proprio avuto il sospetto, per un po', che si drogasse e che stesse cercando di smettere, per via delle pupille spesso dilatate e il tremore alle mani, oltre che per i giri che frequentava.
Anche Verena doveva essersi accorta dei sintomi. «Ti preparo una tisana?»
«Grazie ma no, non voglio niente.»
«Sicuro?»
«Sì, sì!» ribadì lui. Si alzò di nuovo, ancora più agitato. «Vado a vestirmi. Tu continua pure a parlare con il futuro premio Büchner (1) qui.» E sparì così com'era apparso, trascinandosi dietro il suo odore.
Sonne lanciò uno sguardo stranito a Verena, che lei colse al volo.
«Credo sia un po' in ansia per stasera» gli spiegò. «Deve tornare a lavoro e... dopo l'aggressione non prende molto bene l'idea di camminare da solo di notte.»
Lui strinse di più le braccia al petto, all'affiorare di un inspiegabile senso di colpa legato a quell'episodio, anche se non era stato lui a mettergli le mani addosso. Non riusciva a farsi passare l'idea che, in parte, fosse anche una sua responsabilità. Richard non ci aveva pensato due volte a rinfacciargli il suo conservatorismo – glielo rinfacciava da settimane, in tutti i modi possibili, e non era affatto d'aiuto. Sonne sentiva che sarebbe dovuto essere al suo fianco come lui lo era stato all'università salvandogli la vita. Non si trattava di ripagare il favore, ma di un arcano istinto di protezione, come se avvertisse un pericolo immenso, dietro l'angolo, che di giorno in giorno avanzava verso Richard.
All'inizio aveva pensato che quel pericolo potesse essere Verena stessa. Adesso si stava ricredendo. Anche lei intendeva proteggerlo a tutti i costi.
«È comprensibile.»
«Stavo pensando di andare a prenderlo, al ritorno...» continuò lei, prima di essere folgorata da un'idea. «Anzi, perché non mi accompagni? Neanche a me va di fare la strada da sola.»
Sonne esitò, colpito dalla richiesta. «Vuoi che ti accompagni?» ripeté.
«Sì, se non ti scoccia. Si tratta pur sempre dell'una di notte, su per giù. Però... di solito sei sveglio a quell'ora, no?»
«Va bene.» La velocità della risposta stupì anche se stesso.
Le labbra di Verena – un punto su cui cadeva ancora il suo sguardo – si schiusero in un nuovo sorriso soddisfatto. «Perfetto. Ti ringrazio. Così torniamo a casa tutti e tre insieme.»
Lo sottolineò senza volerlo, quel tutti e tre insieme, come se avesse sperato dal profondo del cuore di poterlo dire ad alta voce.
Brema deserta era il suo habitat. Aveva imparato a conoscerne le strade vuote di primo mattino, quando andava a correre, e a godersi il silenzio di una città che tace religiosamente prima di mettersi all'opera. Amburgo, dove aveva vissuto per poco meno di cinque anni, non se lo permetteva il lusso della tranquillità. A Dresda invece non aveva mai sentito la necessità del silenzio, troppo piccolo per sapere che più si sarebbe avvicinato all'età adulta, più avrebbe sofferto i rumori e la frenesia della vita cittadina, in cui è raro trovare un attimo di pace.
Tre città, tre momenti ben distinti della sua esistenza. Prima Est, poi Ovest. Una spinta verso Nord, verso il mare, per poi fare un passo indietro e ancorarsi definitivamente alla terraferma.
Sonne avrebbe potuto raccontare un'infinità di racconti a Verena, quella notte, lungo la strada. Conservava con cura le impressioni che aveva catturato da ciascuna città, visioni d'insieme e dettagli irrilevanti, che finivano per comparire senza volerlo nei suoi testi. Aveva peregrinato e ne aveva fatto tesoro. Proprio come lei.
Ma lei taceva. In questo si somigliavano: entrambi si rifiutavano di far rivivere il passato attraverso la voce.
Sonne temeva che quello di Verena fosse funesto quanto il suo.
Era così brava a celare. Fin nel modo di camminare, con le spalle dritte e le gambe sciolte, dissimulava ciò che si portava dentro. Non importava quanto lo ammaliasse, Sonne avrebbe sempre pensato che lei stesse nascondendo qualcosa. Se l'avesse saputo, Verena l'avrebbe odiato per il suo continuo sospetto.
Però le stava concedendo un briciolo di fiducia.
Erano usciti poco dopo mezzanotte. Si erano accordati per quell'ora perché non sapevano di preciso quando sarebbe finito il turno di Richard.
«Se ci tocca aspettare almeno possiamo berci qualcosa insieme» aveva suggerito lei.
Era in trepidazione. L'idea di fargli quella piccola sorpresa sembrava averle ribaltato la giornata. Emanava una contentezza quasi tangibile, da cui Sonne era stato investito.
Non usciva di sera da così tanto tempo da aver dimenticato che anche Brema offrisse una discreta sfilza di punti d'incontro per i giovani, persino nel centro storico, come nel caso del Musikant. Si era addirittura dimenticato di esserlo lui stesso, giovane.
Percorrendo la Marktplatz, con le mani in tasca e il bavero del cappotto alzato, capì di aver perso troppi anni della sua vita – per come amava intenderla la gente. Sonne ormai era abituato a viverla così, da recluso. Gli stava bene, se ci rifletteva. Era quello che voleva e quello di cui aveva bisogno, anche se ai più suonava come una bugia.
Erano stati Verena e Richard a far insediare il disordine nella sua realtà, e Sonne ne era sempre più scombussolato, sebbene fosse stato lui ad averlo permesso.
Anche lei tenne le mani in tasca, durante il tragitto. Tirava un vento gelido che produceva una serie di sibili e soffi lugubri tra le statue e i fregi dorati della piazza. Era un autunno freddo, di come non se ne vedevano da anni. Il freddo spingeva a meditare. La suola degli stivali di Verena generava, invece, uno schiocco riconoscibilissimo sulla pavimentazione di pietra. I pensieri di Sonne seguirono il suo ritmo.
Pensava a quanto poco distante fosse Verena. Si era fatta sempre più vicina e lui non si era opposto. Se le loro mani fossero state libere si sarebbero sfiorate.
Pensava al fatto che nessuno l'avesse mai visto passeggiare con una donna per strada.
Pensava che solo una donna come Verena avrebbe potuto catturare la sua attenzione.
«Ci siamo dimenticati il costume di Halloween, comunque» disse lei, cercando di fare conversazione e di intercettare i suoi occhi oltre la spalla e il bavero.
«Solo l'ennesima trovata consumistica dell'Ovest.»
«Io la trovo divertente. Tutte le culture bene o male prevedono una festa in cui ci si maschera. Far crollare i ruoli sociali, dimenticarsi i problemi per un giorno, esorcizzare la paura della morte... sai, cose così.»
Sonne non ribatté e continuò a guardare dritto davanti a sé.
«Tu da cosa ti saresti vestito?»
«Da niente.»
Verena sbuffò ironica. «Guarda che non si è mai troppo vecchi per certe cose.» Rimuginò per qualche secondo, poi esclamò: «Potresti essere un vampiro! La predisposizione ce l'hai. Gli scrittori vivono più di notte che di giorno.»
«I vampiri si servono del proprio fascino per attirare le vittime. Non credo sia una mia predisposizione.»
«Invece sì. Tu hai fascino.»
Nonostante la bassa temperatura, le orecchie gli si fecero bollenti ancora una volta. Nessuno gli aveva mai detto una cosa del genere. Le avrebbe chiesto cosa ci trovasse di affascinante in lui, ma era una domanda che avrebbe solo portato ad altro imbarazzo, così non rispose.
«Magari proprio ieri ci hai attirati in una trappola» proseguì lei, incurante di rigirare il coltello nella piaga. «E se fossimo rimasti ci avresti lasciato un bel morso sul collo.»
Sonne la guardò per un istante, le guardò anche il collo, perché il vento le aveva gettato tutti i capelli dietro le spalle. «Magari sì» si convinse a dire.
«Conte Rothberger suona bene. Attento, però, che io e Richard potremmo avere un paletto nascosto da qualche parte per difenderci.»
O per attaccarmi.
È questo che state facendo, mi state attaccando.
«E io che vi permetto di vivere sotto il mio stesso tetto...» Sonne non poté trattenere l'ombra di un sorriso, perché gli pungeva agli angoli delle labbra. Oltre all'imbarazzo, Verena riusciva a tirar fuori di lui l'ultima traccia di spontaneità che gli era rimasta.
Lei, imperterrita nel volersi prendere gioco di lui, replicò: «Non è la parte più eccitante?»
Sonne cercò di non farsi domande su quelle provocazioni. Qualunque fosse l'intento di Verena e Richard, voleva vedere cosa sarebbe successo d'ora in avanti. Vedere con lo sguardo. Se lì stava il suo godimento, allora li avrebbe assecondati per la pura curiosità di scoprirlo. Sarebbe stato spettatore della sua stessa vita, uscendo dal proprio corpo e guardandosi dall'alto: nient'altro che un burattino calato in una scenografia.
Con quel tipo di astrazione e straniamento sarebbe stato meno in tensione, perché lui non sarebbe più stato lui, da una certa prospettiva. Poteva usare il potere dello sguardo anche su se stesso.
Il Sonne che camminava al fianco di Verena decise di rimuovere le mani dalle tasche.
Lei lo imitò.
Passo dopo passo, come aveva immaginato, le loro dita fredde si sfiorarono e nessuno dei due le ritrasse.
Quando giunsero al Musikant, scendendo delle scale che conducevano in un seminterrato illuminato da luci basse e polverose, Richard li vide subito.
Sonne non fece in tempo ad ambientarsi o sfilarsi il cappotto, già accaldato per l'improvviso cambio di temperatura, che lui si precipitò da loro ignorando anche un cliente che lo stava chiamando da uno dei tavoli.
«Che ci fate qua?» chiese, una sorpresa radiosa a bagnargli gli occhi.
«Ci andava di fare un giro...» disse Verena fingendo nonchalance, con un tono abbastanza alto da non farsi coprire dalla musica. In un angolo del locale una band dai membri truccati da teschi messicani suonava canzoni rock della decade passata.
Richard rise e le poggiò una mano sulla schiena per tirarla verso di sé e scoccarle un bacio sulla bocca. «Anche a Sonne andava? Mettere piede fuori di casa? Tutto questo ha dell'incredibile.»
Lei lanciò un'occhiata ammiccante a Sonne, mentre teneva un palmo sul petto di Richard. «Non sai di cosa sono capace.»
L'altro si guardò intorno. Lui e Verena erano gli unici a non indossare un costume. Tra i clienti figuravano fantasmi, zombie, fate, serial killer, bambole assassine... nessuno di davvero spaventoso, considerando la scarsa qualità degli abiti, il modo raffazzonato in cui erano stati assortiti e il fatto che gran parte degli indossatori fosse già ubriaca da un pezzo.
Anche i camerieri avevano delle maschere o un trucco a tema. Richard era truccato da gatto. Qualcuno gli aveva disegnato il muso sulla fasciatura al naso, una sorta di cuoricino nero, e dei baffi dritti sulle guance con un eyeliner scolorito. Tra i capelli era infilato un cerchietto con delle orecchie a punta.
«Interessante la scelta del costume» commentò, deciso a controbattere alle sue assillanti prese in giro, almeno per quella sera.
«Non l'ho scelto io, altrimenti sarebbe stato qualcosa di molto più spettacolare.»
«Sei carinissimo, però» disse Verena.
«Quello sempre. Comunque vi faccio sedere prima che qualcuno venga a rompermi le palle perché ce ne stiamo impalati davanti all'entrata.»
Li accompagnò a un tavolo libero poco lontano, accanto a un poster enorme di Jimi Hendrix. Loro si sedettero su degli sgabelli alti e si tolsero i cappotti, Richard rimase in piedi ma si appoggiò al tavolo con i gomiti.
«Come procede la festa?» gli chiese Verena, ammirando le decorazioni arancioni e nere, prevalentemente zucche e scheletri, che pendevano a ogni angolo del pub. Al centro di tutti i tavoli c'era un cestino con delle caramelle gommose.
«Mah, tutto sommato è stata più tranquilla di quanto immaginassi, a parte il solito schiamazzo. Tra poco chiudiamo, un po' di gente se n'è già andata.»
«Allora ti aspettiamo.»
Richard sorrise. «Ok. Solo che stasera devo restare fino all'ultimo per parlare dello stipendio e dei giorni che ho saltato con il capo. Pregate per me che non decida di licenziarmi.»
«Perché dovrebbe?»
«Non lo so, dice sempre che sono lento e che perdo troppo tempo...»
«Anche adesso stai perdendo tempo» gli fece notare Sonne incrociando le braccia. «Anzi, perché non ci porti da bere, già che ci sei?»
Richard lo guardò inarcando le sopracciglia, esterrefatto. «Ah, vuoi giocare sporco?»
«Se parlare con un cameriere equivale a giocare sporco...» Aprì il menù e scorse velocemente con gli occhi la sezione dei drink analcolici, prima di decretare: «Per me una menta con latte di mandorla. Per te, Verena?»
«Una mezza pinta di Paulaner, grazie» lo spalleggiò lei.
Richard fece loro il dito medio e si allontanò dicendo: «Ve le porto subito.»
Sonne lo seguì istintivamente con lo sguardo, finché non raggiunse il bancone. La sua divisa era nera e semplice, composta da una camicia infilata nei pantaloni, con le maniche arrotolate sugli avambracci, e un grembiule a righi grigi. Lo fasciava con una certa aderenza, evidenziandogli il fisico asciutto, gli spigoli del corpo, la curvatura delle gambe e dei glutei. Era un bel ragazzo, sapeva di esserlo e in aggiunta non faceva altro che attirare l'attenzione della gente attraverso la sua eccentricità, la sua vanità, anche in circostanze in cui poteva risultare fuori luogo. L'aveva notato sin dal giorno in cui si erano conosciuti, in ospedale. Aveva subito visto in lui una creatura efebica, dall'aspetto apollineo eppure dall'inclinazione dionisiaca. Una sintesi che non aveva mai riscontrato in nessun altro essere umano. Principio di armonia e bellezza contro principio di disordine ed ebbrezza, che solitamente si escludevano a vicenda.
La loro unione era una rarità.
Dopo l'incidente non si erano più parlati, se non di sfuggita per salutarsi nei corridoi dell'università o in metropolitana, lui sempre accerchiato da amici e conoscenti, irraggiungibile. La modalità di volta in volta era la stessa. Richard gli sorrideva calorosamente, individuandolo nella folla, e gli faceva un cenno con la mano, forse aspettandosi che lui si avvicinasse. Sonne avrebbe potuto avvicinarsi, in realtà, ma la presenza di altre persone e i pregiudizi relativi alla droga lo frenavano. Così, proprio perché non poteva parlargli, la curiosità genuina che provava nei suoi confronti era diventata, nel corso del tempo, un'ossessione intima e irrazionale. Tutto ciò che non riusciva a vivere si svolgeva allora nella sua mente, tra le sue sicure e confortevoli pareti.
In quel periodo aveva preso ad associare Richard al Tadzio di Der Tod in Venedig (2), motivo per cui Sonne aveva ricoperto, di conseguenza, il ruolo di Gustav von Aschenbach, mentre Amburgo era stata la loro Venezia. Aveva persino iniziato un racconto su di lui ispirandosi alle dinamiche dell'opera di Mann, ma non l'aveva mai portato a termine. L'aveva abbandonato perché doveva concludersi con la propria morte tra le fiamme. Sonne non vedeva altro finale possibile per richiamare la stessa sorte di Aschenbach, ma non era pronto a scriverlo.
Pian piano quella fissazione era scemata, in concomitanza con la laurea e il ritorno a Brema. E per cinque anni Richard era rimasto nient'altro che un ricordo radicato nella sua memoria, ammantato da un'aura inviolabile, ma mai più riportato a galla.
Quando se l'era ritrovato sull'uscio di casa per un momento aveva creduto che non fosse davvero lui. Il sé di cinque anni prima probabilmente si sarebbe sentito mancare dinanzi all'idea di viverci assieme, di poterlo osservare fin nei movimenti quotidiani senza risultare indiscreto. Il sé attuale, invece, si era comportato con grande distacco. Non era più lo stesso. Non c'era più spazio per le ossessioni, i dubbi e le illusioni.
Per questo, al pub, Sonne si rimproverò per aver pensato di nuovo a lui in quel modo.
Lui non era come Richard. Ne aveva la certezza.
Verena si era accorta che lo stava guardando. Quando Sonne tornò a concentrarsi su di lei, lo fissò come se stesse cercando di studiarlo, rapita da una qualche intuizione che aveva avuto. Per un attimo sembrò che volesse giudicarlo, poi scosse la testa divertita.
«Che c'è?» le chiese.
«Niente. Stavo solo pensando... quand'è che hai intenzione di scusarti con Richard?»
Sonne s'irrigidì senza poterlo impedire. «Si aspetta ancora che mi scusi? Per una cosa successa quasi un mese fa?»
«Certo.»
«Se l'è legata al dito, allora.»
«No, Sonne. Ci è semplicemente rimasto molto male.»
«Non avrebbe dovuto. Lui è libero di fare quello che vuole. Cosa gli importa di ciò che penso io?»
Verena lo trafisse con lo sguardo. «Gli importa eccome. Gli importa l'opinione che hai di lui perché si è affezionato a te. Succede, nei rapporti umani.»
Sonne si sistemò meglio sullo sgabello, a disagio. Toccava ancora con i piedi a terra, mentre quelli di Verena, incrociati, dondolavano sotto il tavolo. «Io e lui non abbiamo un rapporto ben preciso.»
«Eppure gli hai confidato la tua paura...»
«Solo perché era l'unico che potesse capire. Ti ha raccontato come ci siamo conosciuti, immagino.»
«Sì.»
«Lo sapevo.» C'era una vaga delusione, nella sua voce. Richard aveva esposto parte del suo passato a Verena, ma a quel punto era diventato naturale, se lo aspettava. Verena, per lui, adesso era più importante di Sonne. «Gliel'ho detto per frustrazione, perché mi aspettavo che l'avrebbe capito da solo.»
Era una mezza verità.
E perché è l'unico di cui mi fidi, avrebbe dovuto aggiungere. Anche se, in fin dei conti, Richard conosceva solo la punta dell'iceberg: ossia la paura, che non era affatto l'aspetto più rilevante. Il resto non l'avrebbe mai raccontato a nessuno.
Verena non sembrava molto convinta. Non aggiunse nulla solo perché in quel momento Richard tornò con le loro ordinazioni.
Posò rumorosamente il bicchiere e il boccale sul tavolo. «Non offre la casa» ci tenne a precisare. Sonne notò che aveva ancora lo smalto sulle unghie, anche se si era scheggiato. «Il conto si paga in cassa.»
«Perfetto» disse lei.
«Comunque mi sa che un tipo ci ha appena provato con me» raccontò, guardando per un secondo dietro di sé. «È appena uscito. Prima mi ha fissato per un po', poi mi ha detto che mi aveva scambiato per qualcun altro. Bella scusa. Lo so che sono un figo anche con le orecchie da gatto e il naso rotto.»
Verena resse il mento sul palmo della mano, mostrandosi interessata. «E perché non ci sei stato?»
«Beh, perché... sono troppo impegnato a cercare di conquistare il cuore di qualcun altro» rispose, e si appoggiò con un braccio alla spalla di Sonne.
Lei scoppiò a ridere.
Sonne si ritrasse bruscamente, ma questo li divertì ancora di più. Ecco cosa succedeva, a chiacchierare con persone disinibite come loro. Si maledì da solo per essere finito nella rete. «Non credo tu abbia molte speranze, Richard» bofonchiò.
«Sempre meglio che nessuna» commentò Verena.
A quel punto, Richard riprese le parole della canzone dei Kiss che la band stava suonando, mettendosi a cantare: «I was made for lovin' you baby, you were made for lovin' me. And I can't get enough of you baby, can you get enough of me?» Improvvisò qualche movenza sensuale con il bacino, strusciandosi al suo fianco, e gli accarezzò i capelli sulla nuca, tra l'approvazione di Verena – l'approvazione! – e il suo ormai dilagante, patetico, vistoso imbarazzo.
Fu salvato da un altro cameriere, che riprese Richard dal lato opposto della sala: «Weigl! Smettila di fare il coglione, ti chiamano al tavolo tre!»
Una volta andato via, Sonne trangugiò un lungo sorso di menta gelata e si allentò il collo del dolcevita per il caldo.
Trovò ironico ricordarsi in quell'istante che Tadzio non aveva mai rivolto la parola ad Aschenbach.
«Allora?» chiese Verena quando uscirono dal locale. Le luci iniziavano a spegnersi e la temperatura ad abbassarsi.
«Allora non mi hanno ancora licenziato. Köhler è un rompicazzo di prima categoria, però è anche una brava persona. Mi vuole quasi bene.»
«Perfetto. Continua a farti voler bene, così puoi pagarmi l'affitto» disse Sonne.
«Oppure posso finalmente cambiare casa.»
Verena si schermò la bocca con una mano e bisbigliò a Sonne: «Bugiardo, non lo farebbe mai.»
Stretti nei rispettivi cappotti, fecero la strada del ritorno, la stessa, parlando di questioni del tutto irrilevanti. Il tempo trascorse molto velocemente. Richard e Verena ronzarono intorno a Sonne come mosche intorno a una carogna, perché anche le cose morte hanno un fascino che impedisce agli osservatori, vivissimi, di distogliere lo sguardo.
Ma Sonne osservava a sua volta, ancora, non riusciva a farne a meno. Osservava anche se stesso dall'alto, come si era ripromesso. Li vedeva tutti e tre muoversi in un'atmosfera atemporale, così fluida da trasformarsi insieme a loro, senza una direzione precisa. Tre biglie trasparenti che scivolavano sul suolo della città delle fiabe, sospinti da una forza sconosciuta e più grande di loro.
A stento se ne accorse quando arrivarono a destinazione, dinanzi al portone del 124. Richard era in testa. Sereno, perché la loro compagnia aveva prosciugato la sua ansia, ma comunque impaziente di rimettere piede in casa, quella che stava diventando anche casa sua, e non c'era altro luogo in cui si sentisse più felice, tenuto insieme con tutti i suoi pezzi.
Si era tolto le orecchie da gatto, ma non si era ancora struccato. Estrasse le chiavi dalla tasca, mentre Sonne era fermo accanto a lui, con le spalle addossate al muro. Verena oscillò davanti a loro quasi danzando, con un lungo movimento morbido agevolato dal suo grazioso vestitino di lanetta, e approfittò della posizione di Sonne per infilare le braccia dietro la sua schiena e appoggiarsi a lui. Lui si beò del suo calore, una forza che le si irradiava dal centro esatto del petto.
Mentre lei si stringeva a lui, premendolo contro il muro, Sonne le fissò le labbra. Allora Verena si alzò in punta di piedi e lo baciò. Di nuovo, lentamente. Lui le sfiorò un fianco sotto il cappotto. Schiuse la bocca, le respirò sulla bocca, per prendersi un po' del suo soffio vitale.
Aveva paura. Non s'arrischiò più di così, non si mosse più di così, con gli occhi serrati e i battiti incontrollati, immobile tra le braccia di Verena e la parete.
Non c'era nulla di casto nella sua tenerezza. Anche quella era fame. Gli diceva che voleva ricominciare tutto da capo, da dove si erano fermati la sera precedente.
Lo pensò finché non sentì qualcosa infilarsi tra i propri capelli. Verena sgusciò via da lui con una risata furbesca, a cui si unì presto anche Richard, più sguaiatamente di lei. Aveva appena aperto il portone.
Sonne si portò una mano alla testa e capì: Verena gli aveva messo il cerchietto con le orecchie a punta.
«Siete malefici» disse loro, forse la frase più sincera che gli avesse mai rivolto, per niente sarcastica.
Ridendo, ridendo, Richard e Verena scapparono all'interno del palazzo con i cappotti svolazzanti intorno ai polpacci, di corsa su per le scale, come folletti o bambini che non volevano essere acchiappati, rumorosi, fastidiosi, adorabili – come se prima di allora non fossero neanche mai stati bambini e non avessero mai avuto la possibilità di giocare. Sonne restò fermo sotto l'arco del portone. Li guardò avanzando piano, le braccia fiacche lungo i fianchi e i palmi delle mani rivolti verso l'esterno, totalmente arreso alla verità che in quel momento gli apparve di fronte, calando con grazia dal cielo. Le ginocchia tremanti, un groppo alla gola e l'improvvisa voglia di piangere dall'esasperazione.
Fermi!, avrebbe voluto urlare.
Stavano invadendo ogni suo spazio fisico e mentale, e non poteva gestirli o controllarli, né liberarsi di loro.
Era troppo tardi per mandarli via.
(1) Il Premio Georg Büchner, istituito nel 1929, è il premio letterario più importante per la letteratura di lingua tedesca.
(2) "La morte a Venezia" (1912), Thomas Mann.
Note d'autrice:
È tardi. È stato un aggiornamento a dir poco notturno. Se lo leggerete domattina, sarò felice di strapparvi un sorriso. Perdonatemi, ma... è uscito un capitolo molto più lungo di quello che avevo previsto. Spero almeno che vi sia piaciuto. Personalmente, ci sono delle parti che mi ammazzano. E tanta stupidità da parte dei personaggi, ma gli si vuole bene anche per questo. E parecchi indizi per il futuro, mi auguro abbastanza subdoli.
Il riferimento a La morte a Venezia è importantissimo, perché è stata un'opera fondamentale nella mia esperienza di lettrice, così come in quella di Sonne. Non è l'ultima volta che si nominerà Thomas Mann, infatti ♥
Il titolo, Rarität, significa rarità. Fa riferimento a una riflessione di Sonne nella terza parte del capitolo, sulla congiunzione tra apollineo e dionisiaco (Mann ma soprattutto Nietzsche mi danno l'ok dalla tomba). Avevo pensato anche ad altri titoli, ma questo alla fine mi è sembrato il più azzeccato.
Prossimo aggiornamento: venerdì 22 gennaio. Poiché è appena iniziata la sessione invernale, come vi avevo anticipato, gli aggiornamenti non saranno più strettamente settimanali. Almeno fino alla fine della prima parte della storia, cioè fino al capitolo 16. Cercherò comunque di aggiornare ogni nove/dieci giorni.
A presto ♥
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