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Capitolo 9

Per una settimana consecutiva mi recai da Jahira.
La prigioniera non aveva dato segni di voler parlare così avevo mandato un primo scaglione dell'Esercito Celeste a devastare l'universo. Quando la ragazza l'aveva saputo aveva abbassato gli occhi e stretto le labbra. Non un suono le era sfuggito sotto l'impeto della mia furia.

Mi svegliai accanto ad Arsiel. Le sue forme nude si stagliavano contro la luce fresca del sole nascente. Sorrisi ma non riuscii a trovare un motivo valido per mantenere quell'espressione, così gli angoli della mia bocca tornarono pigramente al loro posto. Mi alzai e con poco entusiasmo mi vestii. Era una di quelle giornate noiose che rendevano eterna l'eternità.
Scesi e trovai lungo la strada diversi Dei Minori che con il consueto timore reverenziale si gettarono a terra al mio passaggio. Li superai e mi diressi verso i sotterranei. Avevo deciso: quel giorno Jahira avrebbe parlato.
Raggiunsi la sua cella e spalancai la porta con poca grazia. La donna era in piedi e fissava l'unica celletta dalla quale filtrava un debole refolo d'aria e un labile raggio di sole che le colpiva una guancia illuminado quell'unico punto, rendendolo inquietantemente pallido.
- Donna.- chiamai e lei ebbe almeno la decenza di voltarsi.
- Vieni con me- dissi e lei mi seguì docile. Non avevo paura di lei, non mi preoccupavano più i suoi assalti repentini, perché spesso finivano con lei a terra con il naso sanquinante.
La guidai attraverso i cunicoli fino alla solita stanza che questa volta però non era vuota. Avevo provveduto ad attrezzarla in modo adeguato.
Le feci segno di entrare e lei mi precedette in silenzio e si bloccò subito oltre la soglia. Sogghignai nel vederla finalmente tremare. Fino ad ora l'avevo trattata con i guanti ma quel giorno avevo fatto portare strumenti di tortura di ogni sorta e lei avrebbe dovuto personalmente scegliere quale patire. O quello o la parola, era molto semplice, glielo spiegai e lei mi sfidò con lo sguardo per l'ennesima volta. Io le sorrisi e attesi paziente che parlasse, ma non lo fece. Si diresse a passi lenti e misurati verso un paio di catene di fianco al quale un gatto a nove code faceva bella mostra di sé.
- Che stai facendo donna? Davvero preferisci la frusta alla parola? - le chiesi incredulo e lei mi rivolse un'occhiata decisa ma priva di qualunque emozione. Mi colpì molto la velocità con cui aveva recuperato la sua impassibile sicurezza.
- La tua fedeltà è ammirevole... Peccato che la tua regina non lo saprà mai- dissi riprendendomi schernendola e facendola sobbalzare. In un istante fui al suo fianco e le immobilizzai i polsi.
Avevo sete del suo sangue, delle sue urla, del suo dolore... Non avrei avuto la sua morte, ma il resto sì.

Jahira sopportò in silenzio, colpo dopo colpo. Volevo che si piegasse alla mia volontà, volevo sentire la sua voce ma Jahira era un'umana perfetta, come avevo voluto crearla io. Lei apperteneva a quella specie che avevo scelto come nemica e non avevo sbagliato. Non cedette.
Quando la sua schiena fu troppo mal ridotta per continuare lanciai a terra la frusta, incapace di comprendere come quell'esile creatura avesse potuto resistere così a lungo senza perdere i sensi e senza urlare. L'avevano addestrata bene. Oppure era troppo intorpidita dal dolore. Per un attimo mi venne anche il dubbio che potesse essere muta, ma subito  mi resi conto che invece aveva tutte le caratteristiche necessarie per poter parlare.
- Jahira... sei una donna ostinata - le sussurrai all'orecchio. La mia figura la sovrastava come un'ombra.
La osservai un istante: i capelli corti non riuscivano a celarle il volto congestionato dal dolore e matido di sudore, il fiato corto e spezzato le alzava e abbassava il petto in modo irregolare, gli occhi fissavano il vuoto, spalancati e sbarrati, vuoti. Sfiorai la sua spalla con un dito e tutto il suo corpo si ribellò a quel contatto con uno spasmo. I suoi muscoli erano tesi fin quasi allo strappo.
Scossi la testa. In fondo, un po' ammiravo il coraggio di questa giovane. Aveva fegato, ma ero piuttosto tentato di considerarla stupida. Il coraggio non è vero coraggio se è dettato dalla stupidità. Ed era stupido continuare a sfidarmi.
Scorsi il dito fino ai polsi immobilizzati dagli anelli di ferro, dove era riuscita a ferirsi da sola strattonando cercando di liberarsi. Sospirai a metà tra l'esasperazione e lo sconcerto e la sciolsi dalle catene. La ragazza si accasciò tra le mie braccia e io non potei evitare di sostenerla. Non volevo che perdesse i sensi, non volevo perdere tempo, volevo che lei si convincesse a parlare con me e così feci una cosa che era da tanto, troppo tempo che non facevo e che mai avevo fatto per alcuno, oltre me stesso: la guarii creando. Usando il mio potere primordiale, la feci praticamente rinascere: richiusi le sue ferite purificandola e la rivestii di una tunica nuova. Quando finii, ciò che mi trovai di fronte stupì più me che lei.
La ragazza aveva uno sguardo stupito, sorpreso, si fissava cercando di capire dove fosse finito tutto il dolore e il sangue e poi fissava me con le sue iridi smeraldo.
Io ero incantato. Non avevo fatto nulla di speciale e non era la ragazza che mi aveva bloccato; era la sensazione che avevo provato guardandola, la sensazione che avevo provato creando. Mi ero quasi dimenticato cosa si provasse, cosa significasse dare vita a qualcosa.
Mi guardai le mani che al contrario di Jahira non avevano perso le chiazze rosse di sangue e mi scoprii disgustato per ciò che avevo fatto. Fissai la ragazza tra la mie braccia e poi la adagiai per terra alzandomi e allontanandomi da lei.
Non appena distolsi lo sguardo dalla sua figura la sensazione che avevo provato scomparve e tornò il mio freddo sadismo. Tornai a guardare la prigioniera e non vidi altro che una semplice umana guarita dalla tortura che poco prima le avevo inflitto. Me ne rallegrai perché così avrei potuto ricominciare.
Mi diressi verso di lei ma dopo due passi una parola ebbe il potere di immobilizzarmi. Era stata solo sussurrata. Jahira era voltata verso l'unica finestra, come prima, quando ero andato a prenderla. Sembrava un fiore, sempre in cerca di sole, costretto a vivere all'ombra di un albero. La fissai a lungo e mi chiesi se non mi fossi sbagliato e avessi sentito male.
- Jahira...- la chiamai per nome, era la seconda volta e mi stupii, - Ripeti ciò che hai detto- la supplicai. Avevo bisogno che mi confermasse ciò che avevo sentito non era solo una mia fantasia. Lei non diede segno di voler rispondere.
Mi ricordai che tra gli uomini vigeva una regola: l'utilizzo di una forma di cortesia. Decisi di tentare e la supplicai nuovamente.
- Donna. Per... favore...- sputai fuori con fatica. Mi costò un enorme sforzo, odiau l'effetto che quella mortale mi stava facendo. La giovane si voltò e guardarmi e mi inchiodò con il suo sguardo.
- Grazie- sillabò con le labbra sottili, senza emettere un suono.

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