22
Le pareti bianche e le luci abbaglianti degli ospedali mi angosciano, mi fanno sentire sul punto di soffocare e in trappola. Sto seduta su una delle sedie della sala d'attesa torturandomi le cuticole, cercando di fare respiri profondi e di calmarmi. Già da bambina odiavo gli ospedali e ora, in seguito all'aggressione che ho subito qualche settimana fa, la situazione è decisamente peggiorata.
Clary non mi sta aiutando. Cammina avanti e indietro per il corridoio, si passa nervosamente la mano fra i capelli raccolti in una coda alta, che le lascia scoperte le orecchie piene di anellini. Da quando è arrivata non si è fermata nemmeno per un secondo. Sembra più preoccupata per la sorte del fratello che del suo ex ragazzo, infatti mi domando cosa ci faccia qui.
«Perché tuo fratello aveva un coltello a scuola?» chiedo.
Clary ferma la sua camminata nervosa e si volta verso di me. Tiene i pugni talmente stretti che riesco a immaginarmi le sue ossa schizzare fuori dalle nocche, tanto sono bianche. «Non lo so» risponde. Sospira tremolante, alza gli occhi al soffitto per ricacciare indietro le lacrime. «Mio fratello, lui è... Ti prego, non andare dalla polizia. Non è cattivo, solo... Se tu e Sam andaste dalla polizia potrebbero pensare che sia il responsabile della morte di quella ragazzina, verrebbe etichettato come assassino. Non è, però, un assassino, ha solo bisogno di aiuto. Lui...»
Fa fatica a parlare, non riesce a finire la frase. Le sue guance sono arrossate e gli occhi sono lucidi, ma non ho ancora visto scendere una lacrima sul suo viso. È evidente non voglia mostrarsi debole, sta cercando con tutte le sue forze di non scoppiare in un pianto disperato.
«Mi stai chiedendo di non denunciare tuo fratello dopo che ha cercato di aggredirmi? Per fortuna si è messo in mezzo Sam, che se la caverà con solo qualche punto al braccio. Poteva finire molto male, Clary» dico, usando il tono più pacato che io riesca a forzare. In realtà, sono molto irrequieta e arrabbiata. Ho le mani che ancora tremano per la paura, pochi secondi e avrei potuto esserci stata io al posto di Sam. Il tutto per una stupidaggine.
«Aimee...» Si siede accanto a me, mi stringe forte le mani. «Ti prego, gestirò io questa situazione. Io e la mia famiglia. Mia sorella ne uscirebbe distrutta. Farò qualsiasi cosa, ma non denunciatelo. Lo terrò sotto controllo.»
So che non dovrei, ma la sua disperazione mi impietosisce. Nonostante Clary non sia mia amica non riesco a odiarla del tutto, soprattutto perché riconosco che, in questo momento, è sincera. Annuisco, poco convinta. «Va bene, spero solo la situazione non degeneri» mormoro.
Clary annuisce e abbassa lo sguardo. «Ti ringrazio. Ti devo un favore.»
Mi sveglio all'improvviso, urlando. Mi guardo attorno: sono nella mia stanza, sono al sicuro. Porto una mano alla gola, sentendola ancora serrata, e bevo un sorso d'acqua dalla bottiglia che tengo sempre sul comodino. Guardo l'orologio, che segna la sei del mattino. Bree non c'è. Ultimamente è molto strana, assente, e sfugge alle mie domande preoccupate. Dice sempre di essere impegnata con lo studio, quando la mattina non c'è spiega di essere andata a correre o fare una passeggiata perché non riusciva a dormire. Deve essere andata così anche questa mattina.
Sospiro e mi rannicchio sotto alle coperte. Un incubo orribile. Joy mi trascinava con sé sotto la superficie del lago, teneva le sue minuscole mani strette attorno al mio collo. Eppure... quel sogno mi ha dato un'idea, probabilmente la più folle che io abbia mai avuto. Sarebbe utile per le indagini, ma rischierei anche la vita.
Avrei bisogno di qualcuno disposto ad accompagnarmi, ma chi?
Violet è fuori discussione, ancora mi tiene sotto controllo dopo la morte di Joy, e Jena le spiffererebbe tutto seduta stante. Sam è tornato a casa, ma avrà il braccio fuori uso per almeno una settimana.
Una persona, però, ci sarebbe. In fondo è da quando siamo bambini che dà retta alle mie idee folli.
Mi alzo e indosso una tuta, giusto per non farmi trovare in pigiama, e mi incammino verso i dormitori maschili. Busso alla porta della stanza di Dylan, che dopo qualche minuto la apre ancora con il viso assonnato e i capelli arruffati. Non si aspettava di vedermi, la sua espressione accigliata lo conferma.
«Aimee, va tutto bene?» chiede. «Non riuscivi a dormire, per caso?»
Dylan, in seguito alla morte di Joy, mi è stato molto vicino. Se ha un minuto libero lo passa insieme a me, ascoltando le mie paranoie e dandomi consigli utili. Da bambino lui era quello tranquillo del gruppo. Se io e Winter eravamo le due matte che usavano l'istinto, lui è sempre stato quello che ponderava le nostre scelte e che riusciva a farci prendere la decisione giusta. In poche parole, è sempre stato il più responsabile, nonché estremamente protettivo nei nostri confronti.
Ricordo anche che Ellie, la sua ragazza, era la cugina di Joy e che passa metà delle sue giornate con lei per consolarla. È da un po' che non la vediamo per la Haldell, non viene nemmeno più a lezione. Jena dice che dopo la morte di Joy si è chiusa nella sua stanza e che non esce più, permette solo a Dylan di andarla a trovare.
«Ti sembrerà folle, ma devo andare nel bosco. Ho bisogno, però, di qualcuno disposto ad accompagnarmi» spiego. «Ho paura ad andarci da sola.»
Mi fissa scettico. «Fiammetta, cosa diamine stai dicendo? Sono le sei del mattino.»
«Lo so che ti sembrerà assurdo, ma Joy è stata ritrovata sotto uno strato di ghiaccio, giusto? Ciò significa che il corpo sarà rimasto lì sotto per chissà quanto tempo! E se ci fosse qualcosa nel lago? Qualcosa di importante?» domando.
Dylan sgrana gli occhi. All'improvviso sembra essersi svegliato del tutto. «Sei impazzita? Vuoi andare nel lago?» urla. Gli sibilo di abbassare la voce, o sveglierà tutto il dormitorio. «Aimee, la polizia ha già setacciato il lago e non hanno trovato nulla.»
Alzo gli occhi al cielo. «Ogni volta la polizia non trova nulla, non ti sembra strano? Dana viene trovata morta? Niente di niente. Kate sparisce? Nessuna pista. Vengo ritrovata in un vicolo? Che strano, anche lì nessun indizio!» Rimane in silenzio, segno che devo aver fatto centro. Incurvo il labbro inferiore verso l'esterno e gli faccio gli occhi dolci. «Dai, un'avventura come ai vecchi tempi. Per favore?»
Sbuffa. «Non vale fare la faccia da cucciolo, ti detesto.»
Entro in classe zoppicando, la caviglia ancora brucia. Il professor Dofel mi osserva accigliato, inarca un sopracciglio e mi osserva con fare accusatorio. Poi sposta lo sguardo su Dylan, che è dietro di me. Contavamo di restare poco all'Ice Lake, ma qualcosa è andato storto e ora siamo in ritardo. «Andate a sedervi, non abbiamo tempo da perdere. Per questa volta vi perdono, ma che non ricapiti mai più» dice il professore.
Solo ora mi accorgo delle due ragazze in piedi accanto alla cattedra. Vado a sedermi accanto a Bree, che con lo sguardo mi domanda cosa sia successo. La ignoro, sentendo il cuore in gola. Non glielo posso dire, ho mentito anche a Dylan. Mi prenderebbero per pazza.
Mi sono tuffata nell'Ice Lake senza pensarci due volte. L'acqua era fredda, la mia pelle bruciava a contatto con quel liquido ghiacciato. Il lago non era molto profondo, al massimo due metri. Non è nemmeno grande. Mi domando perché lo chiamino lago se alla fine è solo una semplice pozza d'acqua.
Il fondale era buio, impossibile da intravedere. Ho iniziato a tastare alla cieca, nella speranza di trovare qualcosa.
E, effettivamente, qualcosa ho trovato: un sacchetto di plastica che avvolgeva un oggetto di metallo. Forse lo stesso che ho visto nei ricordi, quando ho usato quella sottospecie di macchina del tempo.
Ora è nel mio zaino, non ho avuto ancora modo di capire di cosa si tratta.
Peccato che qualcosa ha trovato me, in quel lago. Mi ha afferrato la caviglia, ha cercato di trascinarmi e tenermi a fondo. Sembrava un polpo gigante, un mostro. Non riesco ancora a capire da dove sia sbucato, il lago non ha grotte o buchi sul fondale, è una semplice pozza d'acqua.
Quando Dylan mi ha afferrata per riportarmi a galla e quel mostro ha mollato la mia caviglia, è sparito nel nulla. Per un momento ho pensato di essermi immaginata tutto, ma non è così: lo prova la bruciatura incisa sulla mia caviglia, che si sta lentamente ricoprendo di bolle. Mi fa talmente male che non riesco nemmeno ad appoggiare il piede.
«Prima di cominciare, ragazzi, vi presento due nuove studentesse» dice il professor Dofel, interrompendo i miei ricordi.
Alzo lo sguardo sulle due ragazze: una ha i capelli scuri e dei grandi occhi neri, molto profondi. Ci guarda tutti con curiosità, ma il suo sguardo si posa insistentemente su Dylan con fare quasi malinconico. Il mio migliore amico ricambia, con gli occhi illuminati per lo stupore. Devono conoscersi.
L'altra, invece, ha gli occhi più sottili, come quelli di una volpe. Ci studia con attenzione. Sembra più piccola rispetto all'altra, che ha un'aria più matura.
«Loro sono Mary e Laura Murphy.»
Quando lo sguardo della più piccola cade su di me, mi vengono i brividi. I suoi occhi scendono fino alla mia caviglia e poi, lentamente, risalgono fino al mio viso. Aggrotta le sopracciglia e, semplicemente, sorride divertita.
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