Capitolo 14 - Più bella di Vega
Musica assordante, luci stroboscopiche, sudore e fumo mixati in una combo letale.
Quella era la normalità per molti ragazzi della mia età, ma non per me.
Odiavo quella finta atmosfera di festa.
Non sopportavo il modo in cui i miei coetanei fingevano che le loro vite non fossero un ammasso insulso di giorni trascorsi a non essere nient'altro che delle nullità.
Si fingevano felici, tutti suddivisi in gruppi festanti, ma poi, ogni volta che i miei occhi incrociavano quelli di un qualsiasi altro individuo, ci scorgevo sul fondo lo stesso vuoto che animava il mio.
Dawn Bennett doveva fingere di non conoscere la verità dietro le sclere appannate degli altri e doveva mostrarsi entusiasta del posto in cui era.
Un enorme salotto pieno di persone insoddisfatte, che pomiciavano tra loro come se il modo che avevano di ravanarsi con le loro lingue fosse l'unica maniera che avevano per ritrovare loro stessi. Peccato che non ci fosse molto da cercare. Il nulla è nulla anche nei suoi angoli più remoti.
I miei occhi, appena varcata la soglia della confraternita, avevano interrogato ogni volto alla ricerca del suo.
Vega era la mia più grande ossessione e mi sembrava che, da quando era entrato per davvero nella mia vita, io non potessi fare altro che nutrirmi della sua visione.
Non c'era voluto molto a individuarlo. Era una stella, in effetti, e come tale brillava di luce propria nell'oscurità di tutti gli altri individui.
Era una delle persone più popolari della Brown, eppure non avevo mai visto nessuno avvicinarsi a lui se non per comprare qualcosa.
Anche lui mi aveva vista immediatamente e, non appena aveva avuto la conferma che fossi io, mi aveva rivolto uno di quei sorrisi di ammonimento. Non voleva che fossi lì ma, al tempo stesso, mi sembrò che non stesse aspettando altro.
Seppur attirata a lui come fossi un magnete del polo opposto al suo, non avevo proseguito in sua direzione. Avevo lasciato che le braccia di Wes e Ley mi conducessero in un altro punto della casa.
E da lì, le cose erano fluite come avrebbero dovuto.
I miei due accompagnatori erano impegnati a ballare, mentre io, seduta su una sedia solitaria accanto al bancone della cucina, me ne stavo sovrappensiero.
«Le persone silenziose sono sempre le più interessanti», affermò qualcuno dalla mia sinistra. Non mi ero accorta della sua presenza. Chissà da quanto tempo mi stava osservando.
«Oppure le più vacue», alzai gli occhi e ruotai leggermente il capo per vederlo in volto.
«Non ho mai visto una ragazza così assorta a una festa del genere», appoggiò le natiche sul bordo della penisola. «Io sono Scott», avvicinò la mano alla mia.
«Dawn», l'afferrai stringendogliela.
«Sei da sola?», indagò.
Negai con il capo, «i miei due amici sono lì», indicai Wes e Ley intenti a ballare tra loro visibilmente alterati.
«Vuoi qualcosa da bere?», aprì un armadietto e vi estrasse una bottiglia, «che ne dici di», aguzzò la vista per leggere cosa contenesse, «vodka scadente», scoppiò a ridere.
«Vodka a buon mercato sia», accettai.
Ormai mi stavo corrodendo dentro, un bicchiere in più o uno in meno non avrebbero fatto grande differenza.
«Sei una matricola?», domandò, mentre versava il liquido trasparente in due bicchieri di plastica.
«Sì, e tu?», diedi un primo sorso e rischiai di sputargli addosso il contenuto, «quando hai detto scadente non credevo così tanto», mi asciugai la bocca, disgustata.
«Scusami», anche lui ebbe la mia stessa difficoltà a mandare giù la vodka, «comunque no, sono all'ultimo anno.»
«Fai parte di questa confraternita?», in effetti la descrizione che Wes aveva dato della Sigma Tau era giusta. Palestrati poco acuti riempivano quella stanza quasi saturandola. Scott sembrava più intelligente di loro, ma considerando che indossava una maglietta in tessuto tecnico e dei pantaloncini così aderenti da rischiare di esplodere, avrei avuto difficoltà a giurare che non fosse esattamente uno di loro.
«Ebbene sì», non ne sembrò fiero.
«Quando mi sono avvicinato mi sembrava di averti già vista... È la tua prima volta qui?»
Quante altre volte avrei dovuto sentire la stessa frase? A quanto pareva non ero così invisibile come credevo.
«Vuoi ballare?», finsi di non aver sentito a causa della musica. Provai a distrarlo con un'altra domanda e provai ad applicare la stessa tecnica con me stessa. Forse ballare avrebbe potuto essere un modo per spegnere il cervello e smetterla di ossessionarmi con mille interrogativi e mille riflessioni.
Congiunse la sua mano alla mia e confermò con la testa.
Ci spostammo al centro della stanza, seguendo il ritmo di una canzone latino-americana che non conoscevo affatto.
Scott appoggiò le mani sull'ultimo lembo di pelle della mia schiena che non potesse dirsi essere già il mio sedere ed io gli avvitai le braccia attorno al collo.
Non fece neanche in tempo a sussurrarmi qualcosa all'orecchio che qualcuno ci venne addosso, facendoci separare.
«Oh, scusate», King era visibilmente strafatto, ma sempre più lucido di quanto non lo sarebbe stato chiunque altro, «ciao Dawnie», la sua espressione divenne più felice, quando palesemente fece finta di accorgersi che la malcapitata a essersi presa una gomitata nello stomaco fossi io. Immaginai che King e gli altri due suoi amici fossero molto protettivi con le ragazze che gli stavano intorno. Probabilmente conosceva abbastanza Scott da non apprezzare la nostra vicinanza.
«Hey», ricambiai il suo saluto dandogli un bacio sulla guancia, «puzzi da morire», dissi a bassa voce, non appena mi fui allontanata di poco da lui.
«Mi sono scolato una bottiglia intera di liquore», si giustificò, «questa festa fa cagare», aggiunse liberamente pur sapendo chi l'avesse organizzata.
«Mi fa piacere che l'apprezzi», si inserì Scott, «Dawn, conosci King?»
«Se mi conosce? Lei mi ama», rise scompostamente, «ci vediamo dopo tesoro, c'è un tizio che desidera i miei servigi», puntò un ragazzo alto e ben piazzato come un armadio e si dileguò nella sua direzione.
«Non una splendida compagnia...», sentenziò Scott.
«E tu saresti una compagnia migliore della sua?», mi capitava spesso di alterarmi quando qualcuno provava a criticarli in mia presenza. Erano imperfetti e probabilmente una parte consistente della causa del mio dolore, ma erano anche umani, pronti a sacrificarsi per le persone che amavano. Ognuno di loro aveva un motivo per essere finito a fare ciò che faceva e nessuno avrebbe mai potuto avere il diritto di sentenziare sul loro comportamento.
«L'ho visto sniffare una decina di minuti fa dalle tette di una ragazza», scrollò le spalle, alzando le sopracciglia.
«Che altro sai di loro?», quella domanda uscì dalle mia labbra come un fiume in piena. Non avevo mai considerato di poter chiedere informazioni ad altri. Avevo sempre sottovalutato il potere del gossip.
«Niente che tu non sappia, immagino. Spacciano alla Brown da che ne ho memoria. Persino alle feste private con pochi invitati compare sempre uno dei quattro. Quando è la ragazza, non dispiace a nessuno, quando è King ce lo si fa andare bene, ma quando è uno tra Vega e Big sono difficili da sopportare. Noi della Sigma Tau siamo per lo più atleti, perciò stiamo lontani il più possibile da loro... Tutto ciò che so è che sono come fantasmi: un giorno credi di aver scoperto qualcosa su di loro, e quello dopo sono già persone completamente diverse.»
Rimasi profondamente colpita dalle sue parole.
Io sapevo chi erano, o almeno avevo molte informazioni su alcuni di loro, ma non erano soltanto legate ad anni di indagini, erano anche confessioni assolutamente spontanee frutto di racconti che loro stessi avevano voluto condividere con me. Ciò doveva voler dire che nella persona che ero avevano visto qualcosa, perché altrimenti non avrebbero scelto di aprirsi con me mentre il resto del mondo veniva tenuto all'oscuro.
Cecilia Foster, Jim Hindman e Nicholas Weaver non avevano segreti per me. Incredibile che ne avessero per altri.
«E tu come li conosci?», avvicinò la bocca al mio orecchio per farsi sentire meglio. La musica era diventata inspiegabilmente più alta.
«Vivo con Boobs.»
«Ah, è raro che qualcuno sopravviva in quella casa per più di qualche settimana», sembrò colpito dalla vista di qualcosa in lontananza. Cercai di ruotare appena il capo per capire cosa stesse guardando.
«Vega mi sta fissando come se volesse farmi esplodere», rise, «sei sicura di essere soltanto la coinquilina di Boobs?»
Ero davvero certa di avere legami soltanto con lei?
Esattamente in quel momento Vega ci passò accanto rapidamente, senza degnarci di uno sguardo, e imboccò le scale che portavano al piano di sopra. Per quel poco che ebbi modo di vederlo, mi sembrò che qualcosa l'avesse sconvolto. Perciò, senza neanche pensarci, decisi che avrei dovuto seguirlo per capire cosa fosse accaduto.
«Non lo so», risposi sinceramente a Scott, prima di andarmene lasciandolo lì senza dargli spiegazioni.
Percorsi velocemente ogni gradino con il cuore in gola.
Ero agitata, ma non ne capivo la ragione.
Mi guardai intorno nel largo corridoio che mi si aprì davanti.
Non sapevo dove avrei potuto trovarlo, c'erano troppe porte.
Una sola di esse, però, era socchiusa, perciò mi affacciai per vedere se Vega fosse all'interno. Lo vidi nel riflesso di uno specchio di quella camera da letto. Stringeva il cellulare all'orecchio, cercando di udire ciò che il suo interlocutore gli stesse dicendo, poiché la musica risuonava ancora troppo forte dal piano inferiore.
«Ho capito, me ne occupo io», disse a qualcuno, «sei stata stupida a lasciare tracce, ma riesco a cancellare tutto in quattro secondi», aggiunse con il tono della voce un po' alterato, «ti adoro anche io, forse», mise l'accento sull'ultima parola, tornando per un istante a essere scherzoso, «ti vengo a trovare tra un po', se hai ancora tempo per me...», chiuse immediatamente la telefonata, non appena si accorse, dal medesimo riflesso in cui lo stavo guardando, che non fosse più da solo.
«Chi sei?», domandò infastidito, «non ti hanno insegnato a farti i caz-», aprì la porta e mi trovò, goffa com'ero, in piedi sullo stipite.
«Ah, sei tu», parve sollevato.
L'unica persona di cui avrebbe dovuto preoccuparsi in tutto l'universo, per lui era diventata tutt'altro.
«Ti ho visto sconvolto e volevo vedere come stessi», entrai nella stanza da letto di chissà chi. Era tutto in ordine, fin troppo. Odorava di pulito e non c'era un filo di polvere. Forse non era stata proprio una grande scelta non chiudere a chiave.
«Va tutto bene», sospirò, sedendosi sulle lenzuola perfettamente squadrate, «mi era sembrato che ti stessi divertendo con Scott», si sforzò per dirlo in tono neutro.
«Beh, insomma... non si può dire che non abbia due bei pettorali», mi accomodai accanto a lui, facendo strusciare il tessuto ruvido del vestito che Cece mi aveva obbligata a indossare a quello dei suoi jeans slavati.
«A malincuore devo concordare», mi guardò di sottecchi. Gli angoli della sua bocca si alzarono leggermente, a riprodurre quello che mi sembrò un accenno di sorriso.
«Qualsiasi cosa ti sia accaduta, sono qui per questo...», appoggiai il palmo della mano sinistra al dorso della sua destra.
«Mio padre ha avuto dei problemi e io come al solito ho dovuto lasciare tutto per risolverglieli», esalò quelle parole come se fossero state il suo ultimo respiro. Non era semplice per lui aprirsi agli altri. Quello mi era stato palese sin dal primo sguardo.
«E questa cosa ti fa arrabbiare?»
«Mi fa andare in bestia», replicò immediatamente.
«Allora perché continui a farlo?», era lecito domandarglielo.
«Perché non sarei più me stesso se smettessi», improvvisamente si lasciò cadere, stendendo la schiena sul piumino bianco.
«Mi sembra di essere nato soltanto per rendere la sua vita migliore... e per carità, Dawn, mi va benissimo che sia così. Ma certe volte entro in crisi e mi viene spontaneo chiedermi: ma a me chi ci pensa?»
«A volte faccio lo stesso», accarezzai la sua gamba, restando eretta accanto a lui disteso.
«Non ho una famiglia che lotti per me, ma io ho infinite persone per cui lottare. È logorante.»
«Sono sicura che tuo padre ti ami...», mi bloccai. Che ne sapevo io di amore, erano anni che non ne provavo.
«Certo che mi ama, ma non quanto io amo lui», iniziò a combattere con le tasche strette per estrarre il pacchetto di sigarette. Ormai conoscevo ogni sua mossa, passata o futura che fosse.
«Di questo ne so qualcosa», scivolai anche io sulla schiena, sdraiandomi accanto a lui. Lasciai che mi cadessero le scarpe con il tacco basso, facendo in modo che esse sbattessero sul pavimento, creando un suono sordo.
«Nasco e sono un problema. Cresco e sono un problema. Divento grande e risolvo i problemi. Non ce la faccio più», gli si incrinò la voce.
«Tu per Cece, Big e King sei la soluzione», ruotai sul fianco, per essere più vicina a lui. Appoggiai la testa sul suo petto. Riconobbi ogni sistole e diastole del suo cuore.
«Io per loro sono una condanna», controbatté sicuro.
«King sarebbe morto di overdose, Cece avrebbe dovuto farsi schiaffeggiare il culo per qualche mancia in più e non so perché Big abbia accettato di lavorare con voi, ma sono certa che abbia un motivo valido... Non so neanche lontanamente perché lo faccia tu, ma so che spacci perché devi, non perché vuoi.»
«Mi sento soltanto tremendamente solo stanotte, domani passerà», si massaggiò gli occhi con i polpastrelli, respirando profondamente. Appoggiò una sigaretta sulle labbra e fece per accenderla.
«Non è carino», gliela tolsi di bocca, «questo ragazzo è un maniaco dell'ordine, già che siamo distesi sul suo letto non gli farà piacere», la confiscai appoggiandola sul mio orecchio.
«Ha lasciato la porta aperta durante una festa, deve ringraziare che non ci faccio altro su queste coperte intonse», mi afferrò dalla schiena, per avvicinarmi a sé e rendere la sua sigaretta nuovamente più vicina alle sue mani.
«Che ci vorresti fare?», cercai di divincolarmi, dandogli una ginocchiata in un punto imprecisato del corpo. Stava per farmi il solletico e io non avrei retto a una cosa del genere.
«Meglio che non te lo dico», con le dita iniziò a toccarmi rapidamente i fianchi, facendomi rischiare un pochi secondi di farmela addosso dalle risate. Non lo sopportavo proprio il solletico. Da bambina era il mio incubo.
Gli bloccai i polsi, mettendomi a cavalcioni su di lui. La parte terminale della gonna rischiò di strapparsi. L'abito di Cece era così stretto che le mie natiche faticavano a starci dentro. La scollatura si alzò sui miei seni, mentre la maglietta che indossava lui lasciò scoperta parte della pancia. Iniziai a fargli il solletico a mia volta con una mano, mentre con l'altra stringevo entrambe le sue braccia impazzite.
Ridevamo entrambi rumorosamente, senza badare al baccano che stavamo producendo, forse più forte della musica stessa.
Vega si liberò dalla mia presa, ruotando di scatto sul suo corpo e facendomi ritrovare con la schiena schiacciata sotto il suo peso. Da una posizione di comando ero passata a essere interamente dominata.
I suoi occhi erano così vicini ai miei da poterci vedere specchiate in ogni loro dettaglio le mie iridi chiare.
Una sfumatura di nocciola che si congiungeva alle acque gelide dell'oceano.
«Dawn», sussurrò a un passo dal mio viso.
«Mmm», mugugnai qualcosa, con lo sterno ammaccato dall'affanno.
«Sei più bella di Vega.»
Non intendeva paragonarmi a lui, la Vega di cui parlava era la sua stella.
In quel momento pensai che avrei smesso di respirare.
Mi vennero in mente tante cose, eppure non fui in grado di concentrarmi su nessuna.
Quello che mi aveva appena detto era innegabilmente uno dei pensieri più belli che qualcuno mi avesse mai dedicato.
Non potei più fingere di essergli indifferente.
Non potei più pensare all'odio mentre un sentimento totalmente opposto mi stava animando ogni muscolo del corpo.
Non era più il mio nemico.
Non era più l'uomo che volevo distruggere.
Era soltanto Vega.
E io tornai a essere la Dawn di due anni prima, quella con un nome diverso e con qualche parte in più di se stessa che ancora non l'aveva abbandonata.
Mi sporsi lentamente, come animata da improvvisi movimenti al rallentatore.
Gli afferrai le guance e mi feci forza sul bacino e poi, salii sempre di più, fino a che non fummo così vicini che le nostre labbra iniziarono a entrare in rotta di collisione.
Si sfiorarono timidamente per un istante e poi, immediatamente dopo, senza che nessuno dei due fosse pronto a provare niente di lontanamente simile, un incendio divampò da quella miccia.
Vega si insinuò nella mia bocca come un treno, facendo volteggiare la sua lingua attorno alla mia come se da quel movimento dipendesse l'intera salvezza del mondo.
Si spinse ancora di più su di me, senza che io potessi più respirare.
Qualunque fosse stato il peso del suo corpo, mi parve di poterne sentire ogni grammo.
C'era qualcosa di feroce e di liberatorio in quella nostra unione.
Il basso ventre sembrò improvvisamente sul punto di esplodermi, mentre le sue mani vagavano lungo le mie natiche direttamente al di sotto della gonna.
Riproducevamo dei suoni simili a quelli di due animali in gabbia.
Non mi lasciava le labbra, eppure io mi sentivo come se mi stesse leccando i seni indugiando sui capezzoli, mi stesse baciando il ventre e stesse giocando con il mio clitoride tutto allo stesso momento.
Eravamo l'alba che infrange la notte.
Un sole aranciato in un cielo scuro.
Un cielo azzurro trapuntato di stelle.
Eravamo tutto e niente.
Eravamo tutto e il contrario di tutto.
E Dio, quanto mi piaceva.
Mi slacciò il reggiseno, lanciandolo lontano.
Afferrandomi prima un seno e poi un altro con una presa tutt'altro che gentile.
Gemetti tra i suoi denti, mentre mi mordeva il labbro inferiore, senza più staccarsi da quell'insieme di bocche e salive che si era creato.
Nessuno di noi sembrava disposto a cedere.
Non ci saremmo più staccati come due organismi inscindibili.
Perciò armeggiai con i suoi pantaloni e, una volta aperta la cerniera, alla cieca gli abbassai le mutande.
Non avevo realmente cognizione di cosa stessi facendo.
Erano anni che la passione non mi rendesse incapace di intendere e di volere in quel modo.
Vega mi abbassò le mutandine, tastando con il palmo la mia vagina umida.
Gli sfiorai il pene con le dita e lo posizionai nella direzione della mia apertura.
Non c'era bisogno che nessuno dei due chiedesse all'altro.
Lui non aspettò neppure un istante per spingersi dentro di me.
Erano due anni che non entravo in intimità con nessuno.
E perché Dawn, perché Dawn, allora perché?
La voce della mia coscienza, fino a qualche istante prima inebriata, si svegliò di soprassalto, facendomi sussultare nell'udire quelle domande.
Perché?
«911, buonasera cosa posso fare per te?», una voce si materializzò nella mia testa, mentre sentivo ovattato il suono delle sue spinte.
«Dovete venire immediatamente qui, Point Park, è successa una cosa... dovete sbrigarvi», sentii la voce di un Vega giovane e disperato. Ricordai ogni singhiozzo e ogni lacrima malgrado non l'avessi mai vista.
Quella era stata la prima volta che avevo sentito la sua voce.
Come potevo aver perso ogni controllo?
Come potevo aver nascosto sotto un velo trasparente ciò che mi aveva fatto?
Come potevo rivivere quelle immagini, mentre lui era dentro di me e io provavo piacere e sentirlo così vicino?
Mi staccai da lui immediatamente. Lasciai che le nostre labbra fossero vedove le une delle altre.
Lui si fermò, lasciando il suo ennesimo colpo a mezz'aria.
«Non posso», biascicai.
Lo spinsi appena e lui incredulo si spostò senza dire una parola.
Mi abbassai la gonna, alzai la scollatura sui seni, individuai il mio cellulare e, afferrandolo, fuggii via.
Senza scarpe, mutandine e reggiseno.
Corsi a perdifiato, sebbene di fiato ormai non ne avessi più.
Mi accorsi di essere all'aria aperta soltanto quando i miei piedi iniziarono ad essere martoriati dalla ghiaia.
Composi l'unico numero che sapevo a memoria con il cuore in gola.
«Dawn?» udii dall'altra parte la sua voce impastata dal sonno.
«Io- io», balbettai, «ci sono quasi andata a letto», annunciai, mentre il respiro sembrava essere sul punto di abbandonarmi totalmente.
«Lo avevamo previsto... ma... ti sento sconvolta... ti ha fatto del male?», l'uomo che un tempo era estremamente protettivo nei miei confronti ricomparve immediatamente, non c'era più traccia di stanchezza nel suo tono.
«No, è che... io non posso farlo... devo tornare a casa, non sono all'altezza», biascicai tra un singhiozzo e l'altro. Stavo piangendo come una fontana e neppure me ne ero accorta.
«Amore», non fece in tempo neppure a dirlo che lo bloccai.
«Amore un cazzo», replicai.
«Devi entrare nelle sue grazie se vuoi che si fidi abbastanza di te da rivelarti la sua identità. Lo sai Dawn, lo sai molto bene... possiamo distruggerlo solo se troviamo un punto debole. E per ora lui non ne ha...», provò a parlare piano, cercando di scegliere le parole giuste.
«Puoi prenderti tutto il tempo di cui hai bisogno. Puoi tornare qui se questo ti aiuta. Ma non abbiamo fatto tutta questa strada per arrenderci alla prima difficoltà. Chiudi gli occhi e anche se ti fa orrore, sopporta. So che puoi farcela, tesoro.»
Come avrei potuto confessargli che il problema non era spegnere le sensazioni negative, il problema era cercare di far tacere quelle positive.
Mi era piaciuta ogni cosa.
E che ciò fosse accaduto era da malati.
Io ero malata.
Vega mi era entrato dentro con le sue ombre, spegnendo anche quell'ultimo brandello di luce che era rimasto.
Cosa avrei dovuto fare?
Arrendermi e tornare a sopravvivere nelle quattro pareti della mia stanza, o vivere con il timore di innamorarmi del mio nemico?
Spazio autrice:
Niente è mai semplice come appare...
Cosa credete sia avvenuto due anni prima tra Vega e Dawn?
Qualcuno ha teorie che vuole condividere con me?
Ne sarei onorata.
Vi aspetto anche su ig maty_riisager.
Grazie ancora una volta perché ci siete,
Vi vedo e vi conosco molto più di quanto voi pensiate, anche nel vostro silenzio.
Alla prossima settimana, con un altro capitolo che sento vi sconvolgerà,
Vi amo,
Matilde.
Bạn đang đọc truyện trên: Truyen247.Pro