Capitolo 23
Rubrick mi guidò di nuovo verso la periferia.
Nei bassifondi più sporchi e maleodoranti.
Il suo passo era rapido e sicuro e superava il mio di gran lunga. Era frustrante dover vestire i panni di un vecchio, farsi aspettare da un ragazzino, arrancare, farsi venire il fiatone; decisi che nella prossima città avrei assunto l'aspetto di un soldato o qualcosa di più adatto a spostarsi.
Camminando a passo lento raggiunsi il giovane vicino a un mucchio di macerie, mi sedetti. - Vecchio, siete stanco? - chiese Rubrick divertito.
Mi irritai un po' per il suo tono sfacciato e mi venne la tentazione di tornare sui miei passi ma poi mi calmai.
- Non chiamarmi vecchio- gli intimai, lui ridacchiò, - come dovrei chiamarvi dunque?- chiese, e mi prese in contropiede. Come avrebbe dovuto chiamarmi? Ero abituato a sentirmi chiamare Mio Signore, Dio degli Dei... ma nessuno si era mai rivolto a me in modo diverso né l'avevo permesso. Io avevo un nome, ma nessuno lo conosceva, nessuno l'avrebbe mai conosciuto, tanto meno un ragazzino ribelle e irrispettoso.
- Chiamami Dottore... va bene così, basta la mia professione-.
Rubrick sorrise - Va bene Dottore. Allora andiamo. Mamma ci aspetta- disse allegro e mi invitò ad alzarmi.
Io lo seguii sperando che il percorso da fare fosse breve.
Arrivammo poco dopo a uno spiazzo, mi resi conto solo in quel momento che avevamo raggiunto le mura, nei pressi di una breccia. Passando tra due case abbandonate sotto un arco e ciò che mi si parò di fronte fu un piccolo angolo di pace. Poco oltre l'arco, un soffice manto di erba ricopriva il terreno, tutt'intorno lo spiazzo verde era circondato da una montagna di macerie addossate da una parte al muro e dall'altro alle due case con l'arco, creando una conca raccolta e riparata, verde e luminosa.
Rubrick mi guidò ai piedi del muro dove era costruita quella che si potrebbe a mala pena definire una baracca, addossata alla parete, costruita di legno e ricoperta da un rampicante dai fiori lilla. - Questa ela casa mia - disse con orgoglio e facendomi segno di entrare. La stanza era minuscola e praticamente vuota. C'era un tavolino, un mobiletto, un focolare a pavimento e un giaciglio su cui era stesa una donna di mezza età febbricitante e priva di coscienza.
Rubrick si fece serio e si avvicinò alla madre lentamente e in silenzio, si chinò e le accarezzò una guancia, - Mamma... svegliati. Ho portato un dottore. Presto starai bene vedrai, devi solo svegliarti - sussurrò dolcemente e io lo osservai con attenzione, mentre si prendeva cura della madre.
Mi avvicinai e studiai le condizioni della donna e mi resi conto che la situazione era peggiore di quello che avessi sospettato. Se fossi arrivato anche solo il giorno dopo probabilmente non ci sarebbe stato molto da fare. Guardai Rubrick e ammirai la sua dedizione e il suo impegno. In quel momento, lo osservai di sfuggita, stava fissando a labbra strette le mie mani che percorrevano il corpo di colei che era la sua unica famiglia.
Lo rassicurai con un sorriso, - Domani tua mamma sarà in grado di camminare - gli dissi.
Lui mi fissò sbalordito, - Se ne siete capace Signore... Io lo spero- disse il ragazzino.
Io annuii per rassicurarlo, avrei lavorato tutta la notte così da dare al corpo della donna il tempo di assorbire le cure della mia essenza.
Mi misi al lavoro quasi subito e mandai Rubrick a cercare per me erbe di vario genere, in modo da dare l'impressione di essere un medico normale, facendogli promettere di non rubarle.
Mentre passavo la mia energia alla donna studiavo i suoi tratti. Era molto diversa da Dunkelheit. Aveva il volto scavato e affilato, i capelli lunghi e castani, annodati e sporchi. Il corpo era rivestito da un sudicio e grezzo abito di lana ed era magrissimo.
Non era una bella donna, e la malattia l'aveva ulteriormente rovinata, tuttavia sentivo provenire da lei una forte energia, una grande voglia di vivere; me ne rallegrai, sarebbe stato più facile guarirla.
Quando fu ora di cena tirai fuori dalla tasca un tozzo di pane che avevo creato insieme a tutto il travestimento e lo diedi a Rubrick che lo divorò in un battibaleno. - Graffie Dottore... - mugugnò masticando e sorrisi. Era la seconda persona che mi ringraziava, dopo Dunkelheit. Mi sentii felice, ma pensare alla ragazza mi fece sprofondare di nuovo in un vortice di pensieri, ricordi e domande.
Il viaggio che avevo iniziato mi aveva portato molto lontano da casa, molto lontano dalla regina degli uomini, che ne era stata la causa, molto lontano...
Ero partito per cercare di capire che cosa mi stesse succedendo e che cosa fosse diventata per me quella donna, ma fin da subito quella domanda era passata in secondo piano... la vera domanda era: chi ero io? Lo stavo scoprendo pian piano, conoscendo il popolo che avevo considerato il mio nemico per secoli. Mi stavo rendendo conto di aver creato gli uomini molto più simili a me di quanto non me ne fossi reso conto, così simili come forse nemmeno le Divinità Maggiori lo erano.
Stavo scoprendo di essere molto più umano di quello che pensavo, oppure che gli umani erano molto più simili agli dei...
Non sapevo spiegarmi perché, però di una cosa ero certo, l'idea mi terrorizzava.
Non ero sicuro se essere felice o disperato per questa consapevolezza.
Fissai ancora a lungo la mamma di Rubrick e cercai di condensare in un unica definizione ciò che ero; non ci riuscii. Non ero più quello che avevo sempre creduto di essere già da molto tempo ormai. Non ero più il Dio degli Dei.
Forse era per questo che Dunkelheit mi turbava così tanto... Era stata lei a sbloccare gli ingranaggi. Dal suo arrivo, tutto per me era stato stravolto. Era stato per curare lei che avevo riscoperto la mia seconda natura, quella che era sopita in fondo all'animo, quella che aveva messo in moto tutti i cambiamenti avvenuti fino ad ora.
Dunkelheit era stata la mia chiave ma ora era diventata anche qualcos'altro. Come definirla? L'unica consapevolezza era che il mio pensiero correva sempre a lei, in un modo o nell'altro, che tenevo alle sue parole più a quelle di una qualunque divinità, temevo per lei che era rimasta sola, nonostante fossi consapevole che per lei era un bene, nonostante sapessi che mi odiava dal profondo del cuore.
Mi accorsi che mi mancava... Quelle poche settimane in cui l'avevo conosciuta come Jahira, come soldato, come prigioniera, come donna; quelle poche notti passate insonni a guardarla, o a dormire in sua presenza, erano chiare nella mia memoria.
Da quanto tempo ero lontano da palazzo? Tre giorni? Due settimane? Avevo perso la cognizione del tempo...
Dovevo tornare.
Lo sbadiglio di Rubrick mi riscosse e mi fece realizzare che era ormai sera, fuori era ormai calato il buio.
- Vai a dormire ragazzino. A tua madre ci penso io- ordinai al giovane che senza provare ad obbiettare venne a scaricarsi di fianco alla madre. - Di solito dormiamo così... - spiegò, senza che ce ne fosse bisogno. Annuii, - Dormi. Domani dovrai occuparti di tua mamma- gli dissi.
Il ragazzino chiuse gli occhi obbediente e dopo pochi minuti avvertii il suo respiro regolarsi e sintonizzarsi con quello della madre. Era la seconda scena di quel genere che vedevo e rimasi sveglio fino all'alba per osservare madre e figlio dormire.
Di nuovo provai un senso di nostalgia e di vuoto e cercai di immaginare quanti avessero avuto la fortuna di avere una madre. Pensai anche alle migliaia di bambini, che io stesso avevo privato dei genitori, e ai genitori che avevo privato dei figli.
Ripensai al giorno in cui avevo ucciso il re, il padre di Dunkelheit e le sue parole e le sue preghiere, le sue imploranti richieste di clemenza per i famigliari. Ai tempi, gli avevo riso in faccia e gli avevo conficcato la spada nello stomaco, ora, mi pentii per aver commesso quel madornale errore.
Avevo realizzato l'importanza della famiglia, dei legami affettivi. Avevo compreso perché si provava così tanto dolore nel perderli.
Avevo capito che i sentimenti erano una cosa preziosa, che andava protetta.
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