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Capitolo 12 - La ballata dell'uomo senza nome

"There's a man beneath an old oak tree,

Lost his name as night turned to be.

He met me with nothing, just his soul in sight,

Said I'd find him when the world was night.

But I searched by day, found only a si-"

La voce di ElleR si interruppe all'improvviso.

Il suono del mondo circostante entrò prepotentemente nelle mie orecchie.

Clacson, uccelli che cinguettavano, il mio respiro pesante affaticato dalla corsa.

«Mio Dio, ancora senti questa roba», Big era accanto a me, sudato il doppio di quanto non lo fossi io, e con la mia cuffia destra ben piantata nell'orecchio.

«Questa biondina avrà pure una bella voce, ma io preferisco di gran lunga il suo culo», ironizzò per l'ennesima volta prendendosi gioco di una delle mie cantanti preferite.

«I miei gusti non sono affar tuo», gli strappai l'airpod, tirando più forte che potessi anche parte del suo lobo.

«Ahia», si massaggiò il lato destro della faccia.

Con ancora quel gigante alle calcagna, mi accorsi della presenza di una panchina, perciò decisi di arrestare la mia corsa. Mi sedetti sul bordo superiore ancora ansimante.

«Era da tempo che non andavi a correre... Come mai stamattina hai deciso di far alzare le tue chiappe così presto?», si accomodò accanto a me. Non attese neppure un secondo per estrarre il pacchetto di sigarette dal marsupio che gli pendeva sulla pancia.

«Potrei dire lo stesso di te», mi asciugai la fronte intrisa di sudore con il palmo. Erano anni ormai che ero veramente fuori allenamento.

«Io faccio altri tipi di sport», mi rivolse un occhiolino.

«Il sesso non conta», risposi, sapendo già dove volesse andare a parare.

«Il mio sesso conta sempre. Non posso dire lo stesso del tuo... se solo ne facessi di più potrei giudicare», scoppiò a ridere.

«Grazie amico, sono felice che ti interessi del benessere del mio cazzo.»

«Mi sta molto a cuore», pronunciò a fatica cercando di salvaguardare la sigaretta che aveva appena appoggiato al labbro inferiore.

«E a me sta molto a cuore la tua salute», lo guardai, scuotendo la testa.

«Ma va...», si stiracchiò, portando un braccio dietro le mie spalle. Con la mano libera mi passò il pacchetto, sicuro che non avrei rifiutato.

Infatti, afferrai anche io una Marlboro.

«Chiunque abbia detto di non fumare dopo l'attività fisica ne saprà sicuramente più di noi, ma a noi non frega un cazzo lo stesso», sorrise, in quel modo sghembo che lo contraddistingueva. Quella era la sua espressione standard. Assomigliava parecchio a un figlio di puttana, scostante e maleducato. E in effetti, si poteva affermare che lo fosse. Ma con me non lo era affatto. Con me, King e Boobs lui era diverso. Quel suo modo di comportarsi era proprio ciò che più ci accomunava. Dicevano che noi due fossimo i peggiori di tutta la Brown, e avevano ragione ma allo stesso tempo avevano torto.

«In ogni caso», riascoltai improvvisamente la sua voce, mentre ero occupato a riflettere, «da quando fai sesso una volta all'anno sei più nervoso del solito.»

«Io faccio sesso più di una volta all'anno», ironizzai.

Tuttavia, ciò che diceva Big era vero. Avevo smesso di interessarmi alle ragazze da un bel po'. Avevo troppo timore di fare loro del male. Troppe persone in passato avevano sofferto a causa mia perché io potessi continuare a imbrattare gli altri con l'oscurità che si celava dentro di me.

«Vedrò di fare un po' di sesso, comunque... Grazie dottor Big», guardai il mio smart-watch. Avevo corso soltanto per 2,5 km. Avrei dovuto percorrere almeno il doppio del percorso.

«Non azzardarti a farlo con lei», Big mi guardò di traverso.

Ecco, quello era lo sguardo del vero stronzo che era.

«Con Boobs?», lo guardai stranito. Conoscevo i loro patti e non avrei mai oltrepassato il limite con lei, se entrambi non me l'avessero chiesto.

«No, cretino. Preferirei che ti facessi la mia ragazza piuttosto che la sua coinquilina», mise l'accento sull'ultimo termine.

Dawn, si riferiva a Dawn.

«Oh, adesso devi scegliere per me le ragazze che posso o non posso portarmi a letto? Cazzo Big, alla fine senza volerlo mi sono trovato con un grillo parlante davvero di merda.»

Non pensare a ciò che stai per pensare, continua a dire cazzate, continua a distrarti Vega, puoi farcela.

«Non scherzare, sono serio», si allontanò da me, ruotando il busto per potermi guardare meglio negli occhi. «Cece non fa altro che parlare di quanto sia adorabile e di quanto sia felice di averla incontrata. Non vorrei ripetere vecchie esper-», lo bloccai immediatamente.

«La colpa sarà anche stata mia, ma sei stato tu ad aver commesso l'errore più grosso», non potei credere al fatto che stesse per rimproverarmi per uno sbaglio commesso in primis da lui stesso.

«E non c'è giorno in cui non me ne penta...», riconobbi nelle sue iridi un velo di tristezza. Era consapevole di quanto quello che era accaduto avesse fatto soffrire l'unica persona che avevamo sempre giurato di amare.

«Voglio solo che Boobs sia felice. Non mi importa di nient'altro. Dawn non mi piace e non faccio niente per nasconderglielo. Ma è come se tutti voi, persino King, foste stregati da lei e dai suoi occhioni da ragazzina indifesa, ed io proprio non riesco a capacitarmi di come sia possibile. Lei nasconde qualcosa e quel qualcosa ci farà del male...»

«Ti sembro forse uno da imbambolare?»

Con chi credeva di avere a che fare. Cristo, mi conosceva da due anni e ancora pensava di doversi raccomandare, come se fosse mio padre.

«Considerando che l'ultima volta che sei stato vagamente simpatico con qualcuno che non fossimo noi tre è stato circa dopo il tuo secondo vagito, direi che già che le rivolgi più di quattro parole al giorno, mi faccia sospettare che ci sia qualcosa in lei che ti attrae.»

«Sono solo educato.»

Non proprio, in effetti.

«Le vuoi entrare nelle mutande... ammettilo», mi diede un pugno sulla spalla. Per quanto fosse amichevole, Big non sapeva dosare la forza, perciò rischiai di mordermi la lingua a causa del dolore che mi fece provare.

«Tu non vorresti?», provai a fingere che non mi avesse fatto male.

«No», rispose secco.

«Ipocrita», sentenziai.

A Dawn si poteva dire tutto, ma non che non fosse almeno nell'aspetto un angelo sceso in terra. Spesso era insulsa e sembrava ci mettesse il suo per rendersi ancora più invisibile. Ma oltre tutte quelle stronzate per le quali si guarda una ragazza, che siano abiti succinti, trucchi eclettici e parti del corpo in bella vista, lei aveva tutto e forse anche di più delle altre. Forse tra tutte le sue qualità ce n'era una cosa che più di tutte non mi faceva disdegnare di immaginare di portarmela a letto: la sua intelligenza. Quella non era cosa comune, persino alla Brown, dove tutte quante avevano lottato pur di essere ammesse.

«Piuttosto, Big, pensa all'immensa partita di droga che sta per esserci consegnata, al mio cazzo e al modo in cui decido di parlare con qualcuno ci penso io. Ti prometto che mi terrò alla larga da lei, se questo farà più felice te e Boobs, ma non mi chiedere di non essere simpatico, purtroppo quando uno ci nasce, è difficile non esserlo», cercai di farlo sorridere. Non era da noi iniziare la giornata con argomenti così seri. Soprattutto quando di lì a poco avremmo avuto impegni molto più complessi da portare a termine.

«Cazzo Vega, per tutta l'università tu sei un ghiacciolo e poi te ne esci così... Tu sei tutto matto amico mio, altro che simpatico, tu sei tutto matto», scosse la testa, portandosi il palmo sul volto ancora cosparso di goccioline di sudore.

«Dai, torniamo a casa, dobbiamo controllare che King non sia morto per tutta la coca che si è sniffato ieri notte», mi alzai, rimettendo le cuffie nelle orecchie.

Con un tocco feci ripartire la canzone che stavo ascoltando:

The ballad of the nameless man.

***

Quando avevo iniziato, le consegne avvenivano molto di rado.

Spesso capitava che riuscissimo a finire la roba ancor prima che un altro corriere bussasse alla nostra porta.

Più il tempo era trascorso, più avevamo affinato le nostre capacità e più le spedizioni erano diventate frequenti.

Aspettavo l'arrivo del carico sempre allo stesso modo.

Mi sedevo sulle gradinate d'ingresso di casa nostra e, con il cuore in subbuglio, attendevo l'ennesimo furgone.

Non si poteva dire che i miei superiori non fossero fantasiosi.

Non era mai capitato che si presentasse alla mia porta la stessa persona della volta precedente, né tanto meno che fosse il medesimo mezzo a condurre chi si occupava della merce da noi.

Quel giorno mi sorpresi di vedere una faccia a me non totalmente ignota.

Un uomo che avevo visto più volte in passato giunse al 130 di Hope Street, con un camion dei traslochi.

«Ciao», fu un miracolo che mi rivolse parola.

«Da quanto tempo», accompagnai le mie parole con un gesto del capo.

«Ho una consegna per te», si tastò le narici riproducendo lo stesso tic che aveva King e il 98% degli altri drogati che avevo conosciuto in vita mia.

«Ma va...», ironizzai.

«Senti -», pronunciò soltanto l'iniziale del mio vero nome. Mi alzai di scatto, come se con il solo palmo della mano potessi cancellare dalla sua mente quel ricordo.

Non erano in molti a sapere chi ero.

Ma se loro mi avevano costretto a spacciare, qualcuno che fosse a conoscenza della mia identità al mondo doveva pur esserci.

«Vega», lo corressi, «dammi quello che devi darmi e poi vai via», era un'assoluta fortuna che io non permettessi mai a nessuno di attendere l'arrivo della dose con me.

«Eri sicuramente più simpatico prima», un risolino amaro si fece spazio tra le sue labbra secche e spaccate. Doveva essere da poco che aveva iniziato ad esagerare con le droghe.

«Che hai per me?», finsi di non cogliere la sua stoccata.

«Tre unità, non so cosa ci sia dentro. Mi hanno solo detto che tu ne hai una per me», iniziò a estrarre dal retro del furgone degli scatoloni marchiati con un pennarello nero dalle scritte cucina, salotto, camera dei bambini.

Quanto doveva essere fantasioso colui che aveva scelto le stanze da attribuire al contenuto di quei pacchi.

«Sì, sta' attento con questa», mi raccomandai. Come sempre, loro davano qualcosa a me e io restituivo in cambio qualcosa a loro.

«Ah, e ho anche questa», si toccò i pantaloni, tastando a una a una tutte le tasche del suo cargo.

«Ecco qui, un messaggio dal capo», mi porse una busta nera, all'esterno non c'era nulla: né il nome del mittente né tanto meno quello del destinatario.

«Alla prossima», lo guardai negli occhi, «mi raccomando, cerca di riguardar-», la sua risata mi interruppe bruscamente.

«Terra chiama "Vega", nel retro del camion potrei avere le tue palle», continuò a spassarsela «non fare il bacchettone con me, ci sono stati tempi in cui io e te ce la saremmo fatta volentieri insieme tutta questa roba qui», indicò i tre scatoloni che ci separavano, «spero di vederti presto, manchi a tutti.»

Mi diede una pacca sulla spalla e indietreggiò, riproducendo un gesto militare per saluto.

«Siete voi a non mancarmi», sussurrai più a me che a lui.

«Big, King», mi affacciai all'interno, chiamandoli per farmi dare una mano.

«Tre? E di quelle dimensioni? Ma che cazzo, cosa credono che siamo in venti qui dentro», Big si lamentò non appena attraversò la soglia d'ingresso.

«Mi auguro che questa volta i tempi siano più lunghi. A furia di andare in quei club per vendere coca, di notte non riesco a dormire senza sentire quell'orribile musica dentro le orecchie.»

Smisi di ascoltare, mentre loro due portavano la nuova merce nel seminterrato, io mi bloccai. Ricordandomi della busta che ancora stringevo tra le mani.

L'aprii lentamente, lasciando che il foglio bianco all'interno facesse capolino lentamente, mostrando un carattere per volta.

"Sei la migliore scommessa della mia vita. Avrei dovuto capirlo prima quanto mi sarebbe costato lasciarti andare. I."

«Le migliori scommesse sono sempre quelle che non si ha il coraggio di fare», estrassi l'accendino dalla tasca e diedi fuoco a ogni cosa.

***

Vista la quantità di roba di cui dovevamo liberarci il prima possibile, decisi subito dopo l'unica lezione del mattino di spostarmi da solo nel parco antistante all'ingresso per iniziare a vendere qualche bustina.

Non c'era bisogno che io mi facessi "pubblicità", né tanto meno vi era la necessità che io mi mostrassi agli altri in modo da far sapere loro quali fossero le mie intenzioni, lo sapeva persino il rettore perché ogni giorno io e i miei amici passassimo così tanto tempo sdraiati su quel prato.

A dire la verità, probabilmente anche lo sceriffo conosceva benissimo la nostra attività.

Ma altrettanto probabilmente, per evitarci rogne, ogni mese un'ingente somma di denaro doveva essergli consegnata in una bustina delle stesse fattezze di quella che era stata consegnata a me.

Era una giornata di sole splendente. Così tanto caldo da rendermi ancora più pigro nelle mie posizioni.

Me ne stavo beato con il capo appoggiato sul mio zaino, attento a non schiacciarne troppo il contenuto, mentre il prato mi solleticava le parti di pelle che restavano scoperte dai miei abiti.

Agognavo un po' di venticello fresco, scaldato ancor di più dal fumo della mia canna, confezionata abilmente con la nuova varietà di marijuana consegnata quella mattina stessa.

Fu in quel momento, nel frangente di massimo rilassamento, che udii una risata familiare levarsi a qualche metro di distanza.

Aguzzai la vista, scosso dal ricordo di quel rumore senza però riuscire a ricollegarlo alla persona alla quale apparteneva.

Scorsi Dawn, seduta a gambe incrociate su un telo da mare, accanto a lei Wes e sdraiata ai loro piedi l'altra ragazza loro amica.

Stava mangiando una caramella gommosa, mentre scompostamente si contorceva a causa dell'ilarità provocata da qualcosa che l'unico ragazzo presente le aveva detto.

Indossava una gonna plissettata nera e un top bianco che riproduceva sui seni, in corrispondenza dei capezzoli, due cuoricini.

Ripensai alla conversazione che avevo avuto con Big quella mattina e al fatto che effettivamente il suo aspetto, malgrado tutto, non mi fosse proprio indifferente.

Aspirai l'ultimo tiro e spensi quel che restava dello spinello sul tronco dell'albero. In quell'esatto momento Wes le rubò quello che a distanza mi parve uno di quei bastoncini di liquirizia direttamente dalla bocca. Lei se ne lamentò, smettendo di incrociare le braccia al petto arrabbiata soltanto quando lui glielo restituì dopo averne mangiato un pezzo.

Dawn era senza alcun dubbio quel chiaroscuro che io agognavo da sempre di raggiungere nei miei dipinti.

Una parte di sé, quella che non provava neppure a nascondere, era immersa nell'oscurità, ma l'altra, per quanto lei cercasse di negarlo, era inondata di una luce così forte da accecare chiunque vi passasse a chilometri di distanza.

Mi chiesi come potesse non rendersi conto che quella metà di sé che lei credeva ormai esaurita fosse in realtà ciò che di più splendente vi fosse al mondo.

Più di quanto non lo fosse il sole del mattino, più di quanto non lo fosse V-.

«Vega?»

Mi scossi, per un secondo pensai che qualcuno stesse ascoltando i miei pensieri completando le frasi che io stesso avrei tanto voluto lasciare incompiute.

«Sì», confermai, «tu sei?», guardai dal basso verso l'alto la ragazzina dai capelli rossi che aveva osato avvicinarsi all'Inverno.

«Ember», sorrise impacciata, «mi hanno detto che tu- sì, insomma... hai capito?», biascicò.

«Che io?», mi divertii fingere di non capire a cosa alludesse.

«Vorrei qualcosa da», riprodusse il gesto del fumare.

«Una sigaretta?», continuai a prenderla in giro.

Non so perché fossi così in vena di scherzare.

Capitava, beh... capitava... praticamente mai.

«E r b a», scandì ogni lettera con una lentezza impressionante.

«Ahhh», feci finta di esserci appena arrivato, «e perché la desideri?»

«Non puoi semplicemente darmela?», mi guardò di traverso.

«Prima rispondi.»

«Ho un appuntamento e voglio fare bella figura», la voce innervosita le si incrinò.

«Hai mai fumato?», incalzai.

Negò con il capo.

«E allora mi dispiace, non posso», imitai il suo stesso gesto.

«Che vuol dire?», sgranò gli occhi.

«Che dovrai contare soltanto sulle tue doti per fare bella figura... e sono certo che non ti manchino», afferrai il cellulare per farle capire volutamente che fosse giunto il momento di andarsene. Mi accorsi di aver ricevuto un messaggio qualche minuto prima. Mentre lo leggevo, sentii un'imprecazione e dei passi pesanti abbandonare le mie vicinanze.

Boobs: Ci vediamo da Five Guys. Ho voglia di patatine unte e tanto formaggio.


Vega: Ogni tuo desiderio è un ordine.

Credo che non verrò da solo.

Nell'esatto momento in cui iniziai a digitare quel messaggio seppi di dover tentare un invito.

Raccolsi le mie cose e mi aggiustai i capelli spettinati.

«Ciao ragazzi», parlai ancor prima di essere nella loro visuale.

«Ehi», Dawn ricambiò per prima, come se sapesse perfettamente quando e da quale parte sarei giunto.

«I ragazzi mi aspettano per pranzo, ti va di venire?», le porsi già la mano, convinto che di lì a qualche secondo si sarebbe alzata.

«Abbiamo lezione tra un'oretta», Wes rispose al suo posto.

Non credevo che avrei iniziato a tollerare meno il McKenzie più giovane di quanto non tollerassi già il maggiore.

«Facciamo in tempo a tornare?», domandò lei.

«Assolutamente», non terminai neppure quella parola che lei afferrò la mia mano.

«A più tardi ragazzi», si voltò verso di loro, inviando un bacio a entrambi.

«Dawn Bennett, sono colpito dal tuo spirito di improvvisazione», misi le mani in tasca, per prendere sigarette e accendino.

«Vega, non ho idea di quale sia il tuo cognome, non credi di fumare un po' troppo?», intese immediatamente ciò che stessi cercando.

«Nomi e cognomi ormai sono convenzioni superate da tempo, così come le crocerossine che tentano di salvare la salute dei loro amici», le sorrisi, abbandonando l'idea di accendere l'ennesima sigaretta.

«Beh, in primo luogo io sono tutt'altro che una crocerossina», socchiuse gli occhi come a voler cancellare quella definizione, «e poi, in secondo luogo, un modo per riferirsi a un'altra persona ci serve. E per quanto siano concezioni ormai superate, purtroppo ne abbiamo bisogno. Del resto, persino tu, hai bisogno di farti chiamare Vega.»

«Sì, ma Vega mi rispecchia davvero. Quando siete nati i vostri genitori non avevano idea di chi sareste stati. Non posso dire che Dawn non ti si addica, ma ti sembra forse che Nicholas sia il nome adatto per King?», portai le sopracciglia in su. Era innegabile che Nick avesse avuto da sempre il soprannome King scritto sulla fronte.

«Credi che Dawn sia un nome che si sposi bene con la mia personalità?», il resto parve non avere alcuna importanza per lei.

«Sai quella frase un po' banale che dice che "non c'è notte tanto grande da non permettere al sole di risorgere il giorno seguente"? Ecco, tu me la ricordi», pigiai il tasto per aprire l'auto e la guardai un secondo prima di salire a bordo.

Lei ebbe un sussulto appena percepibile.

«E perché Vega dovresti essere tu?», mi seguii, prendendo posto sul sedile del passeggero. Litigò con la cintura di sicurezza per qualche istante prima di riuscire a chiuderla.

«Perché c'è ancora un minuscolo raggio di luce in un cielo che inghiotte ogni cosa», lo dissi come se fosse la prima frase insignificante che mi venisse in mente. Era solo da una vita che mi sentivo in quel modo.

«Mi parlerai mai di cose futili? Di quei discorsi che riempiono gli attimi vuoti?», sembrò divertita, ma la luce dei suoi occhi la tradì.

Sorrideva troppo.

Smettila Vega, mi dissi.

«Credo che pioverà stasera», cambiai argomento, alzando il mento all'insù per scrutare le nuvole.

«Cose meno futili di questa, così è davvero troppo», rise, «a proposito, la ragazza che era seduta accanto a me con le sue amiche... beh... le ho sentito dire che ti sei rifiutato di venderle qualcosa perché non aveva mai fumato», fece tamburellare le dita, come se quello che mi aveva detto potesse in qualche modo modo metterla a disagio.

«Ti sorprende?»

Avrebbe dovuto offendermi il fatto che non mi trovasse capace di fare una cosa simile?

«Non credevo che gli spacciatori avessero un tale codice etico», ironizzò.

«Sugli altri non posso garantire, ma io sì» la guardai di sottecchi, impegnato com'ero a superare un'auto che andava ben sotto il limite minimo orario.

«Quali sono i tuoi principi?», le tremò un po' la voce. Quasi come se fosse realmente convinta che io non potessi averne.

«Non vendo droghe pesanti a chi già non sia assuefatto. Le uniche cose che dispenso a cuor leggero sono l'erba e le pasticche. Ma mai se è la prima volta.»

Era la verità, sin dal primo giorno, mi ero rifiutato di scendere a patti con chiunque mi avesse pregato.

«Fai un quiz a tutti i tuoi clienti?», era decisamente curiosa di come io potessi comprenderlo senza conoscere i miei interlocutori.

«Tendenzialmente si capisce, se non hai mai toccato nulla, non sai neanche come interagire con uno come me. Le persone credono che solo perché io faccia un lavoro di merda sia una persona di merda di cui avere paura», scrollai le spalle.

«E gli altri?»

«Boobs e Big seguono più o meno le stesse regole. King è un cane sciolto, ma l'ho scelto per questo. Saremmo già andati in fallimento se non fosse stato per lui. Ogni tanto qualcuno in questo mondo deve smettere di voltarsi controcorrente», mi morsi il labbro inferiore. Quanto avrei desiderato non essere costretto a vivere in quel modo.

«Perché lo fai?», si schiarì la voce, «di solito chi si trova a dover commettere certi crimini o è disperato al punto da dover ledere la vita altrui per salvare la propria o è uno spregiudicato senza cuore e cervello», appoggiò la sua mano sulla mia che stringeva il cambio, «e tu non mi sembri né l'uno né l'altro».

Non lasciai che trascorressero più di due secondi, cambiai bruscamente la marcia pur di fare in modo che il suo palmo scivolasse dalle mie nocche. Il motore non fu contento di quella riduzione dalla quinta alla quarta, ma a me importò soltanto che avessi raggiunto il mio obiettivo.

Mi stavo addentrando in un percorso a ostacoli e mi ostinavo a volerlo oltrepassare con una benda sugli occhi.

«Io sono disperato, Dawn.», interruppi il silenzio durato qualche istante di troppo, «eppure, qualsiasi cosa mi spaventi non può farlo al punto da farmi perdere la rotta. Al mondo ci saranno altri spacciatori che daranno l'erba a quella ragazza, iniziandola a un mondo che non potrà che corroderla dall'interno, ma alla fine, quando lei tornerà da me una seconda volta, io non potrò più dirle di no. Perché se voglio fingere di avere un ultimo brandello di libertà, devo farlo», azionai il freno a mano, e ruotai la chiave nel lunotto per spegnere il motore.

Lei mi guardò come se io le avessi fatto appena crollare tutte le certezze che aveva. Ma non riuscii a capire perché sembrasse così stranita dal mio comportamento. Noi non ci conoscevamo.

O almeno era ciò che credevo.

Dawn pensava di conoscermi.

Ma Dawn si era sbagliata di grosso.

Spazio autrice:

Eccomi, un po' in ritardo, ma sempre qui puntuale ogni lunedì,

Grazie immensamente perché ci siete,

Se vi va fatevi sentire, mi farebbe piacere vedere un vostro commento...

Alla prossima settimana,

Dawn e Vega sono sempre più vicini............

🥀

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