Capitolo 5 - Tutto il contrario di tutto
Finalmente ero in quella casa.
Ero seduta sul loro divano.
Lui non c'era.
Eppure, tutto mi parlava di lui.
L'orologio scandiva il tempo, quel frangente infinito che ci avrebbe portati finalmente l'uno davanti al volto dell'altro.
Mi guardavo intorno, compiacendomi di ciò che ero stata capace di raggiungere.
Avrei agito con il favore delle tenebre, sperando di aggiungere un tassello importante a quelli che componevano la mia verità.
Cece e Big non erano capaci di staccarsi per più di cinque secondi l'uno dal corpo dell'altro. Si ispezionavano le bocche con le loro lingue fameliche, non considerando neppure per un secondo la mia presenza a ostacolare la buona riuscita dei loro amplessi. Il loro comportamento, però, non mi infastidiva affatto. Era solo un ulteriore motivo di libertà.
Finsi di avere bisogno di un bicchiere d'acqua e mi allontanai da loro, per raggiungere la cucina.
Odiavo l'odore di qualsiasi cosa avessero preparato lì dentro, ma ero così felice di poter ispezionare liberamente quegli spazi, da bearmi persino della puzza presente in quella stanza.
Tutta la villetta era in pessime condizioni.
La muffa rischiava di mangiare ogni angolo di quelle pareti.
Tuttavia, nessuno di loro sembrava farci minimamente caso.
Aprii il frigorifero e ispezionai tutti i ripiani. Non che mi aspettassi di trovare qualcosa di rilevante, ma per chi aveva sviluppato un'ossessione come la mia, persino sapere cosa consumasse il nemico poteva essere motivo di interesse.
Decisi di scattarmi una fotografia, esattamente davanti a un'immagine appesa sul loro frigorifero.
Boobs, King, Big e lui erano stati immortalati felici sulla pista da ballo di una qualunque delle feste a cui partecipavano costantemente. Non esistevano giorni feriali o fine settimana. Quei quattro erano dovunque la mondanità richiedesse la loro presenza.
Sorrisi, riproducendo con la destra il simbolo della vittoria.
Inviai l'immagine al contatto che avevo memorizzato sotto il nome "R", aggiungendo una didascalia.
Nella tana dei leoni. Aspetto di incontrare il re.
La risposta fu immediata.
Si vedeva che non aveva impegni, se non perdere il controllo sulla sua poltrona.
R:
Qualsiasi informazione tu riesca a reperire, inviami tutto.
Anche nelle cose apparentemente banali possono nascondersi segreti inconfessabili...
Scelsi di non replicare.
La serata trascorse tranquilla, senza che né King né tanto meno colui che stavo attendendo si facessero vedere. A un certo punto la passione tra gli unici due che fingevano di farmi compagnia si fece così insostenibile che entrambi furono costretti a fingere un improvviso bisogno di andare a dormire, per giustificare la loro fuga.
Rimasta da sola, mi sistemai sul divano, distendendomi in una posizione molto simile a quella fetale. Provai a chiudere gli occhi, per riposare quanto bastava per essere abbastanza sveglia al mattino presto. Se non mi era stato concesso di incontrarlo, almeno avrei dovuto ispezionare ogni centimetro di quell'abitazione in un orario in cui tutti sarebbero stati addormentati.
Non so per quanto tempo caddi in un sonno profondo, quel che ricordo è che venni svegliata da un gran baccano.
«Mettetevi comodi», urlò qualcuno, dopo aver sbattuto sonoramente il portone d'ingresso.
«Ah, cazzo», lo sentii imprecare.
Quando schiusi le palpebre mi ritrovai King a un passo dalle labbra.
Rimasi pietrificata.
«Tes-tes», si morse la lingua, «tesoro, ho una cosa di lavoro importante da fare», il suo alito, da solo, sarebbe stato capace di farmi ubriacare dopo anni.
«King, allora, cosa ci proponi? Lei è sul menù?», un uomo di circa quarant'anni appoggiò la schiena alla parete, osservando con uno sguardo languido, che avrei giurato avesse una vera e propria consistenza, le mie gambe.
«No, no, no», King negò, muovendo entrambe le mani con i palmi rivolti a lui.
«Lei adesso va a dormire in camera mia», mi fece segno, aggiungendo a bassa voce, «chiudi la porta a chiave.»
Non dissi nulla. Semplicemente mi alzai e, il più velocemente possibile, raggiunsi il corridoio.
A quel punto rimasi sulla soglia della porta della stanza di King a origliare.
«Pensavo che insieme alla molly, mi volessi donare anche quella lì», il tipo di prima continuò a riferirsi a me.
«Parliamo di cose serie», un'altra voce più grave sembrò volerlo zittire.
«Possiamo provare tutto quello che volete e poi... parlare dei prezzi. Siamo interessati a rifornire il vostro club», King, per quanto fosse estremamente vicino al coma etilico e probabilmente anche all'overdose, sembrò capace di mantenere il controllo.
«Con chi avremmo il piacere di collaborare?», chiese ancora quell'uomo più anziano che avevo soltanto intravisto.
Sentii la maniglia della stanza accanto abbassarsi rumorosamente.
A quel punto fui costretta a balzare nella camera di King.
Imprecai, ma confidai che avrei potuto ascoltare altro, non appena chiunque fosse uscito a controllare di chi fossero gli schiamazzi provenienti dal salotto, sarebbe tornato a dormire. Qualcosa mi diceva che l'udito particolarmente spiccato di Big lo avesse portato a percepire rumori non identificati.
Pensai di sistemarmi a letto, qualora Boobs fosse venuta a sincerarsi delle mie condizioni.
Pertanto, mossi il lenzuolo, per adagiarmi sul materasso.
Ciò che vidi mi fece rabbrividire.
Una macchia enorme di un liquido non identificato mi guardava quasi come se potesse prendere vita al centro del coprimaterasso. Tante piccole sue simili erano sparse ovunque, persino lungo tutta la testiera del letto. Probabilmente se avessi avuto con me il luminol avrei potuto vedere un'intera squadra di calcio di bambini mai nati fluttuare per tutta la stanza. Mi inorridii il pensiero di come King avesse potuto spargere, quello che ipotizzai fosse liquido seminale, su ogni superficie orizzontale e verticale presente nel raggio di un chilometro.
«Io non dormo qui dentro nemmeno per tutto l'oro del mondo, piuttosto abbandono ogni intento di vendetta», dissi a me stessa ad alta voce.
Stavo sentendo gradualmente i polpastrelli, che avevano toccato quelle lenzuola, inseminati da ciò con cui erano venuti a contatto.
«Aspetterò qui dentro che le cose fuori si facciano più tranquille e poi o tornerò a dormire su quel divano, che certamente non brillava per pulizia, o finirò persino per stendermi sul pavimento sporco del corridoio. Col cazzo che il mio corpo verrà a contatto con questo schifo», riguardai quella chiazza, coprendola con disgusto.
Dopo un'oretta passata praticamente a combattere contro me stessa e il sonno incalzante, nel tentativo di ascoltare qualsiasi conversazione si stesse tenendo al di fuori, con scarsi risultati, fui richiamata dall'improvviso silenzio che udii provenire dall'esterno.
In punta di piedi mi affacciai a osservare cosa stesse avvenendo nel salotto. Scorsi King, Big e i due misteriosi ospiti intenti a consumare qualcosa che era stato abilmente sparpagliato sul tavolino da caffè, posto tra il divano e la televisione.
Scossi la testa amareggiata e, vedendo sfumare la notte perfetta che credevo di poter passare in tutta solitudine all'interno di quella casa, mi lasciai scivolare sul pavimento. Appoggiai la fronte direttamente sul palmo della mano e socchiusi gli occhi, pregando che quello strazio potesse terminare al più presto.
Riaprii le palpebre d'improvviso, soltanto quando la luce nel corridoio si accese.
Un minuto o un'ora, non sapevo quanto fosse trascorso. Ma la figura che vidi assumere sempre più nitidezza davanti a me, mi lasciò senza fiato.
Il suo corpo era esattamente delle dimensioni che mi ero immaginata. Ogni parte di lui era stata modellata secondo il modulo greco. Avrei giurato che la sua testa fosse un/ottavo del totale, così come il busto occupasse i tre/ottavi e le gambe i restanti quattro. Mi fissava confuso, con due diamanti neri montati al posto degli occhi.
Non c'era un centimetro della sua pelle che non fosse ricoperto di inchiostro. Persino parte del suo collo appariva marchiata da segni a me non distinguibili da quella distanza, ma così familiari da poterli riconoscerli tra un milione. L'unico elemento che lo differenziava dalle immagini che avevo studiato giorno e notte, fino a consumarne parte della superficie, erano i capelli. Biondi come quelli di un principe, ma più corti e ondulati di come li ricordassi. Il luccichio del nostril che gli abbelliva la narice destra sembrava l'unica luce che le mie sclere, ancora addormentate, fossero disposte a tollerare. Anche se, per quanto desiderassi richiuderle per dare loro un po' di pace, non riuscivo a non mantenere lo sguardo fisso nella sua direzione.
Tu , tu, tu sei... tu hai spento la mia l'alba..., mi ripetevo tra i miei pensieri.
Il silenzio durò più di quanto avrebbe dovuto.
Persino lui si accorse di essere rimasto zitto per troppo tempo.
«Tu saresti?», la sua voce la conoscevo ancora meglio del suo aspetto.
Quante volte avevo ascoltato, negli ultimi due anni, quei pochi secondi di audio che erano diventati i più lunghi della mia vita, là in quel tempo e in quello spazio remoto in cui le nostre esistenze si erano intrecciate.
«Sono Dawn», usai la mano per pararmi gli occhi dalla vista del lampadario, «la coinquilina di Cece.»
«E perché sei sul pavimento di casa mia alle due di notte?», sembrò non capire.
Credevo che Boobs avesse chiesto a tutti se potessi dormire qui...
Aggrottai la fronte, domandandomi tra me e me come mai lei avesse omesso quel dettaglio proprio con lui.
«Abbiamo avuto un problema a casa e non potevamo rimanere lì... Lei mi aveva detto che per voi andava bene che io venissi a passare la notte qui», cercai di sembrare il più dispiaciuta possibile per l'intrusione inaspettata.
«Questo non spiega comunque il perché tu sia riversa sul pavimento», constatò, giustamente.
«Avrei dovuto dormire sul divano, ma King era impegnato. Mi ha detto di andare in camera sua, ma ho realmente temuto di restare incinta con il solo tocco delle sue lenzuola», mi aggiustai la frangia sulla fronte e feci ricadere i miei capelli chiari sulle spalle. Sperai di essere almeno lontanamente presentabile. Non potevo sapere come io apparissi ai suoi occhi.
«Del tutto comprensibile», accennò una smorfia a metà tra un sorriso e una risata.
«Se vuoi puoi venire nel mio letto... è pulito», si avviò lungo le scale che portavano al piano inferiore. Lì dove era nascosto il Santo Graal, nel luogo che più di tutti avrei voluto ispezionare fino a non dimenticarne neppure il numero di mattonelle che componeva il pavimento.
Rimasi immobile per qualche secondo, valutando la sua proposta.
Era un invito che non avrei potuto rifiutare, ma al tempo stesso avrebbe potuto nascondere un sotteso di tipo sessuale che ancora non sarei stata pronta ad accettare.
Sapevo che prima o poi ci sarebbe stato il pericolo di finire a letto con il nemico, per puri scopi di vendetta si intende, ma certamente non avrei creduto sarebbe potuto accadere così presto e in circostanze così singolari.
«Smettila di far frullare il tuo cervello, non ti toccherei neppure se me lo chiedessi», udii la sua voce lontana.
E che voleva dire con quello? Era forse una sfida? Dissimulava il desiderio per farmi cadere nella sua trappola?
Ma come si permette!, gridò la voce nella mia testa.
Sbattei i piedi uno dietro l'altro e mi ritrovai in men che non si dica nel cuore pulsante del piano interamente occupato da lui. Solo lui abitava quel livello, uno spazio grande quanto tutto quello in cui risiedevano i suoi coinquilini.
Una porta scorrevole separava il piccolo ingresso dalla sua camera da letto e da altrettante tre aperture dello stesso tipo. Dalla planimetria sapevo che una delle tre stanze corrispondesse al bagno, ma non avevo idea di cosa nascondessero le altre due. Sicuramente, una più delle altre, mi chiamava a sé. Un enorme lucchetto la proteggeva da possibili incursioni non richieste.
«Esattamente cosa dovrebbe significare "non ti toccherei neppure se me lo chiedessi"? Modo bizzarro di presentarsi a una donna», decisi di dare inizio alle danze, senza risultare accomodante.
L'idea iniziale della mia trasformazione in Dawn era proprio quella di mostrarmi come una ragazza insulsa come tante che, però, dietro un aspetto del tutto anonimo, nascondeva un caratterino che avrebbe potuto essere compatibile al suo. Del resto, almeno su quel mio modo di fare, non avrei dovuto mentire.
«Mi dispiaceva vederti lì... dovevo trovare un modo per farti alzare senza doverti pregare. Non che mi importi, ma so controllare i miei istinti. Non sarà di certo un unico materasso condiviso a fare di me un predatore sessuale.»
Si sedette su una poltrona posta in corrispondenza di una grande tela raffigurante la fotografia della casa dall'esterno accompagnata dalla definizione della parola "stamberga". Iniziò a sfilarsi le scarpe, abbandonando i calzini direttamente sul pavimento.
«Hai intenzione di dirmi il tuo nome prima di condividere il letto o hai più piacere a proseguire in questo modo?», smaniavo di sentirgli pronunciare quel soprannome che era l'unica cosa di sé che fosse permesso di conoscere agli altri.
«Vega», un sussurro impercettibile lasciò la sua bocca. Se non avessi conosciuto, prima di ogni altra cosa di lui, quel nome così peculiare, non sarei mai riuscita a comprendere cosa avesse detto.
«Singolare», commentai, continuando a concentrarmi sull'osservazione del quadro posto dietro di lui.
«Tre stamberghe: la fotografia della casa, la definizione dal vocabolario della parola e la bettola stessa in cui siamo. Opera mia, da un'idea rivisitata dell'esponente di spicco dell'arte concettuale: Joseph Kosuth», parve leggermi nel pensiero.
«Sei un artista?» quell'interrogativo lasciò spontaneamente le mie labbra. Quella parte di lui non la conoscevo, e a quel punto era quella che maggiormente stuzzicava la mia curiosità.
Odiavo Vega con ogni fibra del mio essere, ma per lui avevo senza alcun dubbio una sorta di ossessione malata.
«Niente di simile», si liberò della camicia, lanciandola per terra, «sono solo un ragazzo qualunque che cerca uno sfogo in un passatempo qualunque.»
«"Arte" e "passatempo qualunque" sono termini diametralmente opposti» replicai, stendendomi sul suo copriletto. La prima cosa che in quella casa aveva un buon odore di pulito.
«Una persona qualunque come me è capace di trasformare persino la straordinarietà in ordinarietà», sfilò come ultimo capo i suoi pantaloni, restando in mutande. «Faccio una doccia, tu fa come se stessi a casa tua.»
Mi lasciò da sola, nell'immenso spazio che era quella camera.
Nessuno, neppure chi in lui avesse scorto da vicino lo stesso demone che ero capace di riconoscere anche io, aveva mai parlato con lui in quel modo. Nel migliore dei casi, si diceva, il massimo che lui potesse concedere in una discussione con sconosciuti erano grugniti e sussurri appena accennati. Mi sorprese vedere quanto con me fosse disposto, pur rimanendo del tutto misterioso e piuttosto scostante, ad avere una conversazione, o almeno una sottospecie, pur non avendo la minima idea di chi io fossi.
Lo scroscio dell'acqua mi diede il via per la mia perlustrazione.
Il primo oggetto di cui pensai sarebbe stato opportuno impadronirmi fu il suo portafogli.
Dalla tasca posteriore dei suoi pantaloni prelevai un accessorio in finta pelle quasi del tutto deteriorato.
Vi estrassi immediatamente tutti i documenti.
Una persona normale ne possederebbe due o tre al massimo. Tuttavia, Vega che di normale non aveva un bel niente, ne conservava ben sette.
Tre patenti di guida rispettivamente degli stati Michigan, Carolina del Sud e Rhode Island, altrettante carte d'identità con residenza a New York, Los Angeles e Baltimora e un tesserino di riconoscimento della Brown University.
Il nome utilizzato? Mai il medesimo.
Alexander Sanders, Marcus Pitt, David Montgomery, Richard Wallace, Joseph Moore, Noah Tucker e infine, per quanto riguardava l'università, semplicemente Vega, accompagnato dal cognome palesemente falso, Doe.
Estrassi il cellulare e scattai una fotografia ad ognuno di quei documenti. Inviai tutto, malgrado l'ora, all'ultima chat. Rimisi ogni cosa al suo posto, stando attenta a non sbagliare.
Successivamente, ragionando sull'impossibilità di avere abbastanza tempo a disposizione per scassinare il lucchetto che impediva l'accesso nella seconda stanza di quel seminterrato, decisi di entrare nella terza.
Accesi la torcia del mio iPhone per evitare di produrre troppa luce. Nel buio, improvvisamente, mi ritrovai davanti un numero spropositato di tele, di statuette e di elementi metallici non identificati. C'era talmente tanto in uno spazio che doveva essere immenso, ma così pieno da sembrare esiguo, da non avere la più pallida idea su cosa avrei dovuto concentrarmi.
Ognuna di quelle opere recava la stessa firma, la Lyra, la costellazione che conteneva Vega, riprodotta nella sua forma più precisa, caratterizzata dalla presenza di puntini luminosi che simboleggiavano le stelle che la componevano.
I soggetti dei pochi dipinti che non potessi far rientrare nella categoria astratti mostravano una donna orribilmente sfigurata, trasfigurata in alcune delle sue parti del corpo negli animali più feroci del globo.
In lontananza mi parve persino di riconoscere qualcosa che mi fosse in qualche modo familiare, ma non appena feci un passo in avanti per assicurarmi che ciò che stessi guardando fosse ciò che pensavo, una mano mi afferrò un polso, bloccandomi sui miei passi.
«Lo sai che è buona regola non ficcanasare?», il telefono cadde dalla presa dell'altra mano, lasciandoci in un'oscurità appena rischiarata dal flash schiacciato sul pavimento.
«Scusami», mi chinai a raccogliere il mio iPhone, lasciando che lui continuasse a stringermi.
«Sono un'appassionata d'arte e, quando ho capito che le opere che sono al piano di sopra le hai realizzate tu, non sono riuscita a non dare una sbirciatina alle altre.»
Rischiarai il suo volto, notando come avesse i capelli bagnati che ancora gli gocciolavano sul viso, come se fosse uscito di fretta dalla doccia perché conscio della mia invasione. Stringeva tra le labbra una sigaretta, ancora spenta.
«Cosa ti piace di quello che vedi?», non mi aspettavo certo una domanda simile.
«Il modo in cui hai rappresentato quella donna», la indicai sulle molteplici tele che la raffiguravano.
«Niente di speciale», afferrò le due più grandi, ruotandole sul lato opposto, per celarmene la visione.
«C'è un insieme di stili che mi confonde», feci finta di nulla, continuando a parlare senza fermarmi.
«Perché quello è il mio intento: confondere», premette l'interruttore, illuminando l'intera stanza grazie all'accensione di due luci al neon.
«Faccio un po' di tutto... dai ready-made, al color field painting, all'action painting, allo spazialismo, persino un po' di body art e spruzzate varie di arte concettuale. Ho tentato più volte di dar vita a un movimento artistico che fosse tutto mio, ho dipinto e stropicciato un milione di tele, ma poi in fondo mi sono reso conto che non c'è nulla che io possa fare per portare sul panorama artistico qualcosa di nuovo. Sono nato troppo tardi, ogni cosa è già stata fatta, persino ciò che non ho mai sentito sarà sicuramente già stato realizzato prima», afferrò un pennello e lo intinse in una vernice rossa. Per la prima volta un colore parve avvicinarsi quasi per intero a quello della luce che mi aveva rapita anni prima.
Vega scagliò con tutta la forza l'oggetto sulla tela, lasciandovi una macchia, le cui gocce di pittura iniziarono a rincorrersi rapidamente, arrivando in poco tempo a sporcare le mattonelle.
«Di solito non parlo di questo con nessuno», cercò per tutta la stanza qualcosa e, quando la trovò, utilizzò l'oggetto per riprodurre una fiamma e accendere la sigaretta.
«Perché lo fai con me?», se un'ora prima qualcuno mi avesse detto cosa sarebbe accaduto non ci avrei mai creduto. Pensavo che per entrare in confidenza con lui mi ci sarebbero voluti mesi e, invece, inaspettatamente, al primo incontro si stava rivelando già molto più loquace di quanto mi aspettassi.
«L'hai detto tu che ti appassiona! Ti sembra forse che io possa discuterne con King che a momenti morirà strozzato dal suo vomito per colpa del mix di droghe che ha consumato?»
Scoppiai a ridere.
Non al pensiero che Nick morisse, quanto più per il modo in cui lui mi avesse posto quella domanda retorica.
«A proposito, scommetto che Cece prima di portarti qui non ha avuto nemmeno il coraggio di dirti ciò che facciamo», si sedette per terra davanti all'unica piccola finestrella presente in quell'area del seminterrato, dalla quale non era possibile scorgere nulla se non il buio più profondo.
«In effetti no, ma l'ho capito da sola», imitai i suoi gesti, accoccolandomi su me stessa accanto a lui.
«Te lo devo chiedere, perché so com'è fatta Boobs e so che non lo farà... questa cosa ti crea problemi?», fece un lungo tiro, allungando poi la sigaretta verso di me.
Non me la sentii di declinare.
Vidi in quel gesto un'ulteriore possibilità di avvicinamento. Pertanto diedi inizio a uno dei tanti comportamenti che nelle mie condizioni non avrei mai dovuto attuare.
Fumai quel che restava e poi gli restituii praticamente solo il filtro.
Lui spense la sigaretta al centro di un quadro. Vi si creò un buco bruciacchiato lungo tutto il contorno, uguale a molti altri presenti su tutta la superficie.
«No, almeno fino a quando le due cose resteranno separate e lo stare in vostra compagnia non mi metterà a rischio», non potevo certo dirgli che quella era una delle principali ragioni che mi avevano spinta ad avvicinarmi a loro.
«Sai che solo stando con me in questa stanza potresti rischiare qualcosa?».
«Del tipo?»
«Un milione di cose brutte...», non riuscii a capire quanto di ciò che mi stesse dicendo fosse vero.
«Colui che aveva sognato il cielo sentì eternamente il dolore della Terra? Che bel tatuaggio», feci scivolare le mie dita lungo il suo braccio. Vi era stata incisa abilmente la costellazione della Lyra e tutta intorno quella frase che avevo appena pronunciato.
Lui si ritrasse come infastidito da un tocco troppo intimo rispetto alla nostra relazione.
«Non volevo», mi scusai.
«Tranquilla», si schiarì la voce.
«Anche questo è singolare», non mi azzardai a sfiorarlo, indicai soltanto le quattro lettere tatuate poco più sotto del pomo d'Adamo.
«Dada», pronunciò, scandendo quel suono così particolare.
«Che vuol dire?», quello tra i tanti che gli ornavano la pelle era l'unico che non avevo mai visto prima.
«Tutto e il contrario di tutto.»
«Cioè?»
«Tutto e niente, niente e tutto. L'assoluto e il vuoto. L'amore e l'odio. Il pianto e il riso. La vita e la morte. Verità e menzogna. Caos e calma. Bianco e nero. Gioia e dolore. Una notte stellata che si infrange in un'alba accecante. Tutto e il contrario di tutto, dada che non vuol dire niente, dada che significa ogni cosa.»
«E perché hai scelto di marchiarti per sempre con queste quattro lettere?»
«Un giorno forse sarò disposto a dirlo ad alta voce, ammettendolo anche a me stesso. Un giorno che, però, non è oggi.»
Spazio autrice:
Pronti a conoscere il nostro protagonista maschile?
Tutto e il contrario di tutto, il niente che si mischia al nulla assoluto.
DADA.
Grazie per esserci,
spero che almeno voi non decidiate di abbandonarmi,
A lunedì prossimo, sempre vostra,
Matilde.
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