Capitolo 7 - L'alba sancirà la fine
Avevo vegliato sul petto del nemico.
Una scelta presa da tempo, niente che fosse stato dettato dal caso.
Mi ero concessa di addormentarmi soltanto quando il sole aveva raggiunto un'altezza nel cielo tale da poter dire che l'aurora fosse ormai terminata.
Tutto ciò che aveva preceduto l'alba l'avevo trascorso a osservarlo.
L'avevo guardato ad occhi chiusi.
Per ore.
Un tempo credevo che la vista fosse il senso più importante che un essere umano potesse possedere, ma poi avevo imparato, alla soglia dei miei sedici anni, che avrei potuto fare a meno di tutti e cinque se solo l'avessi voluto.
Del resto, per chi come me aveva continuato a vivere lasciandosi scivolare addosso la vita stessa, non esisteva alcuna ragione per la quale riconoscere nuove immagini, ascoltare suoni sconosciuti, assaporare novità, toccare gli altri, incamerare nei polmoni aria che portasse con sé odori mai sentiti. A quelli come me bastava restare in piedi, farsi trafiggere dal mondo e al tempo stesso pregare che esso rimanesse sempre indifferente alla nostra presenza.
Non esisteva sguardo in grado di trapassare l'oscurità della cella in cui volutamente mi ero imprigionata.
A cosa serviva vedere se non c'era più nulla da guardare?
E così dopo mesi mi ero abituata.
Non c'era dettaglio che potesse sfuggirmi.
Avevo imparato a leggere le persone al pari di una favola per bambini.
Le analizzavo con le palpebre chiuse, con i tappi nelle orecchie, con le mani fuori uso, con le narici tappate e la bocca serrata.
Vega quella notte era inquieto.
C'era qualcosa che lo preoccupava al punto da rendergli il sonno impossibile.
Avrei tanto voluto indurlo a confessarmi ogni sua preoccupazione, ma sapevo perfettamente che prima di azzardarmi a fare una richiesta simile, avrei dovuto entrare molto di più nelle grazie sue e del suo gruppo sgangherato di amici.
Alla Brown li paragonavano alle quattro stagioni.
Dicevano che Vega fosse l'inverno.
Tutti amavano acquistare il divertimento dall'estate, Cece, e quando non potevano, a causa delle imposizioni dall'alto, allora non c'era anima viva che non scegliesse come rifornitore King, la primavera.
Big era l'autunno, ma faticavo a convincermene.
Lui era più freddo di quanto Vega non lo sarebbe mai stato, eppure agli occhi di chi non li conosceva, malgrado i suoi silenzi e i suoi sguardi giudicanti, c'era chi lo considerava più mite.
Io e Vega avevamo molto in comune.
Lui era sempre stato inverno, io lo ero diventata nel momento in cui era entrato senza saperlo nella mia vita.
Il mio corpo era glaciale come un iceberg, in totale contrapposizione al suo che pareva ardere come fuoco.
Se solo chi lo osservava da lontano fosse arrivato abbastanza vicino da sfiorargli un lembo di pelle si sarebbe certamente reso conto di come lui non potesse essere paragonato a quella stagione.
Il suo cuore, quello forse sì, era gelato come la neve posatasi da settimane, ma il resto no, non si poteva certo affermare che mancasse di temperamento.
Talvolta quella notte mi accorsi di come il suo sguardo fosse ovunque su di me.
Mi studiava, così come io stavo facendo con lui, ma in un modo molto più banale e poco accorto.
Lui, a differenza mia, aveva ancora bisogno che le sue iridi percorressero ogni millimetro del mio corpo per provare a comprendere qualcosa di me che quel poco che gli avevo rivelato ancora non gli avesse permesso.
Non era la mia presenza a renderlo così ansioso, ne ero certa.
Ma l'avermi nella sua casa, sdraiata accanto a lui nel suo letto, non doveva renderlo particolarmente euforico.
Io intanto fingevo abilmente di dormire, mascherando il mio volto distrutto con un sorriso spontaneo, che di spontaneità non aveva proprio nulla.
A un certo punto, però, pareva che il mondo intero avesse deciso di riportarmi a vedere.
Avevo sentito d'improvviso, senza che me lo aspettassi, il mio volto riscaldarsi grazie alla luce del sole.
Solo allora non avevo potuto protrarre oltre la mia recita.
La mia alba mi richiamava a sé.
E mai avrei potuto farmi trovare assente a quel suo appello.
Avevo spalancato gli occhi, attirata dal richiamo di colei che mi aveva generata.
Vega doveva aver frainteso, perché non appena si era accorto di come il mio sguardo inseguisse quel sole pallido, ma al tempo stesso aranciato, si era sporto, sfiorandomi con ogni parte di sé ogni frammento di me che in quel momento gli fosse accessibile, e aveva premuto un pulsante che aveva dato vita a un movimento delle tende che rischiava di farmi sparire con sé. Per l'ennesima volta, a causa sua, rischiavo di perdere l'unico momento di felicità paradisiaca che fosse concesso in Terra.
Ero stata costretta a pregarlo di fermarsi.
A implorarlo di salvaguardare quello spettacolo della natura.
Anni prima non avevo avuto l'opportunità di antepormi tra lui e ciò che aveva fatto.
La mia alba l'aveva spenta senza mai girarsi indietro.
Da quel giorno, avevo giurato a me stessa, che non avrei mai più consentito al buio di oscurare la mia luce.
Se due anni dopo mi ritrovavo con lui, nel suo letto, con un piano che credevo ben orchestrato nella mente, era stato solo e soltanto a causa sua.
Chi è causa del suo mal...
Pianga se stesso.
***
Cece alla fine me l'aveva detto.
Aveva indossato il suo sorriso migliore e mi aveva scosso dal sonno profondo a cui solo poche ore prima mi ero concessa.
Mi aveva condotta in cucina, aveva preparato per me la colazione, rischiando di ustionarsi più volte, arrivando a un pelo dal far scattare l'allarme anti-incendio. Si era seduta e si era aperta con me.
Mi aveva raccontato di come si era sentita smarrita il giorno in cui sua madre le aveva comunicato dell'imminente divorzio tra lei e il rettore della Brown. Di come avesse provato smarrimento a sapersi in un'università prestigiosa che non meritava di frequentare, con una parte consistente della retta da pagare e con una casa troppo grande perché lei potesse essere capace di badarvi da sola. Lei che sin da quando era venuta al mondo aveva potuto contare soltanto sulle doti di accalappiatrice di sua madre.
Ci aveva provato a lavorare.
Aveva strizzato i suoi seni in una minuscola uniforme di Hooters e aveva pregato quel giorno, come mai prima di allora, sperando che gli sguardi che le avrebbero rivolto sarebbero bastati per farle ottenere quante più mance possibili per sopravvivere. Almeno fino a quando sua madre non avrebbe annunciato l'ennesimo matrimonio che l'avrebbe messa in condizione di tornare al suo status di partenza.
Non appena aveva solcato il pavimento in legno rigato del locale, un fremito aveva rischiato di farla cadere rovinosamente.
Quando la bellezza di mia madre sfiorirà inevitabilmente toccherà a me prendere il suo posto?
Era stata quella paura a farla sorridere di più.
Era stato quel sorriso - come diceva lei - ad averle salvato la vita.
Le prime tre persone che si erano sedute a un tavolo che faceva parte del suo settore erano state le stesse tre che le avevano rivoluzionato l'esistenza.
Si era aperta con loro e loro le avevano offerto una soluzione.
Da quel giorno aveva estinto ogni debito.
Vega aveva consegnato un pezzo del suo cuore ad ognuno di loro.
Non si erano chiesti perché lo facesse, né chi fosse in realtà, avevano semplicemente accettato di farsi salvare da lui. E da quel momento erano diventati tutti allo stesso modo suoi debitori.
Avevo ascoltato in silenzio, dandole talvolta - volutamente - l'idea che ciò che mi stesse raccontando non mi facesse sentire totalmente a mio agio. Alla fine, però, ero riuscita esattamente nel mio intento.
Sapevo che Cece mi avrebbe amata sempre di più se l'avessi accettata per quello che era.
Per tutta l'esistenza si era preoccupata lei di essere adeguata agli altri, finalmente con me avrebbe provato il contrario.
La nostra conversazione poi si era spostata su argomenti più frivoli, quando, con l'arrivo di Vega, subito dopo un'insolita dichiarazione d'amore nei suoi confronti, per altro senza preoccupazione alcuna dinanzi allo scheletro dormiente di Big, aveva iniziato a raccontarmi di come in quella casa più volte avessero consumato dei rapporti sessuali tutti insieme.
Quella notizia mi aveva sconvolta più di quanto l'avessero fatto tutte le altre.
Perché ero a conoscenza di tutto riguardo a loro, ma quel piccolo dettaglio del loro atipico poliamore mi era sfuggito negli anni.
Rimasi scossa, non perché mi ritenessi una bigotta, quanto più perché quell'informazione rischiava di mettere in discussione tutto ciò che avevo programmato nei minimi dettagli.
Volevo diventare parte inscindibile della loro unione.
Il quinto membro di cui non sapevano di avere bisogno.
Quella che, però, non avrebbe fatto altro che distruggerli dall'interno.
Ma ero davvero pronta a farlo seguendo le loro regole? Concedermi a uno solo dei miei aguzzini era già stato scritto, ma tutti e quattro contemporaneamente forse sarebbe stato troppo persino per me che non avevo più coscienza e volontà.
Tutto era stato estremamente veloce.
Vega un minuto prima era lì e quello seguente stava fuggendo per rispondere a una telefonata.
Avevo intravisto il nome della persona che l'aveva chiamato.
E mi ero ricordata di quel poco che sapevo su di lui.
Vega era figlio di Lyra.
Nessuno sapeva chi fosse suo padre, né tanto meno c'era anima viva che conoscesse la vera identità del figlio.
Quello che mi aveva colpita, però, era stato l'attaccamento che lui provava nei confronti di chi l'aveva generato.
Firmava tutte le sue opere apponendovi una costellazione.
Non era lui a realizzare quei quadri, quelle statue e quelle particolari illustrazioni.
A farlo era il connubio tra lui e suo padre.
Quello che da solo non sarebbe mai stato.
A quel punto tentai il primo disperato approccio.
In fondo Cece stava iniziando a provare per me un qualcosa che presto si sarebbe trasformato in una tenera amicizia, pertanto mi convinsi a tentare.
«Da dove viene Vega?», azzardai all'improvviso.
Lei continuò a sciacquare i piatti riponendoli nella lavastoviglie.
Non sembrò turbata.
«Non lo so», ammise, non fermandosi.
«In che senso?», scoppiai a ridere, «siete strani forte», proseguii.
«Lui dice che viene da ogni luogo e al tempo stesso che mai nessun posto gli è appartenuto per davvero... Immagino che se avesse voluto dirlo lo avrebbe fatto», scrollò le spalle, non vedendo alcuna stranezza nella risposta che mi aveva concesso.
Si asciugò le mani con uno strofinaccio e poi accese una sigaretta, sedendosi accanto a Big e accarezzandogli i capelli.
«Pensi che stanotte potremo tornare a casa nostra?», cambiò argomento.
«Vado a cambiarmi e passo a vedere com'è la situazione», mi alzai in fretta. Forse sarei riuscita ancora ad origliare la conversazione di Vega.
Lei annuì, lasciandomi andare senza fermarmi.
Le scale in legno scricchiolarono un paio di volte sotto i miei passi.
Non udivo la sua voce, pertanto ebbi la certezza che avesse già chiuso la conversazione.
Quando fui davanti alla porta del suo studio, mi bloccai.
Lo vidi ricurvo su una tela, impegnato a sporcare un paesaggio notturno di una luce accecante.
Rimasi come incollata al pavimento.
Il colore che stava utilizzando.
Il rosso aranciato che stava aggiungendo sulla tela.
Quel tono dannato.
Io lo conoscevo.
Era la mia ossessione.
Era esattamente identico a quello che avevo osservato tempo prima e che per anni avevo cercato in ogni sfumatura dell'alba.
Mai ero stata capace di rivedere una tinta simile.
E in quel momento, accanto al mio demonio, me lo ritrovavo davanti.
Solo allora fui sicura.
Quella non era la tonalità scelta da Dio, quella era la cromia del diavolo.
Vega ansimava sul quadro.
Sembrava stesse depositando tutta la sua energia su quella tela.
Come se non volesse più la vita, donandone ogni sprazzo all'arte.
Piansi, senza accorgermene.
Tremai.
Un respiro troppo pesante mi sfuggii dalle labbra.
Lui si voltò come un'anima ferita, scoperta senza la sua maschera.
Anche il suo volto era pieno di lacrime.
Seguì con lo sguardo le mie, e io feci lo stesso con le sue.
Mi impedii di pensare al perché stesse piangendo.
Escludendo che ciò che aveva ferito me potesse essere stato il medesimo squarcio anche per lui.
Lacerava forse i suoi quadri, non per avvicinarsi tanto all'arte di Lucio Fontana, quanto per riprodurre la sua psiche ridotta in brandelli?
«Perché ti struggi e ti distruggi nell'arte?», per un secondo non credetti fossi stata io a pronunciare quella domanda, pensai che una terza persona si fosse materializzata con noi in quella stanza. Non so perché glielo chiesi, ma quello che mi disse e quello che ne seguii cambiò le sorti del nostro futuro.
«Io non mi distruggo, io mi creo», alzò di poco il volto, lasciando che le sue iridi scure si mescolassero alle mie.
«E perché sembra che tu stia soffrendo?», ribattei, mantenendo alto lo sguardo nel suo. Un buco nero sarebbe stato meno profondo. Per quanto tentassi, mi era impossibile entrargli più dentro di quanto lui mi permettesse. Era come se avesse un guardiano alle porte del suo io più profondo, pronto ad allontanare chiunque tentasse di oltrepassare quella soglia.
«Perché un sole non può stare in un cielo nero», interruppe il nostro contatto visivo, per spostare altrove i suoi occhi. Studiò sgomento la superficie della tela che aveva appena dipinto.
«È un cielo nero che non può stare attorno al sole», afferrai il pennello ancora sporco di quel colore, quella medesima sfumatura che ricercavo in ogni cosa al mondo sin dai due anni precedenti. Ne sfiorai le setole con le dita, sporcando indice e medio e tingendomi parte delle unghie.
«Eppure, Vega, quel quadro l'hai dipinto tu...», girai attorno al cavalletto, posizionandomi sul retro. Appoggiai il mento sul bordo superiore, lasciando che le mie dita sfiorassero la superficie laterale.
«Io dipingo tante cose, Dawn, davvero tante», pose l'accento sul mio nome, sorridendomi appena.
«I soggetti che scegli», mi guardai intorno, «nessuno di loro esiste nella nostra realtà?», mi soffermai soprattutto su una quantità di tele infinite che recavano tutte le raffigurazioni di stelle trasfigurate in donne diaboliche.
«Esistono dentro di me», tolse bruscamente il quadro da sotto il mio viso, lasciandomi quasi cadere in avanti. Mi sorresse rapidamente con un gomito.
Accantonò velocemente la sua ultima creazione, accanto a una pila di altri lavori.
«Qualsiasi cosa, anche quella che ti sembra più improbabile, con il solo tocco di un uomo che si proclama artista può diventare opera d'arte», proseguì, dandomi le spalle.
«Solo ciò che ha dietro un'idea può essere un'opera», lo corressi.
«In un certo senso sì, ma l'arte vera e propria nasce per la volontà di un essere finito di raggiungere l'infinito...», afferrò un pennello abbandonato poco distante da lui sul pavimento. Aprì un barattolo di colore e lo immerse al suo interno. «Se io decido di fare di te un'opera d'arte, tu diventi arte», proclamò, facendo gocciolare una grande quantità di acrilico blu per terra.
Mi si avvicinò e, con la calma atipica di chi dentro di sé ha un fuoco dirompente, mosse la mano sul mio petto, assestandomi diverse pennellate all'altezza del seno, là dove il mio top si apriva in una scollatura abbastanza pronunciata.
Percepii il blu notte tingermi fin dentro lo sterno, oltrepassando pelle, muscoli ed ossa. Il colore era tanto da colare immediatamente all'interno della mia maglietta, raggiungendo prima il reggiseno e subito dopo persino i capezzoli.
Percepii il freddo della notte che si insinuava dentro di me come una malattia, accrescendo il mio odio e eccitandomi allo stesso tempo.
Non avevo conosciuto per davvero Vega prima di quel giorno.
Fu allora che capii che la mia vendetta avrebbe assunto tutto un altro valore, ora che sapevo quanto il mio avversario fosse valido.
Mi toglieva il respiro e contemporaneamente mi faceva desiderare di fare lo stesso con lui, in maniera permanente.
Restammo fermi nella medesima posizione, per qualche secondo di troppo. Mentre lui osservava i miei seni cosparsi del suo veleno, ed io guardavo attraverso di lui, totalmente rapita dall'agitazione di quel momento.
Fu un pensiero che giunse come un lampo a rivoluzionare ogni cosa. Agguantai il pennello che aveva utilizzato fino a poco prima per dipingere il sole nel suo quadro e, con quel tono di rosso-aranciato, cancellai prima ogni traccia di oscurità dalla mia pelle, e poi, tinsi una croce a partire dal suo collo lungo tutta la sua linea d'alba.
«Al cielo stellato ho sempre preferito l'aurora.»
«Immagino che l'alba sancirà la mia fine.»
«Mi auguro che sarà così», sorrisi, ma lui non intese per davvero ciò a cui io stessi alludendo. Ma qualsiasi cosa lui pensò, non poté che rendermi euforica. Per entrare nella sua vita al punto da scoprire quale identità si celasse dietro la sua, dovevo entrare nel suo letto e poi nel suo cuore. Nel primo in qualche modo ero già riuscita a insinuarmi, ma nel secondo ci sarebbe voluto certamente più impegno.
Eppure c'era qualcosa nel modo in cui lui mi parlava a darmi la certezza che ce l'avrei fatta...
***
Rimasi sotto la doccia molto più tempo di quanto quella pittura necessitasse.
Mi ero rifiutata di guardarmi allo specchio, prima di sottopormi al getto fresco dell'acqua. Erano rare le volte in cui permettevo ai miei occhi di indugiare sul mio corpo nudo, ma in quell'occasione era ancora più difficile studiarmi nel mio riflesso senza vedermi imbrattata dalle sue ombre.
Avevo lavato via ogni resto di quel colore dalla mia pelle, eppure, non appena chiudevo gli occhi rivedevo esattamente quel tono di rosso ripresentarsi come un lampo dinanzi alla vista di chi da anni non riusciva più a vedere.
Cercai di convincermi a non pensare ancora a ciò che ci eravamo detti, alla profondità delle parole che ci eravamo scambiati, costringendomi a ricordare ogni momento del mio passato che aveva fatto in modo che in me si alimentasse quella sete infinita di vendetta.
Quando ebbi finito, decisi di chiamare prima l'idraulico per assicurarmi che tutto fosse stato riparato e poi l'impresa di pulizie, per domandare loro quando la casa sarebbe stata pronta.
Mi assicurarono che l'appartamento sarebbe tornato come nuovo in serata, perciò mi concessi di rispondere positivamente all'invito di Hailey e Wes per un incontro pomeridiano. Il fine settimana ci concedeva una pausa dalle lezioni appena iniziate, ma i laboratori di scrittura ci richiedevano già un immenso impegno.
Risalii le scale che dal seminterrato portavano al piano superiore, ero determinata a raggiungere a piedi l'università. Non avevo voglia di parlare con nessuno, benché meno con l'unica persona che mi trovai davanti non appena aprii la porta principale per uscire all'esterno.
«Dove vai così di fretta», una voce ormai familiare mi sorprese.
«Ho un appuntamento al campus», sistemai i capelli lungo le orecchie, sorridendo al mio interlocutore.
«E come avevi intenzione di arrivarci all'università?», Vega spense la sigaretta sull'ultimo gradino del portico, gettandola poi in un posacenere stracolmo.
«Non è così lontano», sembrò che volessi convincere più me stessa che lui.
«Ho anche io da fare lì, stavo proprio per partire. Se vuoi posso darti un passaggio», si alzò, infilandosi direttamente dalla portiera del guidatore nell'auto. Non sembrò che la sua fosse una domanda quanto più una costrizione.
Lo seguii, malgrado il mio umore altalenante, non potevo permettermi di sprecare qualsiasi opportunità il destino mi avrebbe regalato per stare da sola con lui.
Potevo essere melanconica in ogni momento della giornata, ma mai quando Vega si proponeva volontariamente di passare del tempo con me. Persino dal letto di morte mi sarei alzata se lui mi avesse dato una minima speranza di aprirsi a me permettendomi di scorgere finanche un minuscolo brandello di verità.
«Che hai da fare?», indagai con tono neutro, il mio era un interrogativo del tutto interessato nascosto sotto forma di una domanda di circostanza.
«Erba», indicò appena con il capo il retro dell'auto. Mi voltai, notando uno zainetto adagiato sul sedile.
«Ah, wow... adesso ne parliamo liberamente come se fosse normale?», risi. Quella era una vera costatazione alla Dawn. Era assurdo farmi entrare in un'auto piena di droga, rendendomi complice dei suoi traffici.
«Non mi pare tu abbia avuto problemi a dormire stanotte nella stanza accanto a un deposito di cocaina, marijuana e anfetamine di ogni genere», mise in moto, cercando di celare la sua espressione divertita dietro i movimenti meccanici della guida.
«E se ci beccassero?», incrociai le braccia al seno, guardandolo male.
«A parte che non mi hanno mai beccato prima d'ora, sarebbe strano se accadesse il primo giorno che entri nella mia vita, non trovi?», domandò serio, lanciandomi un'occhiata criptica, «in ogni caso, direi che non avevi idea di quello che stavo trasportando.»
Avrei replicato volentieri alla sua provocazione, se Wes non avesse interrotto il nostro scambio di battute con la sua improvvisa chiamata.
«Hey, Wes», risposi immediatamente, salutandolo molto più calorosamente di quanto avrei voluto. Del resto far credere a Vega di avere già un papabile pretendente poteva essere in qualche modo una strategia vincente per il nostro rapporto.
«Ci siamo spostati in biblioteca, all'esterno c'era troppa confusione, Ley non riusciva a pensare», riconobbi una punta di sarcasmo nella sua voce.
«Ok, due minuti e sono lì», lo dissi nell'esatto momento in cui Vega decise di accelerare improvvisamente, facendomi indietreggiare di scatto verso la superficie del sedile. Gli diedi un colpo sulla coscia, per chiedergli di moderare la velocità, ma lui per provocarmi ancora di più non fece altro che andare più veloce.
Quando l'auto stazionò nei pressi della biblioteca, lo insultai, utilizzando tutte le parolacce che conoscevo, lo accusai addirittura di essere un guidatore peggiore di Cece. Quest'ultima, più di tutte le altre, sembrò offenderlo per davvero.
«Bene, a mai più...», tirai un sospiro di sollievo nel momento in cui le mie gambe toccarono finalmente terra.
«Si dà il caso che anche io abbia da fare in biblioteca, perciò...», mi affiancò, schernendomi. Era atipico, per chi come me conosceva Vega dall'esterno, vederlo in realtà così scherzoso. Chi era stato il primo ad affibbiargli il ruolo da introverso figlio di puttana?
«Ah, adesso anche quelli che studiano nel weekend, invece di ubriacarsi alle feste, hanno iniziato a drogarsi?», pensai che continuare a provocarlo sarebbe stata la scelta giusta. Anche perché, soffocando ciò che di negativo provavo per lui, quelle sarebbero state esattamente le parole che avrei pronunciato se avessi avuto realmente interesse nel conquistarlo.
«Soprattutto gli sfigati... vendiamo più a loro che a chiunque», pose l'accento su quel termine, lanciandomi una stoccata non troppo velata.
«Dawn», vidi Hailey sbracciarsi da una postazione studio non molto lontana dall'ingresso.
«Bene, io vado... grazie del passaggio», riprodussi un gesto militare sulla fronte, salutandolo in maniera buffa.
«No, credo che verrò con te», improvvisamente si rabbuiò, proprio nel momento in cui i suoi occhi si legarono a quelli dell'unico ragazzo presente nella sala, Wes.
Vega mi superò, andandosi a sedere accanto a Hailey.
«Ma ciao», lei sembrò sorpresa dalla sua presenza.
Tutti sapevano chi fosse lui, tutti conoscevano Inverno e quello che faceva per vivere, eppure a lei sembrò andare bene così. Anche quando lui appoggiò ai suoi piedi il suo zaino dal contenuto ovvio.
«Dawn non ci avevi detto che avresti portato un amico», la sua bocca si contrasse in una smorfia innaturale.
«Infatti», Wes utilizzò un tono di disprezzo piuttosto palpabile.
Vega gli rivolse uno sguardo carico di sfida e poi semplicemente, come se la sua presenza fosse gradita da tutti, estrasse il suo computer e iniziò a digitare freneticamente sulla sua tastiera.
«Hailey, piacere di conoscerti», lei allungò la mano, disturbandolo da ciò che in meno di due secondi aveva iniziato a fare. Lui gliela afferrò senza guardarla, sussurrando distrattamente il suo nome, «Vega», o almeno l'appellativo che autonomamente si era dato.
«Cosa studi?», lei lo incalzò ancora. Quasi sembrò non fosse capace di accorgersi di quanto le sue domande lo stesso infastidendo. Aveva un atteggiamento strano, ma era forse quel suo modo di essere ad aiutarmi a capire perché molti lo ritenessero più freddo di Big.
«Astronomia», si morse il labbro, continuando a digitare rumorosamente sulla tastiera. Sembrava un pianista in preda a un delirio creativo.
«E cosa fa un astronomo?», Hailey sembrò ancora più incuriosita.
«Fissa le stelle come se la vita fosse lassù piuttosto che quaggiù», lo sbeffeggiò Wes.
Fu solo in quel momento che Vega si permise finalmente di staccare gli occhi dallo schermo.
«Non posso guardare verso l'alto, se io sono già là, Weston McKenzie... piuttosto mi domando se tu sarai mai uno scrittore degno di questo appellativo... Come si fa a consacrare la vita all'arte restando aggrappati ad una sedia? Fissare le stelle, sai, non ti farebbe male... Sono certo che tuo fratello possieda la soluzione a ogni tuo problema. Potresti persino raggiungermi in cielo se solo lui te lo permettesse, o se te lo permettessi io, s'intende», allargò di poco la bocca verso destra, riproducendo un sorriso stirato che appariva più come un ghigno. Poi, nel silenzio protratto, ritornò a digitare sui suoi tasti, come se non avesse mai parlato.
E non parlò per molto tempo.
Furono i suoi silenzi a pesare più di mille parole.
Spazio autrice:
Io innamorata di Vega dopo soli sette capitoli. Non oso immaginare come arriverò alla fine😂
Spero che la storia vi stia interessando, vi invito sempre a trovare un modo per farmelo sapere, mi rendereste davvero tanto felici.
A lunedì prossimo,
Grazie perché ci siete,
Non mi abbandonate🥀,
MR
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