Capitolo 8 - Il peso degli altri
Una lettera dopo l'altra, ticchettio dopo ticchettio presi a digitare sulla tastiera del mio MacBook.
D, a, w, n, B, e, n, n, e, t, h.
Dovevo sapere, dovevo fugare ogni dubbio.
Non potevo attendere oltre, era giunto il momento di capire perché io fossi seduto allo stesso tavolo di Weston Mckenzie.
La prima ricerca che feci, la più banale, fu quella sui social.
Dawn aveva 346 followers e 122 seguiti: un numero credibile di persone.
Aveva creato il profilo un anno e mezzo prima, atipico per un adolescente della nostra generazione, ma non impossibile.
Aveva 44 post e persino un reel con un discreto numero di visualizzazioni.
Analizzai tutto con attenzione, mentre la sua amica non faceva altro che disturbarmi con inutili discorsi.
Spostai di poco lo schermo per non permetterle di vedere quanto stessi facendo e lanciai un'occhiata veloce a Dawn. Sembrava che non avesse attenzione che per me e per ogni mio movimento.
Non diedi troppa importanza al suo atteggiamento, agli occhi degli altri dovevo apparire così estremamente atipico nei miei improvvisi silenzi che non mi interrogai sul perché sembrasse così turbata dalle mie azioni.
Continuai a osservare ogni fotografia.
C'erano diversi selfie con la sua famiglia.
Aveva un solo fratello, il cui profilo, purtroppo chiuso, si mostrò del tutto plausibile. Dalla bio appresi che studiava medicina alla Penn, così come mi era stato riferito da Big.
I suoi genitori, mi parve di capire, erano divorziati.
Comparivano sempre in contesti e luoghi completamente diversi, mai insieme.
Non mancavano scatti tra i banchi di scuola, al ballo scolastico e in riva all'oceano durante l'ultima vacanza estiva prima dell'inizio dei corsi.
Mi ritenni soddisfatto già a una prima osservazione, di solito ero molto più zelante, ma in quel caso non mi accorsi di nessun elemento che potesse stonare con il resto.
Cercai soltanto collegamenti con i fratelli Mckenzie, ma non vi ritrovai nulla se non il follow da parte di Wes, risalente a qualche giorno prima, immediatamente ricambiato da Dawn. Anche quella ragazza petulante che mi stava accanto non aveva fatto parte della sua vita prima del suo arrivo alla Brown.
A quel punto non potei che pensare a quanto fosse incredibile la coincidenza che mi aveva portato a ritrovarmi allo stesso tavolo a cui sedeva il fratello del mio rivale negli affari.
Decisi di controllare un ultimo dettaglio prima di arrendermi all'idea di essere diventato fin troppo diffidente nei confronti del mondo intero. Aprii il sito dell'università e mi loggai come addetto alla segreteria. Non servivano particolari doti da hacker per conoscere vita, morte e miracoli degli studenti della Brown. Bastava possedere username e password di uno qualsiasi dei membri del comparto amministrativo dell'ateneo per avere ogni studente in pugno.
Alla ricerca "Dawn Bennett" non ottenni granché; se non il poter visualizzare la sua borsa di studio, una cifra alta, ma senza alloggio, il piano di studi con annesso orario delle lezioni e infine il suo documento di riconoscimento.
Nata il 22 settembre di diciotto anni fa, a Nashville, in Tennessee, residente al 25 di Lake Street a Stillwater nello stato di New York.
Giunsi ben presto alla conclusione che non vi fosse niente di misterioso: Dawn Bennett non aveva segreti.
Sin dal primo momento in cui avevo saputo del modo bizzarro in cui era entrata nella vita di Cece avevo avuto dei sospetti, ma finalmente, dopo qualche giorno di inutile apprensione, avevo potuto fare i dovuti controlli che mi avrebbero reso molto più tranquillo.
A quel punto chiusi lo schermo del computer portatile e tornai nel mondo dei vivi.
Dawn, la sua amica e Wes erano già nel pieno della sessione di scrittura creativa. Non facevano più caso a me, né alle mie azioni. Pensai a tutta l'erba che avevo nello zaino e ai clienti fissi che prima del weekend avrei dovuto incontrare. Eppure, non mi venne voglia di alzarmi da quella sedia. Rimasi a fissare ognuno di loro e il modo spontaneo in cui stavano donando tutti loro stessi alla carta.
Io non ce l'avevo più un momento come il loro.
La mia esistenza da schiavo mi tormentava persino nei miei quadri.
Fino a poco tempo prima l'arte era stata il mio solo istante di libertà, ma poi le figure che mi avevano ferito erano comparse anche nelle mie tele.
Già da tempo avevano invaso il mio cielo, sostituendosi con i loro occhi maligni persino alle stelle, non credevo che sarebbero penetrati così a fondo da inquinare anche i miei pensieri e ciò che essi erano capaci di far realizzare alle mie mani.
Invidiai quei tre e tutto il tempo che potevano impiegare liberamente a essere loro stessi.
Dawn alzò il capo, mi puntò quelle iridi azzurre sul viso e mi sorrise. Mi ritrovai, senza apparente motivo, a ricambiare quella sua espressione nel medesimo modo.
Almeno il sorriso, almeno quello, ancora non era controllato da altri.
Non si poteva dire che fosse così per il resto della mia esistenza.
***
Approfittai di quel tempo passato in biblioteca per mettere in ordine i miei appunti di fisica, dando di tanto in tanto un'occhiata ai miei accompagnatori. Dawn aveva terminato la prima stesura di un racconto breve, sebbene non sembrasse affatto soddisfatta di ciò che aveva scritto di getto.
Mentre la osservavo di sottecchi, mi accorsi della presenza di uno dei miei acquirenti abituali. Josh mi fece segno, indicando con due dita la quantità di roba di cui aveva bisogno.
Annuii, ricercando con la destra immediatamente il pacchettino che avevo già preparato per lui e che avevo conservato insieme a tutti gli altri nel mio zaino. Una volta sicuro di aver preso quello giusto, nascosi il contenuto nel palmo, passandolo sotto la superficie del tavolo. Nessuno sembrò accorgersi di ciò che stessi facendo. A quel punto, lui si avvicinò.
«Ciao amico», sussurrò.
«Da quanto tempo», finsi di non averlo incontrato letteralmente il giorno prima.
In quel minuscolo scambio di battute, riuscii ad avere il tempo per far scivolare ciò che gli occorreva nella sua tracolla momentaneamente abbandonata per terra accanto a me. Lui fece lo stesso con le banconote, appoggiandomele di nascosto sulle gambe.
«Ci vediamo stasera?», domandò con nonchalance, non appena Dawn e i suoi amici, disturbati da quell'improvvisa conversazione, alzarono le loro teste dal foglio.
«Ci saremo, come sempre», gli rivolsi un occhiolino.
E lui, soddisfatto, andò via.
Wes mi lanciò uno sguardo di disapprovazione e io per quieto vivere finsi di non averlo notato. Non sapevo esattamente cosa non gli piacesse di me, io e lui non ci eravamo mai parlati prima di quel giorno, né tanto meno io avevo mai fatto del male né a lui né a suo fratello, sebbene quest'ultimo avesse rischiato in più occasioni. Dei lavori sporchi se ne occupava Big, perciò, se voleva prendersela con qualcuno per il setto nasale frantumato di suo fratello, io non ero certamente la persona giusta.
Quando mi sembrò di aver raggiunto finalmente un momento di assoluta normalità e di calma placida, dopo aver completato il primo esercizio assegnatomi dalla professoressa Walker, un lamento di morte iniziò a essere riprodotto dal mio cellulare. Premetti immediatamente il tasto per spegnere la suoneria, sebbene in un millesimo di secondo tutti gli occhi degli studenti presenti fossero su di me. Sapevo già chi fosse il mittente, non avevo bisogno di leggerne il nome sullo schermo, ed ero pure tristemente consapevole del fatto che non potessi semplicemente ignorare la sua chiamata. Pertanto mi scusai con i tre che erano seduti al mio tavolo, arraffando alla velocità della luce le mie cose, preparandomi ad andare via.
«Hai bisogno di un passaggio?», domandai a Dawn con la fretta di allontanarmi.
«L'accompagno io», si intromise l'altro.
Guardai immediatamente lei per averne conferma.
Annuii, aggiungendo, «Grazie di tutto.»
Grazie a te Dawn, è stato bello parlare di qualcosa che non fosse droga per una volta, risposi, lasciando però che quelle parole restassero nella mia mente.
Mi affrettai a uscire dalla biblioteca.
Accettai la chiamata in entrata.
«La pazienza è una virtù che non mi appartiene», come al solito la telefonata iniziò nel migliore dei modi.
«Ti appartengono virtù di qualche tipo?», ironizzai, conscio del fatto che se avessi esagerato mi avrebbe scuoiato vivo anche a distanza.
«Stronzate a parte», troncò ogni ironia, «ti ho inviato il nuovo carico, avete qualche grammo in più da vendere per questo mese. Ci vorrà un po' prima che arrivi tutto, ho dovuto separare le spedizioni. La prima parte, la più esigua, è in arrivo, per la seconda ci sarà da attendere», mi informò. Lo sapevo ormai da tempo che stava facendo un gioco insensato al rialzo. L'unico obiettivo? Mettermi in difficoltà.
«E posso chiedere perché?», attesi di scoprire cosa avrebbe replicato.
«Perché è così che funziona, Vega», mise un accento negativo sul mio nome.
«Se vuoi posso fornirti nuove persone che lavorino con te, ho un paio di contatti a Providence», tentò per l'ennesima volta, «non so se ce la farete in quattro a vendere quanto vi ho inviato.»
Era tipico, aveva messo in dubbio le nostre capacità già un'infinità di volte, sin dal primo carico, le cui quantità erano ridicole se paragonate alle attuali, mi ero accorto di come non avesse fiducia in me.
«A costo di lasciare l'università pur di avere tutto il tempo per spacciare, non è nei miei progetti mettere qualcun altro in difficoltà. Ho già rubato l'anima di Cece, Big e King. Non voglio altri morti-viventi sulla coscienza.»
«E cosa sono i drogati assuefatti a cui vendi?», odiavo il suo sarcasmo.
«Mi hai chiamato soltanto per questo?», domandai, mentre mi incamminavo nel solito luogo in cui incontravo abitualmente i miei clienti.
«Per questo e per ricordarti che il prezzo della tua libertà sta diventando sempre più caro», su quelle parole attaccò. Non c'era bisogno di saluti, non c'era necessità di congedarci in alcun modo.
Le sue parole mi restarono addosso più di tutti i tatuaggi che mi marchiavano la pelle per l'eternità e a udirle tornai indietro nel tempo. Mi ritrovai a essere il Vega del primo anno alla Brown. Fui ancora una volta il ragazzo padrone delle sue scelte, l'uomo dotato di libero arbitrio, ancora una volta corpo vivo nel suo ultimo giorno, corpo morto di lì a qualche momento.
Settembre 2021
Avevo smesso di frequentare la scuola all'età di sette anni.
La mia era stata una scelta dettata da un bisogno impellente: abbandonare la mia identità.
Lyra mi aveva proposto di cambiare istituto, trasferendomi ancora più a nord in una nuova abitazione, ma io, più di qualsiasi altra cosa al mondo, non potei accettare di lasciare il mio cielo.
Ero troppo piccolo per capire che esso mi avrebbe seguito e che, anche in una cornice diversa, sarebbe rimasto sempre lo stesso.
L'unica scuola presente nei pressi della villa isolata in cui vivevo era la stessa in cui avevano già appreso chi fossi, pertanto non mi sembrò di avere scelta: optai per l'istruzione domiciliare.
Avevo diversi insegnanti, i migliori di tutto la Stato, e furono loro a rendermi l'uomo che sarei diventato.
Alla soglia dei diciotto anni ero in grado di fare un po' di tutto. Non erano tanto le conoscenze che avevo, quanto le mie abilità a rendermi appetibile agli occhi delle migliori università statunitensi.
Avrei potuto frequentare online più corsi contemporaneamente, se avessi voluto, ma la tarda adolescenza e la sempre maggiore voglia di fare esperienza mi avevano portato a scegliere una delle tante istituzioni che erano interessate a me, in base a un criterio preciso: la vicinanza a Lyra. Ebbene, lui aveva continuato a vivere talvolta con me, talvolta con la sua famiglia. Andare a Providence sarebbe significato essere un po' più vicino a lui, in una maggiore prospettiva di libertà, che mi dava l'idea che io potessi sconfinare nella sua esistenza. Mi aveva tenuto lontano per molti motivi, ma con il tempo ero diventato sempre più necessario ai suoi scopi; perciò avevo girato il mondo, conoscendo una vita all'esterno della mia abitazione che non avevo mai creduto potesse esistere.
Avevo scoperto la mondanità molto tardi, ma quando ero entrato in quel circolo, le cose mi erano rapidamente sfuggite di mano.
Avevo oltrepassato la soglia di uno studio di tatuaggi per realizzarne uno solo, ne ero uscito, in poche settimane, con il corpo completamente ricoperto.
Lyra non ne era stato felice, ma era consapevole che, pur considerandosi mio padre, lui non lo fosse; perciò, non si era preso neppure la briga di sgridarmi.
Mi trasferii alla Brown, pochi giorni dopo il mio compleanno, non dopo la data in cui ero realmente nato, perché quella con il trascorrere del tempo l'avevo dimenticata, piuttosto avevo iniziato a considerare la notte tra il 31 agosto e il 1 settembre come il mio unico genetliaco.
Avevo ottenuto una borsa di studio completa, la quale mi aveva assicurato un posto in uno dei dormitori più popolati del campus.
Vissi circa ventuno giorni come Vega Doe, senza che quelli che avevano iniziato a far parte della mia esistenza non si accontentasse delle poche informazioni riguardo la mia vita precedente.
Per la prima volta, sin dalla mia nascita, mi sentivo un ragazzo normale, libero di vivere, di sbagliare e imparare.
Il mio tempo felice fu esiguo, ma ogni volta che ripenso a quei momenti, il sorriso nasce spontaneamente sul mio volto. Un po' meno, al contrario, quando rivivo l'ultimo giorno, quell'istante in cui la mia bolla esplose, rischiando di espormi agli altri nuovamente per quello che ero e che tentavo disperatamente di nascondere.
«C'è una lettera per te», Tim, il mio coinquilino, appoggiò una busta nera sulla mia scrivania.
Aggrottai le sopracciglia, confuso. Non avevo mai ricevuto niente di simile prima di allora. Era così fuori moda comunicare in quel modo.
Osservai la calligrafia con la quale erano stati scritti destinatario e mittente. Non mi parve di poterla ricondurre a nessuno. Lessi confuso il nome di chi quella lettera l'aveva inviata. Era immediatamente riconoscibile il fatto che si trattasse di un'identità tanto falsa quanto lo era quella del ricevente.
Sentii tra le mani qualcosa di duro, nascosto dallo strato trasparente della busta, solo a quel punto, troppo curioso di capire cosa fosse, decisi di aprirla.
Vi estrassi prima una chiave. La rigirai tra le dita, cercando un indizio che potesse dirmi di più, ma ovviamente non riuscii a comprenderne l'utilità. Cercai meglio per capire se vi fosse altro e fu a quel punto che riuscii ad afferrare un piccolo bigliettino ripiegato più volte su se stesso.
Quando lessi il suo contenuto, pensai che sarebbe stato di gran lunga meglio ricevere una condanna a morte.
È tempo di saldare il tuo debito. Il costo della tua libertà vale quanto i servigi che d'ora in poi svolgerai per me. 130, Hope Street, Providence, al più presto. Se non andrai, tutti sapranno chi sei.
A presto, I.
Mi aveva raggiunto.
Per anni avevo vissuto con la consapevolezza di essermi messo alle spalle la mia identità, come se un nome, una provenienza e persino il giorno del mio compleanno potessero essere elementi da accantonare e da modificare a mio piacimento. La vita, però, non funzionava così. Nasciamo con un nome che non scegliamo, in un momento preciso dell'anno, in un mese, in un giorno e a un'ora che resterà sempre la stessa, una città ci dà i natali e quella continua a scorrere nelle nostre vene, così come il sangue della famiglia che ci genera. Ero così piccolo quando credevo di essere stato salvato, ed ero così infantile ad averlo creduto sino ai miei diciotto anni. La verità è che io non ero mai stato al sicuro, quelli che evitavo avevano sempre e comunque avuto idea di dove fossi o chi tendessi disperatamente di impersonare. Il mittente sapeva benissimo chi fosse Vega e aveva scelto nel peggiore dei momenti di farsi vivo, pur di rovinare quel poco che da solo ero stato in grado di costruirmi.
Strinsi la chiave tra le mani, stampai le dentellature nel palmo della sinistra.
Se mi fossi rifiutato tutto sarebbe andato in frantumi.
Se avessi accettato sarei diventato nuovamente quello che ero stato nei primi anni della mia vita, ma almeno avrei potuto esserlo soltanto davanti a uno specchio e mai per le persone che mi circondavano e per quelli che avevano imparato ad amarmi solo perché ero Vega e non perché ero chi ero per davvero.
Mi recai con un peso sul cuore all'indirizzo che mi era stato recapitato.
Hope Street, già soltanto quello bastava spiegare quanto sadismo ci fosse dietro quella persona che mi teneva in pugno.
Inserii la chiave nella toppa e la feci girare tre volte prima di sentire il rumore della serratura.
Era una casa quasi interamente vuota, se non per i mobili essenziali. C'era silenzio, un'assenza assordante di rumore. Sul tavolo della cucina trovai l'ennesimo biglietto.
Tempo fa gli dissi che la tua libertà avrebbe avuto un prezzo. Ho pensato a lungo al modo in cui avrei dovuto riscuotere il vostro debito, a quale pena avrei dovuto condannarlo per aver osato fare ciò che ha fatto. Ma, poi, ho capito che chi è già all'inferno non ha più paura del fuoco. Non è giusto, ora che sei un adulto, che sia lui a pagare il tuo riscatto. Da oggi sarà compito tuo proteggere il tuo segreto. Perciò, Vega, al piano di sotto troverai una porta chiusa da un lucchetto, la combinazione è 2452 e sai anche il perché io l'abbia scelta. Mi è giunta voce di una cosa, voglio che non dimentichi cosa quei numeri indichino per te. In ogni caso, voglio che tu sappia che questa non è una punizione, è solo un destino che si compie. Il tuo destino.
Molto presto verrò a trovarti, preparati. I numeri aumenteranno più la piazza crescerà, e più il nome di Vega si diffonderà tra le persone e più esso non avrà più alcuna differenza dal tuo.
A presto, I.
Ingoiai un groppo che mi stava bloccando il respiro.
Finsi che quel peso improvviso sul petto non fosse mai esistito.
Scesi le scale, composi quel numero e scostai lentamente la porta, nel momento in cui il lucchetto, aprendosi, mi permise di abbassarne la maniglia.
Scorsi all'interno di una stanza interamente vuota, un solo tavolo. Su di esso erano poggiate due scatole. L'una conteneva circa cinquanta spinelli già rollati, mentre l'altra cinque bustine di cocaina etichettate con il loro peso e già perfettamente imbustate. Ancora una volta, nel mezzo, c'era un biglietto, scritto con la stessa calligrafia dei precedenti.
Ho cercato di renderti le cose più semplici... Tra due giorni arriverà un nuovo carico. Ti conviene cercare qualcuno che ti aiuti. Puoi disporre di questa casa come più desideri. È il mio regalo per te.
Buona libertà, I.
Mi lasciai cadere sulle ginocchia, portai le mani tra i capelli, afferrandoli tra le dita fino a volerli strappare.
Mi sentivo lacerato.
Intrappolato nel gioco malato di avesse da tempo perso il senno.
Non c'era via d'uscita.
Molti anni prima avevo fatto una scelta, più di dieci anni di libertà ne erano stati la conseguenza.
Quanta prigionia sarebbe basta per ottenere il mio riscatto?
A quella domanda, neanche oggi ho dato risposta.
***
Nicholas Weaver, primo anno, chimica.
La facoltà non era un caso.
Il Walter White dell'Arkansas.
L'avevo incontrato per la prima volta due giorni dopo, alla vigilia dell'arrivo del nuovo carico. Se ne stava nel bagno di uno dei peggiori locali nella periferia di Providence, fissava l'ennesima striscia di cocaina come chi proprio non avrebbe voluto farlo, ma allo stesso tempo come chi nel giro di qualche minuto ne avrebbe consumata volentieri un'altra.
Mi avvicinai a lui alla acme della sua serata. Malgrado tutto quello che aveva già buttato giù, era ancora vigile.
Mi raccontò della sua fortuna, dell'immensa eredità che aveva ottenuto dopo la morte del padre, di come avesse voglia di sperperare ogni centesimo. E di come in breve tempo ce l'avesse fatta. Mi disse che neppure la droga era in grado di dargli quell'accenno di vita che inseguiva da sempre. E che, spesi tutti gli ultimi soldi, avrebbe di gran lunga preferito la morte a uno strascico di esistenza infelice senza nessuno che lo amasse.
Sputò fuori tutto, in pochi minuti ero stato in grado di conoscere tutto il suo passato e di indovinarne persino il futuro. Capii che Nicholas non avrebbe mai smesso di fare uso di sostanze, ma fui certo, al tempo stesso, di disporre di quell'amore di cui lo aveva bisogno.
Gli offrii una stanza nella mia casa e la maggior parte dei soldi che possedevo. Gli accordi sulla vendita della merce erano estremamente redditizi per me, mi veniva lasciata una quota consistente del denaro, poiché l'obiettivo di chi mi teneva in pugno non era certo quello di arricchirsi.
Nick si presentò al mondo come il mio braccio destro e come l'unico re che potesse esistere nei nostri affari.
Diceva che la vita l'aveva sconfitto sin dal primo vagito, ma che nessun essere vivente, a parte se stesso, ci era mai riuscito. Aveva continuato a sorridere senza mai smettere e per tutto il mondo al mio fianco era diventato King.
Non era passato molto tempo prima che la quantità della merce fosse dapprima raddoppiata e poi triplicata, pertanto convenimmo ben presto che avremmo avuto bisogno di un altro membro.
Ancora una volta era stato il fato a servirmi su un piatto d'argento il terzo componente della squadra di cui avevamo bisogno.
Jim Hindman.
Non entrava con facilità neppure dal portone d'ingresso dell'edificio in cui si tenevano le lezioni di informatica, il più grande di tutta la Brown.
Talvolta, malgrado fossi iscritto a tutt'altro percorso, mi ritrovavo a frequentare qualche corso afferente a quel percorso di studi.
Mi ero convinto di voler includere qualcuno che sapesse usare il computer e che potesse, in caso di necessità, cancellare qualche piccola traccia del nostro passaggio. Non c'era nessuno in quell'aula a navigare nel deep web con una sicurezza lontanamente paragonabile alla sua.
Lo avevo osservato in diverse circostanze e lo avevo scelto ancor prima di conoscere la sua storia. Quando mi ero avvicinato, mi aveva detto di sì ancor prima che gli ponessi la mia domanda.
Sapeva chi ero. Vega stava già diventando popolare. Gli studenti della Brown si riempivano la bocca pronunciando un nome che avrebbe dovuto restare candido, luminoso al pari della stella da cui era stato mutuato. Eppure, il suo intento, ciò che voleva, stava accadendo esattamente come aveva preventivato. Ma quel che non sapeva è avrei scelto di tenere per me persino il nome più sporco del mondo, piuttosto che riappropriarmi del mio.
Jim mi raccontò di sua madre. Aveva la sclerosi multipla. Abitavano al quarto piano senza ascensore, in Virginia. Suo padre lo aveva costretto a venire alla Brown, sacrificandosi da solo per accudire la moglie, continuando a svolgere un lavoro dopo l'altro in modo saltuario.
Lui aveva bisogno di arricchirsi in fretta, pur di aiutare la sua famiglia. Era disposto a tutto e non aveva paura di dimostrarmelo.
Gli comprai un letto più lungo e gli offrii un posto dove stare. Jim era burbero, non diceva mai grazie, ma io imparai a leggerglielo nel luccichio delle iridi.
Divenne per tutti Big, perché avevamo bisogno che anche lui avesse un soprannome, ma soprattutto furono le ragazze del college ad affibbiarglielo con piacere.
Infine, giunse il tempo di una luce che illuminasse il nostro grigiore.
Un mese dopo aver formato il nostro trio, rischiammo l'arresto. A una festa ci fu una retata. Tutti gli uomini furono perquisiti, nessun poliziotto maschio ebbe il coraggio di toccare le donne.
Avevamo appena venduto sino all'ultima bustina, perciò nessuno di noi fu schedato, eppure in quel preciso momento, tutti e tre comprendemmo una cosa importante.
Gli uomini necessitano sempre di una donna.
In quel caso, fu il semplice pretesto di piazzare tutta la roba addosso a qualcuno che potesse apparire insospettabile, ma poi, con il tempo, dopo aver scelto il nostro angelo, capimmo che l'Essere divino che ci governava ci avesse spinto tra le sue braccia per un motivo ben preciso.
Cecilia Foster, facoltà di economia, divisa striminzita da cameriera, occhi di chi aveva pianto per giorni.
La vedemmo per la prima volta da Hooters. King aveva insistito quella sera per andare in quel ristorante, aveva saputo che una sua cotta del terzo anno lavorasse lì e aveva una gran voglia, a detta sua, di vederle le chiappe.
Quando lei si avvicinò impacciata, dichiarandoci a bassa voce che quello fosse il suo primo giorno in quel posto, vidi Big sorridere come non aveva mai fatto prima.
Pensai che era davvero bella e che c'era qualcosa in lei che mi convincesse, senza neppure avere la necessità di conoscerla, che lei fosse estremamente pura. Uno di quei diamanti rari in un mare infinito di terra scura.
Le domandai perché avesse pianto, scorgendo nelle sue pupille chiari segnali che ciò fosse accaduto fino a qualche istante prima.
Cece si aprì con noi tra una portata e l'altra, dicendoci di come si sentisse smarrita a essere diventata nuovamente orfana di padre. Il suo genitore biologico non l'aveva mai accettata, ma ogni compagno della madre, pur volendola crescere come una figlia, ogni volta che le cose con la signora Foster inesorabilmente andavano male, l'abbandonava. Facendole vivere all'infinito la morte di un padre che difatti non aveva mai avuto.
Capii sin da subito quanto lei avesse bisogno di soldi. E non era soltanto perché avesse scelto di indossare degli abitini succinti e sperare nelle laute mance di ragazzini arrapati che lo avevo inteso. Ma era senz'altro il fatto che lei in quel contesto non centrasse assolutamente nulla.
Era destinata a essere una regina, con il reggiseno imbottito di droga, ma pur sempre una donna da tiara e gioielli. Misi sul piatto tutto ciò che avevo e lei tolse la maglietta di Hooters e ci seguì nei nostri folli piani ancora mezza nuda.
La chiamammo Boobs, non per rimarcare l'enorme dono che le era stato donato, piuttosto scegliemmo quel nome perché a turno le sue tette erano il luogo dove era capace di consolare le nostre anime. A volte scopavamo, come la prima notte in cui ci eravamo conosciuti, tutti insieme. In altre occasioni, andava con uno di noi a turno. Non c'era gelosia, né sentimenti che andassero oltre l'immenso amore di squadra che ognuno di noi provasse per l'altro. Ci facevamo felici a vicenda, arrotolandoci le maniche pur di vendere abbastanza.
Per tenere viva la fiamma che ancora permetteva a King di sopravvivere; per pagare le cure e l'assistenza di cui necessitava la madre di Big; per concedere a Boobs la possibilità di continuare a studiare alla Brown, rendendo se stessa per la prima volta l'unica persona di cui aveva bisogno per sopravvivere, senza più dover contare sulle doti di sua madre; per dare a me un altro istante di libertà, per allargare le sbarre della mia prigione quanto bastava per poterne scorgere attraverso il mio cielo.
Un peso in più sul mio cuore.
Il peso dell'esistenza degli altri.
Un cuore che avrebbe dovuto esser fermo che continuava a battere soltanto per loro.
A causa loro, per merito loro.
Spazio autrice:
Più tardi revisiono il capitolo, potrei aver lasciato strada facendo persino qualche mio appunto. Grazie comunque a voi che, malgrado tutto, siete qui a leggerla. Per me Nameless è molto importante, e chi ha letto TAOBA o Code potrà immaginare perché. Spero di ritrovarvi qui anche lunedì prossimo. Non mi abbandonate,
Matilde.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro