3. Il posto di una madre
I Fox erano l'esempio calzante di famiglia perfetta. Il signor Fox era un uomo tutto a un pezzo, rispettabile, con uno spiccato senso del dovere che gli aveva fatto guadagnare un occhio di riguardo da parte della presidentessa. Sua moglie, Seraphine, era l'esatto opposto, pacata e buona come il pane, riusciva a sopportare qualunque calunnia e a gestire ogni situazione alla meglio. I due coniugi lavoravano per l'Associazione dei Diritti Magici da quando era stata fondata e avevano due figlie adorabili: Iris, che con il suo animo ribelle e il trucco scuro cercava di comportarsi come una donna nonostante avesse solo sedici anni, e Morgane, più introversa della sorella, si lasciava cullare dalla consapevolezza che avesse ancora qualche anno per crescere.
I Fox si presentavano sempre al meglio, con bei vestiti e un'educazione esemplare, ed era impossibile che involontariamente non attirassero l'attenzione... alla fin fine non tutti potevano vantare di avere una moglie perfetta, due figlie adorabili e un lavoro da sogno, come invece poteva fare Abram Fox. Loro erano un quadretto familiare invidiabile, prima che l'equilibrio che conoscevano si spezzasse come un rametto caduto da un albero.
Accadde nel giro di un paio di giorni, con l'arrivo di una lettera scritta con un elegante corsivo, la quale voleva dimostrare solo professionalità, e firmata da Abram stesso.
Quel foglio opaco e sigillato con la cera lacca era destinato alla giovane Morgane e aveva fatto ingrigire le sue giornate e spento il suo sorriso nel giro di pochi attimi.
«Abbiamo rimandato per troppo tempo» le aveva detto il suo papà il giorno in cui quella lettera nefasta aveva fatto ingresso nella vita di Morgane.
«Non possiamo aspettare un altro po'?» Gli aveva domandato lei, rifiutandosi di afferrare la posta.
Abram Fox negò con la testa e prese una sedia da sotto il tavolo della cucina, per sedersi, in attesa che la figlia si posizionasse di fronte.
Lei obbedì a quell'ordine muto e sospirò, afferrando la seggiola di legno. Il suo papà non era un uomo severo, ma sapeva farsi rispettare. Uno sguardo benevolo, che nascondeva un taglio degli occhi felino e tagliente, dei capelli bruni laccati all'indietro e profonde fossette agli angoli delle labbra lo rendevano enigmatico. Se non fosse stato suo padre, Morgane immaginò, che sarebbe stato in grado di comprarle l'anima in cambio di una manciata di dolciumi.
«È la tua ultima opportunità, sono rimasti solamente quattro posti... Sarò franco, Morgane, i tempi sono cambiati e non c'è più tempo per i capricci, molti pagherebbero per avere questa lettera e tu non puoi rinnegarla. Siamo andati contro le regole per permettere a te e altri tre giovani come te di riceverla.» Morgane vide il padre dubitare, prima di continuare a parlare, non sembrava certo che la sua giovane figlia, appena undicenne, riuscisse a sopportare quel discorso. «La presidentessa Knight ha rifiutato di estrarre i nomi dalla fontana, come abbiamo fatto finora. È venuta da me con un taccuino su cui era inciso un solo nome: Alice Knight, sua figlia. Ha detto che sarebbe morta per noi solo se sua figlia si fosse salvata, ha detto anche altro, ma non è importante. Ha, però, sottolineato che dovevo essere io a trovare altri tre bambini, che se lei meritava anche solo un po' di scegliere una persona, io dovevo trovarne altri tre. Gli ultimi tre, prima della guerra. Gli unici sicuri.»
Morgane ascoltò, un po' ammaliata, quelle parole, era evidente che fosse contenta della fiducia che la presidentessa riponeva nel suo papà, così, nonostante il momento impacciato, decise di chiedergli: «E tu, chi hai scelto?» con un tatto che le riuscì difficile.
Abram sorrise, rendendo più profonde le fossette agli angoli delle labbra che lo rendevano, all'apparenza, più docile di un carlino. Tirò fuori il taccuino, che a quanto pareva aveva tenuto per tutto quel tempo nella cartella da lavoro.
Per qualche attimo Morgane sembrò un cliente da convincere, come se il suo stesso padre le volesse rifilare una fregatura.
Abram, con gli occhi di una volpe, si sporse verso la sua bambina e indicò volta per volta i fanciulli scelti e scritti sul quadernino. Il primo nome era quello di Alice, il secondo il suo, gli altri due, però, Morgane non li conosceva.
«Chi sono Amos Tulip ed Elia Prince?» domandò curiosa.
«Non importa chi sono, forse li conoscerai presto. È importante per te sapere che loro sanno qual è il sottile confine tra la vita e la morte e che questo qui è l'unico mezzo che può salvarli. Sei sicura di non volerla?» domandò con un sorriso malandrino, rivolgendo poi lo sguardo alla lettera, mentre la faceva oscillare davanti allo sguardo della figlia.
Gli occhi nocciola di Morgane seguirono quel pezzo di carta straccia, finché non si decise ad afferrarla. Sembrava un gatto impaziente di afferrare un gomitolo. «E va bene» sbuffò rumorosa lei.
Abram annuì, ma non sorrise. Era stato lui a scegliere per sua figlia quel futuro migliore, eppure non si rallegrò affatto quando lei lo accettò senza lamentele.
«Spero che la mamma torni prima che io vada via, vorrei salutarla» disse lei, pensando a voce alta.
«La mamma sarà qui domani, Momò. Non ti preoccupare.» Carezzò la nuca della sua bambina e sorrise.
La signora Fox era partita il giorno prima dalla Barriere, per ordine della presidentessa Knight. Avrebbe dovuto raggiungere il Faro dei Desideri e contrattare una pace, così da poter evitare di mandare avanti la spedizione e mettere fine alla guerra dal suo principio. Era una missione da nulla, veloce, che non avrebbe dovuto causare alcun disguido, eppure fu proprio quella missione a far finire la famiglia Fox nel baratro.
***
Morgane e Iris la mattina dopo uscirono da casa all'alba, stringendo fra le braccia un dono per la loro mamma. Da casa Fox al Giardino dell'Ever il percorso era abbastanza breve, anche se intricato. Le Barriere avevano l'aspetto di un paesino vecchio mille anni e le abitazioni non erano da meno, tutte strette una accanto all'altra, scavate nella pietra, davano quasi l'idea di essere incappati nel Purgatorio dantesco.
Delle possenti mura di pietra circondavano dei piccoli vialetti che si incontravano in un'unica strada, anch'essa stretta e dal puzzo stantio. Le due sorelle passarono accanto a delle porte arrugginite che spuntavano dalle mura stesse, loro sapevano fossero case, ma all'apparenza sarebbero sembrate poco più che cantine. Percorsero la stradina che sembrava torcersi su sé stessa verso il basso, svoltarono a destra e poi a sinistra, passarono sotto un ponte su cui avevano camminato qualche minuto prima. Scesero più di cinquanta gradini prima di raggiungere l'arco a ferro di cavallo che affacciava sul viale principale, senza più sampietrini o vie strette come alici, ma ampio e asfaltato.
Nel loro percorso incrociarono vari volti familiari, di amici e conoscenti, qualche anziano gli offrì delle caramelle alla menta e loro accettarono ringraziando, un paio di giovani gli sorrisero imbarazzati.
«Iris, ma queste persone moriranno tutte?» chiese Morgane con tutta l'innocenza che aveva, quando fu certa che nessuno la sentisse.
Il caschetto di capelli bruni di Iris oscillò da un lato all'altro. «Non è detto, potrebbero salvarsi, grazie a te.» La rassicurò Iris, senza perdere il passo, dandole un motivo per apprezzare l'opportunità ricevuta. Morgane aveva appena saputo che avrebbe preso parte all'operazione di spedizione e il suo sguardo dipingeva la tristezza del lasciare casa. «Grazie a me?» Morgane indicò il suo petto e Iris annuì, senza voltarsi a guardarla.
Raggiunsero in quel momento la via principale delle Barriere, l'unica strada asfaltata che c'era, e si catapultarono sotto l'arco a sesto acuto, percorrendo i cento gradini che le separavano dal Giardino dell'Ever.
«Tu, la mamma e papà vi salverete?» chiese Morgane, riprendendo il discorso.
Iris si fermò nel bel mezzo della scalinata e afferrò il braccio della sorella, costringendola a guardarla negli occhi.
Morgane trattenne il respiro con la paura negli occhi, soprattutto per lo sguardo gelido lanciato da sua sorella. «Noi ce la caveremo, ma tu devi smetterla di fare i capricci e comportarti in modo intelligente. Quella lettera ti salverà e questo è l'importante.»
Morgane annuì, ma i sensi di colpa affiorarono sul suo viso. Tutte le persone che c'erano nelle Barriere erano in pericolo e lei non poteva fare altro che guardare e promettere che avrebbe salvato l'Isola Gold, andandosene per sempre.
In completo silenzio le due sorelle proseguirono il percorso; Iris che guardava l'orizzonte di scale che mancavano al giardino e Morgane a testa bassa nascondeva le sue paure. In poco tempo furono in cima e raggiunsero il cancello secondario, quello che non si apriva con un solo guardo, ma che andava tirato con le mani. Non ebbero nemmeno il tempo di muovere i primi passi verso gli uffici, che un uomo corpulento gli andò in contro.
«Roger» lo chiamò per nome Iris. «Tutto apposto?» domandò la stessa con un po' di preoccupazione nel tono.
Roger si poggiò una mano sulla nuca calva e storse il labbro. «Dovreste andarvene.» Solo in quel momento rivolse il suo sguardo a Morgane, come se fino a quel momento non avesse fatto caso alla sua presenza. «Portala a casa, Iris.»
Le due sorelle si guardarono l'un l'altra. Sul volto di Iris c'era un'ombra di tristezza, mentre Morgane impersonava a pieno la confusione, era evidente che non ci stesse capendo nulla. L'uomo si allontanò senza aggiungere altro e Iris afferrò la mano di sua sorella, che era abbastanza grande da non aver bisogno di quel gesto, ripercorrendo i propri passi.
«Ti porto a casa e torno qui. Appena capirò quel che è successo verrò da te, va bene?» le chiese, mentre iniziavano a scendere la grande scalinata.
Morgane annuì.
Quel giorno la più piccola della famiglia Fox attese da sola in casa, seduta sul suo letto con un cuscino fra le braccia, fino alla sera tardi. Sua sorella aveva dimenticato sulla scrivania il regalo che avevano incartato con cura per la loro mamma ed era fuggita via, lasciando Morgane lì, in quella casa che non le era mai sembrata tanto deserta. Tratteneva le lacrime trastullandosi con pensieri felici, immaginando che, quando avesse sentito la chiave girare nella serratura, sua madre avrebbe scartato il ciondolo con incastonata una pietra d'ambra, donatole dalle figlie, e lei avrebbe chiesto a suo padre di raccontarle come sarebbe stata organizzata la spedizione davanti a un piatto caldo. Rimase in attesa per ore, finché capì che non ci fosse nulla da aspettare.
Quello fu il giorno in cui Morgane Fox perse il suo brio infantile e il suo animo si tinse di toni scuri. Fino a poco prima era una bambina, una ragazzina di undici anni come tante altre, a cui piacevano i vestiti sfarzosi e le scarpe con un po' di tacco; tutte cose capaci di farla sentire grande, ma non tanto da farle pentire di esser cresciuta.
I primi pensieri da adulta le caddero addosso come pioggia in estate.
La famiglia Fox iniziava a sgretolarsi piano, ma i primi cenni di compassione da parte del popolo delle Barriere si fecero sentire da subito.
***
Il profumo del cioccolato inebriava le pareti della dimora; la signora Soogher si era presentata dai Fox quella mattina con la scusa di aver preparato un dolce che avrebbe colmato il vuoto in casa, ma il suo vero intento di curiosare era risultato subito chiaro e Iris l'aveva liquidata con un caffè e un grazie. La sera Abram, dopo esser tornato da lavoro, si era preso la briga di tagliarne due fette, per portare il dolce alle sue figlie e, dopo aver notato che Iris già dormisse da un pezzo, aveva fatto capolino nella camera di Morgane.
La più piccola della famiglia era sdraiata sul suo letto e osservava il soffitto, persa nei pensieri. Suo padre sospirò per quell'immagine sconsolata. «Vuoi un po' di torta? È buona, io l'ho mangiata» disse l'uomo. Morgane negò con la testa e si strinse le coperte bianche al petto.
Abram annuì, impacciato su come comportarsi. «Allora... buonanotte, fai bei sogni» disse suo padre, prima di stamparle un tenero bacio sulla fronte e carezzarle i capelli rossi.
Lei annuì, ammettendo tra sé e sé che quel piccolo cenno coronato da un timido sorriso equivalesse a una bugia bella e buona. Non avrebbe mai più fatto sonni tranquilli.
Il signor Fox aveva fatto un sospiro cupo e con qualche passo indietro era uscito dalla stanza, socchiudendo la porta, per lasciare che all'interno della cameretta entrasse un piccolo e debole spiraglio di luce.
Morgane chiuse gli occhi e sperò di addormentarsi.
La ragazza si rigirò tra le lenzuola per un po'. Il sonno non voleva proprio accoglierla fra le sue braccia calde e soffici, quanto le proprie coperte di lino, e sembrava opporsi a lei come fossero due poli equivalenti.
Rizzò la schiena, scossa dalle sue stesse paranoie. Morgane si poggiò comoda sulla testiera del letto e spostò qualche ciocca rossiccia dei suoi lunghi capelli da davanti il viso pallido. Soffiò un pulviscolo di cenere grigia, che le sprizzò fuori dalle labbra come una polvere di stelle, però più densa. La polverina si mosse in direzione della candela consumata che aveva sul comodino.
La cenere giallognola viaggiò per quel breve tratto, con lentezza, come se già sapesse che raggiungere la destinazione equivalesse alla fine, ma nonostante ciò si contrapponesse alla propria volontà eseguì gli ordini di Morgane e si scontrò con la miccia corta e consumata che per reazione prese fuoco.
La stanza non era più buia, la luce illuminava fioca le pareti bianche e gialle, tappezzate dai poster dei Gold Music, un gruppo di nani ribelli che aveva abbandonato il lavoro per inseguire la passione per la musica Folk, e su cui vi erano un paio di scaffali che contenevano maggiormente oggetti sciocchi; come una sfera di vetro da cui non avrebbe mai intravisto alcun futuro e un acchiappasogni sfilacciato.
Morgane rivolse il proprio sguardo verso il comodino, accanto alla candela, la cui cera consumata continuava a sciogliersi copiosa riversandosi sul legno, vi era poggiata la sua lettera.
La lettera che segnava il futuro che aveva cercato di ignorare; tutti quei discorsi che per lei erano sciocche preoccupazioni dei suoi genitori stavano prendendo forma, si trasformavano e tingevano la sua infanzia di una tinta matura, che la costringevano ad ascoltare le parole dei grandi. Morgane non aveva mai cercato di comprendere le conseguenze, né di essere responsabile; fino a quando non fu costretta.
Si alzò dal letto, i suoi piedi nudi toccarono la terracotta gelida e le sue dita si ritrassero al contatto con il freddo, si slanciò con le braccia per mettersi in piedi e la vestaglia di cotone bianco le cadde comoda giù fino alle ginocchia.
Camminò rabbrividendo lieve, al di fuori delle calde lenzuola non si sentiva più al sicuro, ma nonostante i pensieri inquieti raggiunse il suo armadio.
Tirò fuori un cambio comodo per il giorno dopo e lo poggiò sulla scrivania di legno, situata proprio lì accanto. In quel momento lanciò uno sguardo al ritratto appeso proprio da quel lato della parete.
Un sorriso bianco e genuino illuminava l'immagine, due profondi occhi verdi e dei lunghi capelli rosso carminio incorniciavano la pittura a olio, su uno sfondo di nuvole e cielo azzurro. Chissà quali desideri esprimeva con quel viso giovane e liscio?
Morgane non riusciva neanche a immaginarlo, nonostante conoscesse bene quella signorina ben vestita di rosso e bianco e provasse per lei un affetto vero e naturale, l'affetto che solo una figlia poteva provare nei confronti di una madre.
Morgane sfiorò con il palmo l'immagine e si specchiò nel lieve riflesso che trasmetteva sul suo volto la stanchezza e il dolore. I lisci capelli carminio, le guance macchiate da qualche lentiggine erano uguali alle sue e quello sguardo che esprimeva gioia e serenità le ricordava la spensieratezza in cui lei stessa viveva prima che sua madre se ne andasse.
«Spero che la mamma torni prima che io vada via, vorrei salutarla» aveva detto una settimana prima a suo padre, ma la sua mamma non era ancora tornata e Morgane in pochi giorni si sarebbe ritrovata lontana da casa, senza il suo papà e senza neanche aver rivolto un ultimo sorriso a sua madre.
Questo era il suo unico pensiero, quando rivolse lo sguardo al dipinto sulla parete. Un senso di nostalgia la invase e si sentì egoista a pensare che suo padre fosse andato contro ogni principio per regalarle l'opportunità di una vita serena, quando lei riusciva solo a odiare l'idea di lasciare Gold Island.
Sbuffò alla sua immagine che si rifletteva sul sottile strato di vetro, poi tornò a letto.
Quella fu per Morgane una notte di pensieri inquieti e incubi, che la coglievano alla sprovvista e la obbligavano ad aprire gli occhi per poi socchiuderli di nuovo. Nel dormiveglia vedeva tutto, sentiva tutto: il frusciare del vento che sbatteva contro la finestra, i passi degli abitanti delle Barriere che, rincasando, passavano accanto alla sua dimora e si lasciavano scappare qualche riso, rumori sfuggenti e lontani di chissà quale creatura e le luci deboli delle stelle e della mezzaluna, che quella notte risultava luminosa da morire accecati.
***
Il mattino successivo Morgane si alzò dal letto appena sentì il tocco di sua sorella sfiorarle la spalla. Sbadigliò e finse, quando Iris le chiese: «Hai dormito bene?»
La giovane si stiracchiò e annuì, mentre cercava, tastando il pavimento con gli occhi socchiusi dal sonno che aveva rincorso per tutta la notte, le babbucce.
I pensieri inquieti voleva lasciarli nel lino delle lenzuola e raggiungere l'incontro con una minima serenità, perciò prese il cuscino e lo lanciò con forza contro il muro, immaginando che ogni rancore represso si sprigionasse in quel moto inusuale.
Solamente in seguito a quello strano gesto e a un profondo sospiro, riuscì a raggiungere la sua colazione e a mangiare ciò che la sorella le aveva messo davanti, senza sentire un mattone al posto dello stomaco.
«Emozionata?» domandò il signor Fox. Davanti a lui una tazza di latte bianco, senza un solo granello di zucchero, e una fetta di pane nero tagliata spessa attendevano di essere mangiate.
Morgane alzò lo sguardo dalla sua ciotola di latte e grani, negò con la testa e abbassò di nuovo gli occhi per affondare il cucchiaio nella colazione.
Era avvilita, più che emozionata.
«Momò, sei fortunata, sai. Il tuo papà è un membro dell'associazione e potrà visionare l'intera Operazione di Spedizione... Sai quanti giovanotti vorrebbero essere al tuo posto? E quanti padri al mio?» Si eccitò per darsi da solo la risposta che sapeva non avrebbe mai ricevuto dalla figlia. Con lo sguardo sorridente indugiò verso di lei, ma gli occhi della ragazza rimasero fissi sul latte e cereali.
Morgane mandò giù una cucchiaiata, dolce liquido le scaldò il palato e un po' le colò giù per il viso. Si pulì con il gomito, in un modo poco femminile.
«E quante madri avrebbero preferito essere al posto della mia?» domandò retorica con tono cupo. Si rispose da sola, alzando un pugno chiuso in direzione del padre. Zero.
Come accadeva ogni volta che qualcuno nominava la signora Fox, Abram rimase zitto. Osservò la sua bambina, che finalmente gli rivolgeva uno sguardo -anche se non era lo sguardo che avrebbe voluto da lei -, in silenzio e negò con la testa.
Fu così che la famiglia Fox smise di essere l'invidia delle Barriere e agli occhi del popolo non parve altro che una pietra scheggiata pronta ad andare in frantumi. Seraphine non c'era e presto non ci sarebbe stata neanche Morgane.
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