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Capitolo 18 - Lascia che ci uccida

Mi toccai le labbra per un totale di cinquantatré volte.

La prima volta che lo feci fu subito dopo aver ricevuto quel bacio tanto furioso quanto dolce.

E, da quel momento, ogni scusa divenne buona per poter portare i polpastrelli a sfiorarmi la bocca.

Lo feci mentre ballavo con Boobs, mentre vendevo droga agli acquirenti più generosi e al tempo stesso assuefatti di Providence, e persino nel momento in cui mi ero trovato a dover usare uno dei bagni più sporchi dell'intero globo.

Talvolta mi concedevo di poter guardare Dawn.

Quando ero sicuro che Boobs non mi stesse studiando a sua volta, lasciavo che le mie iridi cercassero le sue.

Lei mi sorrideva, mordendosi il labbro inferiore e abbassando il capo come imbarazzata.

Se ne stava lì, accanto a King, seduta nel nostro privé, con l'aria di chi con lo sguardo distratto stesse immagazzinando ogni cosa.

Ogni qualvolta ripetevamo quella scenetta, mi ritrovavo a ricambiare le sue espressioni come se lei fosse stata il riflesso del mio volto.

Combattevo con il cavallo dei miei pantaloni, cercando più volte di placare il desiderio che avevo di lei.

Boobs era quasi sempre nei paraggi e io avevo il terrore che potesse leggermi dentro.

Per quanto volesse fingere di non avere sempre un occhio rivolto a me, io riuscivo a sentirmelo addosso come fosse un tatuaggio. E più continuavo a guardare Dawn, ignorando i sentimenti della mia migliore amica, e più mi sentivo in colpa a desiderare con tutto me stesso qualcosa che le avevo promesso non avrei mai fatto.

Eppure, per quanto l'attenzione nei confronti di Boobs fosse elevata, anche Dawn continuava a essere il centro dei miei pensieri.

Sentivo ancora la sua bocca sulla mia.

La sua lingua che sbatteva contro il palato.

Il modo in cui spingeva la parte inferiore del suo corpo contro la mia erezione incontrollata.

Ricordavo ogni sospiro, persino ogni gemito soffocato.

Me ne stavo appoggiato alla parete, con una bustina di molly tra le mani come fosse un giocattolo con cui passare il tempo, e gli occhi fissi sui nostri ricordi.

Mi distrassi riflettendo su quanto quello avrebbe potuto essere senza dubbio uno dei frangenti più complicati della mia vita, diviso tra due attrazioni opposte ma così simili. In realtà, per quanto quel momento si fosse rivelato ostico, qualche secondo più tardi si dimostrò soltanto il preludio di un problema veramente grosso.

«Vega», King urlò all'improvviso nel mio timpano sinistro, «ti prego non uccidermi», aggiunse, malgrado mi fossi ritratto spaventato.

Sbattei lentamente le palpebre, come a prendermi quell'unico istante necessario per tornare alla realtà.

«Che cosa è successo?», gli rivolsi uno sguardo preoccupato. Per quanto King fosse palesemente fuori di sé, non era mai capitato che si avvicinasse a me con una tale paranoia addosso.

«Ci hanno-», si bloccò, cercando dentro di sé un coraggio che sapeva bene di non possedere, «anzi, mi hanno-», si fermò ancora, «mi hanno fregato la droga», pronunciò quelle cinque parole una dopo l'altra, in modo così veloce da renderle un solo suono.

«Stai scherzando?», lo presi per il colletto della camicia, avvicinando il suo volto al mio. Aveva le pupille assenti e puzzava di alcool e fumo in una maniera tale da rendermi difficile l'essergli vicino.

«Dawn voleva un po' d'erba, così sono andato da Boobs a prenderla e, quando sono tornato, Dawnie si era allontanata un attimo per prendersi un cocktail e lo zaino non era più al suo posto», non l'ascoltai nemmeno più in preda a una rabbia cieca. Cercai nelle mie tasche l'iPhone e, non appena l'ebbi sbloccato, aprii l'app per la localizzazione della merce. Lasciavo sempre un airtag nascosto in una tasca.

La posizione dello zaino era poco lontano dal locale, in un vicolo che non conoscevo ma dove immediatamente immaginai di poter trovare il folle che aveva tentato quel furto scellerato.

Proprio nel momento esatto in cui vidi il luogo in cui avrei dovuto andare, notai con la coda dell'occhio Big, Boobs e Dawn avvicinarsi trafelati a noi.

«Avete i soldi delle vendite?», mi assicurai.

«Io ce li ho qui», Cece si tastò il reggiseno, confermando che aveva tutto con sé.

Big annuì, confermando che anche lui non si era liberato ancora del denaro.

Sinceratomi del contenuto della borsa, decisi di iniziare a correre in sua direzione, nella speranza di ritrovare la merce parzialmente intatta.

Una gamba dopo l'altra allungai il passo fino a perdere il fiato. Quando giunsi nel luogo che era segnato dalla mappa, mi accorsi che qualcuno mi stava seguendo. Doveva essere una donna, perché era palese che stesse riproducendo con i suoi tacchi un rumore fastidioso misto a qualche imprecazione per la mia velocità. Accelerai, cercando di andare sempre più veloce.

Alla fine, mi bloccai soltanto quando mi resi conto che quella era una stradina senza uscita e che per quanto ne sapessi avrei potuto anche incappare in un'imboscata.

«Vega», una voce femminile mi chiamò, tra un respiro profondo e un altro.

Dawn mi aveva seguito.

«Che fai qui, sei impazzita?», mi voltai immediatamente. Come le era venuto in mente, come aveva potuto credere che fosse una buona idea correre dietro a uno spacciatore che a sua volta stava tentando di rincorrere la sua droga.

«Mi sento in colpa», si reggeva a malapena in piedi, appoggiava i palmi sulle ginocchia e si contorceva come se stesse provando un dolore immane.

«Stai bene?», mi preoccupai per lei, dimenticandomi immediatamente del localizzatore.

Alzò il pollice sinistro, in segno positivo.

Mi avvicinai, appoggiandole entrambe le mani sulle spalle.

«Non era mia-», sospirò affaticata, «non era mia intenzione lasciare il privé, non ci ho proprio pensato», si scusò.

Non era certo stato a causa sua se avevamo perso un carico enorme. Del resto lei non aveva alcun obbligo né nei nostri confronti né tanto meno riguardo al nostro lavoro.

«Non è colpa tua Dawn», le sorrisi, «è mia. Non avrei dovuto fidarmi di King in quelle condizioni», sbuffai. Era frustrante cercare di controllare la sua dipendenza. Per quanto fossi riuscito a tenerla a bada negli ultimi due anni, con il passare del tempo diventava sempre più ostico.

La vidi aguzzare la vista e perdere attenzione in ciò che le stavo dicendo. Si avvicinò a un cassonetto, si piegò sulle ginocchia e da sotto ne estrasse lo zaino.

La raggiunsi immediatamente, ma la scoperta che feci non fu delle migliori.

Al suo interno non c'era più niente.

L'unica cosa che ancora era lì era l'airtag, per il resto ogni tasca o contenitore erano totalmente vuoti.

«Siamo fottuti», imprecai, gettando quel pezzo di stoffa logoro contro un altro cassonetto.

«Avevate tanta roba dietro?», mi domandò, con lo sguardo di chi veniva mangiato dai sensi di colpa.

«L'equivalente dei guadagni di ognuno di noi in un mese», infilai le mani tra i capelli, tirando all'insù i miei riccioli biondi.

«E come farete adesso?»

«Ho un'assicurazione», risposi senza tentennare. Non mi importava più di nasconderle i miei segreti, anzi, era liberatorio poter dire a qualcuno la verità.

«In che senso?», aggrottò le sopracciglia.

«Ogni mese dividiamo i compensi equamente, prendendo ognuno il 25% della cifra che avanza da quella che versiamo ai capi. Io non spendo più del 10% per me, il resto lo verso in un conto intestato a loro tre. Userò quel denaro per coprire il buco e per evitare che i nostri supervisori ci taglino la testa.»

«Perché sei così generoso?», ancora una volta Dawn apparve estremamente sorpresa dal mio comportamento.

Sembravo così malvagio visto dall'esterno?

«Cosa pensavi che avrei fatto?», scoppiai a ridere, «quando metti qualcuno nella merda, devi essere sempre capace di salvargli il culo. Sono la mia famiglia e sono i miei soci in affari, ma se c'è qualcuno che si prenderà tutte le conseguenze negative di questa folle attività, quello sono io.»

«Ti immoleresti per il gruppo?», aprì le palpebre tanto che le sue ciglia parvero congiungersi alle sopracciglia.

«Mi immolerei anche per te», fissai le sue labbra. Erano così carnose da farmi desiderare di mordergliele fino a fargliele sanguinare.

«Ah sì?», si avvicinò pericolosamente, artigliando le dita attorno ai lembi della mia maglietta.

Annuii lentamente.

«E cosa faresti per me esattamente?», si morse il labbro inferiore, consapevole di quanto stesse diventando sensuale. Con quel micro vestitino addosso poi, i miei pensieri stavano diventando tutt'altro che puri.

«Forse è meglio se non rispondo», per raggiungere la mia tasca destra, sfiorai una delle sue mani e ciò le provocò una scossa alla spina dorsale ben visibile.

Ci misi un minuto per afferrare una sigaretta, sembrava che le mie mani non fossero più in grado di fare nulla.

L'appoggiai tra i denti e l'accesi, restando comunque a poca distanza da Dawn, malgrado il fumo tra noi diventasse insopportabile.

Lei allungò una mano, rubandomi la Marlboro direttamente tra le labbra. Aprì la bocca e, passandola molto lentamente tra un labbro e l'altro, fece un paio di tiri.

La rimise al suo posto, lasciando il filtro ricoperto di saliva e di una patina rosata di lucidalabbra.

Tornò ad avanzare verso di me, abbassando il capo quel tanto che bastava per appoggiarlo in corrispondenza del mio cuore.

Intrecciai le dita della destra a quelle della sinistra, chiudendole come un lucchetto attorno alla sua schiena.

«Credo che sia il tuo cuore a rispondere per te», parlò con un tono basso e sensuale, fu costretta persino a schiarirsi la voce più volte.

«E anche altro direi», guardò verso il basso, in corrispondenza dei miei pantaloni.

Nel frattempo lasciai che le mani scivolassero sempre di più, fino a toccarle i glutei.

Lei di tutta risposta iniziò a strusciarsi lentamente sul mio corpo, facendo sfregare il suo pube sul mio e lasciando che i suoi seni si muovessero in modo ondulatorio lungo tutto il mio addome.

Non smisi di guardarla negli occhi neppure per un misero istante. Stava comunicando con me in una lingua sconosciuta a entrambi, ma che tutti e due non avremmo mai smesso di parlare.

Lasciai andare una mano, iniziando a stringerle il posteriore con una sola, mentre con l'altra circumnavigai il suo corpo fino ad arrivare al suo monte di venere.

Alzai di poco il vestito già di per sé incredibilmente corto e mi infilai con due dita tra le sue mutandine. Era fradicia.

«Sicuramente c'è anche qualcos'altro che parla qui», scherzai, riferendomi a ciò che mi aveva detto lei alludendo alla mia erezione.

Lei trattenne il fiato, senza replicare.

«Boobs mi ucciderà», sospirai a un millimetro dalle sue labbra.

«Lascia che ci uccida entrambi», sussurrò, prima di essere lei a far scontrare le nostre bocche.

Da quel momento in poi non capii più un granché.

La spinsi contro la prima superficie dura che incontrammo e entrai dentro di lei con i polpastrelli in modo violento, facendo entrare e uscire le mie dita a un ritmo forsennato.

Lei gemeva sulla mia lingua, mentre provava a serrare le gambe per sentire ancora di più il clitoride pulsare.

Teneva gli occhi ben chiusi e non li aprì per tutto il tempo, sembrava conoscere benissimo ogni parte del mio corpo senza che vi fosse bisogno di vederla.

Anche lei, infatti, mi calò i pantaloni in un istante e si avvinghiò al mio cazzo stringendo la mano attorno all'asta il più possibile.

Ero così eccitato che quel solo tocco rischiò di farmi venire spruzzandole addosso. Mi trattenni per decenza.

Non ricordavo più quanto tempo fosse trascorso dall'ultima volta che avevo provato un trasporto simile.

Provò a calarsi per prenderlo in bocca, ma io glielo impedì. Avevo più voglia di vedere il suo volto sconquassato da un orgasmo di quanto non avessi il desiderio che ciò accadesse a me.

Continuai a far ruotare l'indice sul suo clitoride, indugiando sul punto che avevo capito fosse quello per lei più sensibile.

Quel vicolo era buio e deserto, ma sembrava animato dalla presenza di mille elefanti.

Per quanto fossimo noi due a produrre tutti quei rumori, mi accorsi immediatamente di un suono estraneo. Non appena udii qualcuno parlare e il frastuono di una lattina calciata, spinsi Dawn dietro un cassonetto.

«Dove sono finiti?», Boobs si lamentò, tastandosi i piedi. Probabilmente era da molti minuti che stavano camminando a zonzo per trovarci.

«Ve l'ho detto: secondo me sono andati di là», King, malgrado tutta la cocaina che si era tirato, aveva già capito perché io e Dawn ci stessimo mettendo tanto.

«Proviamo in quell'altro vicolo», Big prese per mano la sua ragazza, aiutandola a camminare appoggiandosi a lui.

Io e Dawn ci guardammo all'unisono, rischiando di scoppiare a ridere.

Avevo ancora il pene perfettamente eretto da fuori, mentre lei aveva abbassato l'abito per coprirsi le parti intime.

«Dio quanto ti scoperei», non mi controllai, ammettendo a voce alta ogni mio desiderio.

«Dio quanto mi farei scopare, se solo non fossimo letteralmente tra l'immondizia», sorrise, mettendosi apposto anche la parte superiore del vestito, dove ancora non ero riuscito a insinuarmi.

«Hai ragione, ti meriti molto più di questo», la baciai, approfittando per tastarle un seno. Da grande appassionato di tette, mi sentii orfano delle sue.

«Vorrei tanto poter continuare», sospirò, «ma penseranno che siamo morti se non ci facciamo trovare», si avvicinò, mordendomi il labbro inferiore, e poi staccandosi immediatamente.

«A me bastano pochi minuti per venire», ironizzai, sebbene sotto sotto continuassi ad avere una speranza di potermi liberare delle mie palle diventate ormai gonfie ai limiti della decenza.

«Dovrai aspettare», si spostò, uscendo dal nostro nascondiglio.

«Pensa quando succederà quanto sarà bello. Pensa quando sarò tutta nuda e tu potrai penetrarmi fino a consumarci», iniziò a camminare verso l'uscita del vicolo. Io mi alzai, nascondendo quel che restava della mia erezione nelle mutande, e cercando di celarla infilando entrambe le mani in tasca.

«E quando succederà?», la gola era così secca che parlare mi fece male.

«Quando meno te lo aspetti e poi, Vega, non potrai più farne a meno», girò appena il volto, facendo spuntare il suo sguardo ammiccante oltre la spalla. Proseguì senza più proferire parola, lasciandomi per tutto il tragitto con la visuale del suo culo in primo piano.

Cazzo se avevo bisogno di una sega.

Cazzo se avevo bisogno di scoparmi Dawn Bennett.

E cazzo se me la sarei scopata.

***

Il tragitto verso casa fu silenzioso.

Boobs, non avendo più droga da scortare, decise di andare via insieme a Dawn.

Io, Big e King tornammo a Hope street senza che nessuno di noi tre toccasse più l'argomento.

Non appena ci eravamo incontrati nuovamente, dopo la parentesi del vicolo, li avevo informati del mio conto segreto e del fatto che non ci sarebbe stata alcuna ripercussione da parte dei nostri capi. Ne erano stati felici, ma, al tempo stesso, non avevano gradito né le bugie che avevo detto loro per mettere da parte quel denaro né tanto meno il mio sacrificarmi per loro.

In realtà, nessuno di quei tre conosceva neanche lontanamente la mia storia, così come nessuno aveva idea di chi fossi per davvero. Non sapevano delle ingenti somme di cui disponeva mio padre e del fatto che io, per molto tempo, avessi accettato periodici bonifici da parte sua. Era avvenuto per un solo anno di università, ma tutto ciò che aveva versato sul mio conto mi sarebbe bastato per essere tranquillo per molto tempo, se non fossi stato obbligato da altri a pagare prezzi molto più salati, come la mia stessa libertà.

Varcammo la soglia senza neppure guardarci, ma poi quando tutti fummo pronti a prendere il corridoio che ci avrebbe portati rispettivamente alle nostre stanze, Big interruppe il silenzio.

«Beviamo qualcosa solo noi tre? Come ai vecchi tempi?», alluse a quei momenti ormai lontani in cui ci concedevamo del tempo soltanto per noi, per confidarci quei segreti che potevano essere condivisi soltanto con le persone di cui ci fidavamo di più al mondo. Sebbene quelli di cui parlavo loro non fossero nemmeno il 20% di tutti quelli che avevo.

Era veramente raro che nessuno di noi fosse troppo ubriaco o troppo fatto al ritorno da una festa per riuscire ancora a proferire parola.

Persino King, che di solito perdeva i sensi ancor prima di entrare in auto, era ormai vigile, a causa del furto che avevamo subito.

«Pensavo di sfruttare queste ore prima dell'alba per dipingere», mi voltai di poco verso di Big, cercando di nascondere alla sua vista i miei occhi. Se mi avesse guardato con attenzione avrebbe capito ogni cosa.

«Lui va a dipingere», Big imitò la mia voce, «hai sentito King?», lo interpellò, scuotendo la testa.

«Ci fregano un'intera mensilità e lui va a dipingere», continuò incredulo.

«La figa tira il mondo», aggiunse King distratto, per poi pentirsene dopo quattro secondi.

«Figa?», l'altro replicò confuso.

«Puoi evitare di ascoltarlo?», mi bloccai sul posto, dopo che avevo già sceso cinque gradini dei totali dodici che mi avrebbero condotto al mio studio sotterraneo.

«Hai trovato una ragazza?», Big parve già pronto a indagare, rivolgendomi tutte le domande possibili.

«Non ho trovato proprio nessuno, lascialo perdere», tentai di rendere la mia voce il più ferma possibile.

«Sarà», mi rivolse una strana smorfia, «in ogni caso tu vai pure a dipingere, che in fondo non abbiamo un grosso problema... Potrai anche avere i soldi per pagare tutto quello che abbiamo perso, ma qualcuno ha avuto il coraggio di fregarci sotto il naso stasera, e questo non potrà che rallegrare Mac e i suoi. Se si spargesse la voce, perderemmo credibilità.»

«E ci rimetteremo dieci minuti a riaverla. Devi stare tranquillo, ho tutto sotto controllo», avanzai ancora di un gradino, sperando che mi avrebbe concesso di allontanarmi definitivamente.

«Questa cosa che tu abbia il potere non mi va giù», lo sentii imboccare la tromba delle scale.

Le sue parole mi inchiodarono sul posto.

«Cosa dovrebbe significare?», mi voltai incredulo. Non poteva davvero lamentarsi del mio ruolo. Se solo avesse saputo cosa volesse dire essere al comando di un'attività complessa e illegale come la nostra.

«Dovremmo decidere tutti insieme. Invece tu ti imponi costantemente su di noi. Non siamo ragazzini sprovveduti Vega, se paghi il tuo debito è anche merito nostro», abbassò di scatto la testa, per non andare a sbattere contro il soffitto delle scale. I nostri sguardi si incrociarono all'istante, colmi di sentimenti inespressi.

«Ed esattamente cosa ne sai tu del mio debito?», feci un paio di passi indietro verso l'alto, ritrovandomi all'altezza del suo mento.

«Non me ne frega un cazzo del perché tu debba spacciare per conto di chissà chi... Quello che mi interessa è che tu ci tenga in considerazione quando devi prendere delle decisioni. Non è per i soldi, non è per il conto in sé, ma è per i segreti. Anche noi ci facciamo il culo per smaltire tutte le partite di droga che ci vengono costantemente inviate, un po' di considerazione in più non nuocerebbe a nessuno di noi. Soprattutto perché non abbiamo idea del perché crescano giorno dopo giorno e non ti abbiamo mai chiesto conto di niente», riprodusse quel ghigno fastidioso che raramente veniva fuori. Di solito l'unica a far venire fuori quella parte di lui era Boobs.

«La verità è che non lo so nemmeno io. Non so chi sono, non so perché da una partita di droga ogni mille anni siamo passati a riceverne una quantità industriale ogni settimana, non so niente di me stesso e della mia vita precedente, e se non lo so io come potrei spiegarlo a voi? Ne parliamo domani, adesso sono stanco, voglio soltanto dipingere e poi andare a letto», mi passai il palmo sul viso, mi sentivo sudato ed estremamente su di giri. Il cuore mi batteva all'impazzata nel petto e iniziai a temere che sarei morto d'infarto di lì a poco. «In ogni caso scusatemi», alzai la voce per fare in modo che anche King mi sentisse, «non è mai stata mia intenzione prendere delle decisioni da solo e, se l'ho fatto, l'ho sempre fatto per il vostro bene. Quel conto era un'assicurazione per voi. Quando finalmente riusciremo a smettere, ogni centesimo sarà vostro perché il vero fiore all'occhiello del nostro gruppo siete voi, non di certo io.»

Big si morse il labbro inferiore.

Faceva sempre così quando aveva voglia di parlare ma, per qualche ragione, era meglio che non lo facesse.

Si limitò ad annuire e a fare dietrofront tornando al piano superiore.

Nel guardare le sue grandi spalle allontanarsi da me, temetti che l'indomani il discorso sarebbe esploso ulteriormente. E se in qualche modo la notte era sempre stata mia alleata nel tenere all'oscuro i miei segreti, iniziai a credere che non sarebbe stato lo stesso alla luce del giorno.

Scesi gli ultimi gradini e mi fiondai verso il cavalletto su cui giaceva una tela completamente bianca.

Mi sentii un artista surrealista mentre stendevo pennellate di un blu intenso, da me creato, riproducendo un cielo che era tutt'altro che realistico. Vi tracciai le mie amate stelle e solo a quel punto, nello spazio che avevo lasciato bianco, ricavai il volto di un uomo.

In quel viso, però, non indugiai in dettagli, lasciando che gran parte di esso fosse celata da un'ombra oscura. Quello ero io, e il nero che avvolgeva il mio aspetto non era altro che la coltre di bugie che mi portavo dietro sin dalla giovane età.

Tuttavia, anche nella parte alta della tela restava un vuoto che necessitava di essere colmato. Fu a quel punto che mi ricordai dell'unico istante dopo tanti anni in cui mi ero spogliato dei miei segreti. Con Dawn, stretto tra le sue braccia, rapido tra le sue cosce, e insaziabile tra le sue labbra, mi ero dimenticato del mio passato, e persino del futuro che temevo non avrei mai avuto. Tutto ciò di cui mi era importato era il presente. Perciò tracciai un sole, con i raggi dorati che invadevano il mio cielo, ma anch'esso non prese la semplice forma della stella più luminosa, no, a esso diedi le sembianze di una donna. Aveva i capelli color grano, una parte del viso in ombra, e una grande macchia bianca a coprirle gran parte della figura.

Io ero celato agli sguardi altrui dal buio, lei si manteneva ignota grazie al potere accecante della luce.

Passò molto tempo, prima che io terminassi l'opera, mentre dal lucernario il nero profondo fu sostituito dal bianco candido. La notte venne vinta dall'alba, nel continuo gioco di potere che si svolgeva ogni giorno, di ogni mese e di ogni anno.

Un bagliore non dissimile a quello che avevo dipinto prese una traiettoria precisa, accecandomi per un breve istante. Quando tornai a vedere, non ero più nel mio tempo, non ero più nello stesso spazio, non ero più l'uomo che ero. Ero io, sempre senza nome, ma con un peccato in meno.

Un raggio di luce sfuggì al controllo dell'unica tenda che era troppo piccola per riuscire ad oscurare la camera da letto di Big.

Quando lui restava da Boobs, talvolta mi fermavo a dormire nella sua stanza.

Mi piaceva fare sesso sul suo materasso ad acqua.

Il sole, dopo avermi reso cieco per un breve frangente, si posò su un suo seno nudo, illuminandolo e facendomi venire voglia di toccarglielo.

Placai i miei istinti, o almeno ci provai per qualche minuto, fino a quando la mia mano non si spostò autonomamente verso il suo capezzolo.

«Smettila», mugugnò, con la cascata di capelli neri sparsi attorno alla testa come se fosse una corona.

«Tu dormi e non pensarci», scherzai, continuando a stuzzicarle quel punto così sensibile.

«Se non la finisci finiremo per fare sesso per l'ottava volta in un giorno», bloccò le mie dita, «per quanto mi piaccia venire a letto con te, non credo di avere ancora un canale vaginale», aprì gli occhi, mostrandomi le sue iridi nocciola arrossate dalla stanchezza.

«Yelena Guerrero, tu, la regina degli orgasmi, la principessa dei piselli, la campionessa di sesso tantrico, hai davvero gettato la spugna?», scherzai, afferrandola per un fianco per permetterle di scivolare verso di me. Le diedi un bacio casto sulla spalla e coprii le sue nudità con le lenzuola.

Fosse stato per me con Yelly ci avrei scopato anche mille volte di fila, ma era vero, avevamo oltrepassato i nostri limiti.

«Devo vedere una persona tra poco, dovrei proprio andare», scorsi nelle sue pupille un'ombra che non mi piacque affatto.

«Sì, forse è meglio», mi alzai di scatto.

Cercai i miei pantaloni della tuta e li indossai immediatamente, senza neppure infilarmi prima un paio di mutande.

«Se hai bisogno ti riaccompagno», non mi voltai più verso di lei.

Mi sentivo in colpa.

«Vega», mi chiamò, ma io finsi di non sentirla.

«Non ti arrabbiare», continuò, e non appena riconobbi il suono dettato dal movimento del materasso ad acqua sotto il suo corpo uscii dalla camera da letto, aumentando il passo lungo il corridoio che portava alla cucina.

«Lo sai perché lo faccio», provò a spiegarsi, mentre io ancora avanzavo senza darle retta.

«Lo fai perché le scorciatoie sono sempre più appetibili delle strade dissestate», scelsi un frutto a caso dal cestino e lo addentai senza lavarlo.

Erano trascorse ventiquattro ore dall'ultima volta che avevo mangiato.

«Disse lo spacciatore che non ammette nemmeno a se stesso la propria identità. Almeno io ho il coraggio di riconoscere che ho un problema», mi strappò dalle mani la mela, gettandola contro il frigorifero. Produsse un rumore così forte da farmi tremare la spina dorsale. Minuscole parti di frutto si spiaccicarono sul pavimento e lungo i mobili attigui dal frigorifero al piano cottura.

«Non è affar tuo», alzai la voce. Mi faceva uscire di testa quando alludeva alla mia vita come se cambiare nome fosse stato un semplice capriccio di un bambino. «E poi cosa credi? Che frequentarlo possa aiutarti in qualche modo? Quella non è una cura, è tutta la fottuta malattia», sbraitai senza controllo.

Ormai era ciclico.

A momenti di sesso sfrenato alternavamo liti altrettanto furiose.

«Beh, io resterei volentieri qui se tu fossi pronto a darmi ciò di cui ho bisogno», si schiacciò il volto tra i palmi, «sono stufa di essere solo la vagina che penetri», si morse un'unghia, facendo pressione pur di placare le lacrime.

«Tu non sei solo quello», deglutii, cercando di ingoiare tutta la rabbia.

«E allora prendi una decisione, se mi dai tutto, io non vado da lui. Se rifiuti, andrò via per sempre», mi pose davanti a un ultimatum.

Scossi la testa.

Non potevo.

Dare tutto avrebbe significato raccontarle la mia storia.

Ed io, non ero pronto a smettere di essere Vega neppure con la più sensuale delle muse.

Perciò scossi la testa in risposta alla sua richiesta.

Declinai la sua proposta senza spiegazioni.

Non provai nemmeno a seguirla quando fuggì dal mio campo visivo in preda ai singhiozzi.

Ci era andata per davvero da quell'altro.

E lì era rimasta senza più tornare indietro.

Quando il mondo attorno a me smise di girare vorticosamente e mi ritrovai nuovamente nei panni della persona che ero diventato, mi accorsi di come quei ricordi avessero modificato il mio quadro.

Metà della testa di quella donna dai capelli color oro si era tinta di un nero spettrale.

Per quanto tentassi di cancellare ciò che era stato, una parte considerevole di me non era pronta a staccarsi dal passato.

Un pezzo di me sarebbe sempre stato un pezzo di lei.

E prima lo avrei accettato e prima sarei tornato a vivere.


Spazio autrice:

Un altro capitolo è andato...

Qualcuno qui mi sembra cotto a puntino😂

E qualcun altro mi sembra in vena di vendicarsi (ma durerà poco ahah)...

Chissà come si evolverà...

Grazie perché ci siete,

Se vi va, lasciate un commento e, se la storia vi interessa, cercate di spargere il più possibile la voce❤️

Al prossimo lunedì,

M.R.

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