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Capitolo Terzo: Rimanere calmi

"La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell'ignoto."
(Howard Phillips Lovecraft)

Punto di vista Rose

«Ragazzi, mantenete la calma e uscite in una fila ordinata!» ci ordinò, con voce intrisa dal panico, la professoressa, non appena l'assordante allarme smise di suonare nell'edificio.

Era successo tutto troppo in fretta. Un attimo prima ero lì, seduta al mio banco e presa ad ascoltare la lezione e un attimo dopo ero nei corridoi, ammassata fra tutti gli studenti che si riversavano fuori dalle aule.

Intorno a me era il caos: ragazzi che strillavano, altri che tentavano di farsi spazio a forza per uscire e mettersi in salvo e altri ancora paralizzati dalla paura. Nessuno sembrava sapere cosa stava accadendo e io, malgrado non riuscissi a smettere di tremare per la paura, cercavo di analizzare la situazione.

Mi scostai una ciocca di capelli sudati dalla fronte, mentre l'insegnante ci incitava ad affrettare il passo. Il mio cuore batteva a mille, quasi di pari passo con il mio respiro affannoso, mi guardavo intorno con frenesia.

Dovevo assolutamente calmarmi. Farsi prendere dalla paura non mi sarebbe servito a nulla, pensai, mentre qualcuno iniziava a urlare. Mi si riempirono gli occhi di lacrime, come se tutti i miei buoni propositi fossero evaporati, e cercai di scacciare dalla mia mente l'idea che forse saremo morti tutti.

Troppo pessimismo non serviva. Neanche farsi prendere dal panico serviva! Dovevo calmarmi, ecco. Ma come? Presi un respiro profondo e continuai a camminare, seguendo i miei compagni. Strinsi gli occhi, non dovevo agitarmi. O almeno, dovevo cercare di non farlo ancora di più.

Pregai il Dio Jaiwn, stringendo il pugno destro e ripromettendomi che avrei accesso un fuoco per lui se tutto fosse andato bene. Dovevo avere fede.

Il fumo - avrei giurato che pochi minuti prima non c'era - stava prendendo pian piano possesso dei corridoi e io, rinchiusa nella mia bolla di paura, quasi non ci feci caso. L'unica cosa a cui pensavo era che sarei morta prima di potermene anche solo rendere conto.

Pensai alla mia famiglia. Cosa avrei dato, in quel momento, per vedere il sorriso rassicurante di Cotan e sentire AV che mi prendeva in giro?

Un ragazzo mi passò affianco urlando, diretto verso la fine del corridoio. Dietro di lui arrancava una ragazzina ferita, che venne bloccata e aiutata da una professoressa.

Staccai gli occhi dalla scena solo quando udii la professoressa della classe di fronte a noi urlare ai suoi ragazzi di fare attenzione ai gradini.

Spalancai gli occhi, andrà tutto bene, mi dissi, eravamo arrivati all'entrata interna del bunker. Mi guardavo nervosamente intorno, aspettando in trepidazione che iniziassimo a entrare anche noi. Quando iniziai a scendere i gradini che portavano al bunker, fu come se la bolla di tensione che mi stava soffocando scoppiasse. I rumori tornarono ad assordanti più forti di prima e sentii di star riaquistando un po' di lucidità: stavamo bene, eravamo salvi.

Ora non ci restava che aspettare l'arrivo delle Guardie di sicurezza. Erano soldati dell'esercito inseriti in un programma di protezione civile, che intervenivano ogni volta che un incidente coinvolgeva un gran numero di civili.

«Cosa sarà successo?» mi domandò la voce di Kolwin, uno dei miei migliori amici, facendo spostare la mia attenzione verso di lui.

All'improvviso mi sentivo stanca, i muscoli mi dolevano come se avessi corso una maratona.
«Non ne ho idea» gli risposi, strofinandomi gli occhi con due dita.

Kolwin scosse la testa, confuso quanto me, e si grattò la nuca pensieroso.

«Devo trovare la classe di mia sor-» Fu interrotto dall'arrivo, per l'appunto, di sua sorella minore, Chels3l, che gli si catapultò fra le braccia con un urletto.

Kolwin ridacchiò, rilassandosi tutto d'un tratto, e le scombinò i capelli azzurri con dolcezza. «La tua professoressa sa che ti sei allontanata dal tuo gruppo?» le domandò poi, allontanandola con delicatezza da sé.

Chels3l fece un sorrisetto furbo e scosse la testa, guardandosi intorno con aria cospiratrice. «Era distratta» si limitò a spiegare, per poi ridacchiare.

Alzai gli occhi al cielo divertita e richiamai l'attenzione di Kolwin schiarendomi la voce.

«Cosa sarà successo?» borbottai, ripensando alle scene di qualche minuto prima. «Magari un incendio?» sussurrai poi fra me e me, ma non si spiegava il boato che aveva dato inizio a tutto.

Kolwin mi sentì, nonostante il mio basso tono di voce, e rispose: «Può darsi, ma mi chiedo da dove sia partito, non ho capito da che direzione arrivava il fu-»

Venne nuovamente bloccato da sua sorella. «È caduto qualcosa sulla classe affianco alla mia» mormorò, tornando a stringersi a suo fratello.

La guardai un attimo, cercando di capire le sue parole «Caduto?» le domandai, non capendo.

La ragazzina non poté rispondermi, perché la voce del suo insegnante che la richiamava la costrinse a rimandare la conversazione.

Kolwin abbassò il viso verso di lei e le diede un colpetto sulla fronte, rivolgendole un piccolo sorriso. «Torna dalla tua classe, prima che il tuo professore venga a riprenderti per le orecchie» le ordinò in tono gentile, facendola sbuffare.

Chels3l si alzò sulle punte e diede un bacio sulla guancia a suo fratello. Poi, dopo aver salutato anche me, corse via, verso il suo rumoroso gruppo di amici. Avevano dieci anni, ma da come si agitavano sembravano un gruppo di bambini di pochi anni.

«C'è un tipo che ti fissa» mi fece notare Kolwin, dopo qualche minuto in cui eravamo stati in silenzio, ognuno perso nei suoi pensieri.

Dal canto mio, stavo cercando di avanzare delle ipotesi su quello era successo. Qualcuno poteva aver dato fuoco alla scuola di propria volontà? O magari un aereo aveva perso la rotta ed era caduto sulla scuola.

«Dove?» domandai a Kolwin, girandomi a destra e a sinistra con curiosità. Accantonai per un attimo le mie teorie, decidendo che mi ci sarei dedicata dopo aver riposato.

Per un attimo pensai che Kolwin mi stesse prendendo in giro, il che non sarebbe stato così impensabile. L'idea venne spazzata via quando incrociai lo sguardo di un ragazzo poco lontano, probabilmente più grande di qualche anno.

Il poveretto spalancò gli occhi una volta capito di essere stato colto con le mani nel sacco e alzò con timidezza una mano, salutandomi. Mi colpii subito l'altezza, troppa in confronto a me, e i capelli che aveva rasati, neri, come solo gli umani li portavano.

Non poterti concentrarmi molto su di lui, perchè un assordante boato esplose all'improvviso, facendomi fischiare le orecchie. Il portone d'ingresso del bunker era ancora aperto e le classi stavano ancora entrando furono costrette a fermarsi: la terra sotto di noi tremò con violenza e persi l'equilibrio dopo pochi secondi.

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Le urla dei miei coetanei mi arrivavano ovattate, mentre la scossa proseguiva imperterrita. Le ventole all'entrata dal bunker, che impedivano l'entrata del fumo, faticarono a trattenere la nuova nube che premeva per entrare e i professori incitarono con foga i ragazzi a entrare, con il panico stampato negli occhi.

La scossa si fermò. Kolwin mi porse una mano per aiutarmi ad alzarmi e, una volta in piedi, mi ritrovai attaccata a lui. Lo strinsi a me, questa volta non mi sarei lasciata prendere dal panico, qualunque cosa fosse successa.
La "pace" non durò a lungo, forse un paio di minuti, in cui non mi mossi dalla mia posizione. Un altro insopportabile boato coprì ogni voce e il terreno sotto di me riprese a tremare con violenza.

La seconda scossa finalmente cessò, quasi non mi accorsi che Kolwin aveva rafforzato la stretta su di me. E io avevo fatto la stessa identica cosa, inconsciamente mi sentivo più sicura se lui era vicino. Avevo la testa nascosta sulla sua spalla e stringevo la sua maglia fra le mani mentre lui mi stringeva in un abbraccio rassicurante.

Ci volle quasi un'ora prima che le Guardie riuscissero a fare piazza pulita dal fumo. Il portone del bunker era stato chiuso poco dopo le scosse e né Kolwin, né io avevamo detto nulla.

Ora eravamo nel cortile della scuola e lo spettacolo che avevo davanti agli occhi era qualcosa che non avevo mai visto, o almeno non dal vivo. C'erano ragazzi che piangevano ovunque mi girassi e moltissimi genitori erano già accorsi sul posto, sperando di trovare i propri figli integri.

Decine di ragazzi furono invece trasportati alla Sanità appena il teletrasporto della scuola fu dichiarato agibile dalle Guardie.

Solo un ferito era ancora qui, con le gambe intrappolate sotto ad un enorme masso. Era un ragazzo, del secondo anno probabilmente, e stava facendo di tutto per non piangere dal dolore.

Capire quello che era successo non era stato molto difficile, non appena ci fu data la possibilità di uscire dall'edificio. Degli enormi massi 5T erano stati lanciati sul nostro cortile da qualcuno, ma non erano riusciti a rintracciare l'aereo che li aveva scaricati.

I massi 5T erano delle armi usate in passato. Erano, come per l'appunto diceva il nome, dei grossi massi. Ciò che li rendeva vere armi erano le modifiche che gli venivano opportunamente fatte per renderli più pericolosi possibili.

I 5T in particolare erano dotati di un potentissimo macchinario che, non appena i massi si stabilizzavano sul terreno, penetrava il suolo su cui erano atterrati e vibrava con una potenza forte abbastanza da causare una scossa di terremoto.

Per un attimo, un solo attimo, pensai che forse la vita sulla Terra fosse stata migliore di quella di Natalesia. Da quanto ne sapevo, sulla Terra non esisteva nulla del genere, non era qualcosa di neanche immaginabile.

Chi era stato a lanciare i 5T? Perchè l'aveva fatto? Mi domandai, poco prima di vedere mio fratello maggiore che oltrapassava il cancello principale e, dopo avermi individuata, iniziava a correre verso di me.

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