Capitolo 6 - In viaggio su un pericolante ammasso di lamiera
Che cosa si mette in valigia quando si sta andando a rinunciare al proprio status di principessa? Questa è la domanda che mi ha tormentato negli ultimi due giorni, senza sosta, togliendomi persino il sonno. E va bene, forse la mia momentanea insonnia è stata provocata da qualcos'altro, ma bisogna ammettere che anche il fattore abbigliamento ha una certa importanza.
Mamma ha finito di riempire la sua borsa nemmeno un quarto d'ora dopo che Karina se n'è andata, giovedì mattina, e invece io sono ancora qui: in piedi davanti all'armadio, con il trolley vuoto, a soli trenta minuti dall'arrivo della limousine.
So che la storia dei vestiti è soltanto uno stupido modo di rimandare l'inevitabile, ma che ci posso fare? La sola idea di imbarcarmi in quest'avventura folle mi fa venir voglia di vomitare, perciò ho evitato il pensiero di ciò che mi attende più che ho potuto. Finora, cioè: devo proprio muovermi a mettere qualcosa in valigia, a meno di non voler girare per i corridoi di un palazzo reale in mutande a pois.
"Daphne, come andiamo lì dentro?" esclama mia madre dal corridoio, la voce ovattata dalla porta chiusa che ci separa.
Fisso il casino che regna nel mio armadio per qualche altro secondo, poi mi sporgo oltre l'anta spalancata. "Do un'ultima controllata alla valigia e ho fatto!"
In realtà sono ancora in pigiama e non ho nemmeno lavato i denti. Bene, tanto per cambiare mi toccherà fare le corse.
Lancio sul letto un paio di jeans e due T-shirt appallottolate, insieme a una manciata di mutande e calzini che inevitabilmente rimbalzano sul pavimento. Aggiungo al bottino anche una felpa con su disegnato il simbolo anti possessione di Supernatural, poi ficco tutto in valigia.
Scivolo in fretta fuori dal pigiama, sostituendolo con un paio di calzoncini sdruciti e una maglietta a righe bianche e blu, poi schizzo in bagno per recuperare il mio beauty da viaggio dal mobiletto sotto il lavandino. Di solito lo uso solo quando vado a trascorrere qualche giorno da nonna, nel suo villino a Ostia, ma stavolta lo porterò ben più lontano.
"Tutto okay?"
Distolgo lo sguardo dal beauty, ancora stretto tra le mie mani, per posarlo su mamma: si è affacciata oltre la porta del bagno e mi scruta con un mezzo sorriso che non riesco a interpretare.
"Non sono mai stata così lontano in vita mia" bofonchio, stringendomi nelle spalle. "Non sono proprio entusiasta all'idea che il mio primo viaggio all'estero sia in quel posto dimenticato dal mondo."
Il sorriso di mamma si allarga appena. "La Barèvia è incantevole. La adorerai, ne sono certa."
"Sì, be'... lo vedremo."
Esco dal bagno, superandola senza aggiungere altro, e torno nella mia stanza a passo di carica. Getto il beauty nella valigia, insieme al mio pc e all'alimentatore, poi richiudo tutto con un colpo secco.
"È normale che tu sia nervosa."
Sembra che l'attività prioritaria di mamma, oggi, sia quella di seguirmi. Le rivolgo uno sguardo veloce, mentre con il piede sinistro recupero le Converse da sotto il letto. "Ma', ne abbiamo già parlato. Arriviamo lì, conosciamo chi c'è da conoscere, io faccio questa benedetta rinuncia e ce ne torniamo dritte dritte a casa con i nostri soldi."
Da quando Karina ha accennato alla mia ricompensa - che ammonta alla modica cifra di ventimila euro - non ho smesso un attimo di pensare a tutte le cose che potremmo farci: un bel viaggio in qualche paese lontano, razzie selvagge in libreria, un abbonamento a Netflix, qualcuno che ci aiuti a fare le pulizie qui a casa... Ma so bene che nessuno di questi sogni diverrà realtà, perché abbiamo parecchie spese arretrate e probabilmente quella cifra arriva a malapena a coprirle tutte.
"Mi dispiace tanto che stia andando in questo modo" insiste lei, entrando in camera con un sospiro. "Volevo soltanto proteggerti, Daphne."
Mi fingo concentrata sui lacci sporchi delle mie scarpe, ma la verità è che non voglio guardarla negli occhi: sono fin troppo fragile, stamattina, e rischierei di scoppiare in lacrime per un nonnulla. "Lo so. Va tutto bene."
"Rinunciare a una corona non è esattamente una cosa che si fa tutti i giorni."
"Una corona che fino a qualche giorno fa non sapevo nemmeno di avere" ribatto io, indugiando sulle linguette storte delle Converse. "Davvero, ma', è okay. Voglio solo levarmi il pensiero."
Lei mi posa una mano abbronzata sul ginocchio, le unghie lunghe e squadrate che mi punzecchiano la pelle scoperta. "Lo so che hai paura, ma andrà tutto bene. Ci sono io."
Mi limito ad annuire, certa che se aprissi bocca crollerei come una diga mal costruita. È in momenti come questo che invidio la stabilità emotiva ferrea di mia madre: perché non sono venuta su come lei?
"Senti, mi è venuta un'idea" riprende mamma, una nota entusiasta nella voce. Mi rivolge un sorriso smagliante, appena sporcato dalla scheggiatura su uno degli incisivi superiori, e tamburella con le dita sul mio ginocchio. "Che ne dici di una vacanza, soltanto io e te? In una bella città italiana, o magari in quel posto di cui tu e nonna parlate sempre..."
"Copenhagen!" squittisco, rimbalzando come una molla sul materasso. "Oddio, sì, ti prego! Sarebbe fortissimo, ma'!"
Il suo sorriso, se possibile, si apre ancora di più. "Lo penso anch'io. Certo, non sarà una vacanza lunghissima, con questi chiari di luna... ma possiamo usare una parte di quella ricompensa per viziarci un po'. Direi che ce lo meritiamo, no?"
Per tutta risposta la abbraccio, ormai travolta da un'ondata di lacrime. In questo pianto silenzioso, soffocato contro la camicetta smanicata di mia madre, c'è tutto: c'è la stanchezza di questi ultimi giorni, c'è la paura per quello che mi aspetta in Barèvia, lo stress dell'anno scolastico che mi lascio alle spalle e la gratitudine per avere al mio fianco la mamma migliore del mondo. Ha sbagliato, a tenermi nascosta tutta questa storia così a lungo, ma adesso è con me e non potrei chiedere di meglio.
La suoneria del suo cellulare si diffonde nell'aria, facendola staccare dall'abbraccio prima di quanto avrei voluto. Lo fa saltare fuori dalla tasca dei pantaloni scuri e, rivolta un'occhiata rapida allo schermo, si lascia sfuggire un minuscolo sospiro. "Deve essere l'autista della limousine. Come sei messa qui?"
Mi asciugo in fretta le guance, tirando su col naso, e mi sforzo di tirar fuori un sorriso convincente. "Ho tutto, devo solo prendere lo zaino per il viaggio. Digli che scendiamo subito."
Mamma esce per rispondere al telefono, e io sfrutto questi ultimi momenti di solitudine per ripetermi che andrà tutto bene. Non è facile da ammettere, ma ho davvero paura. Non so precisamente di cosa, ma ho le budella attorcigliate dall'ansia e almeno un milione di scenari disastrosi che si ripetono in loop nella mia testa.
"Daphne, dobbiamo scendere!" esclama mamma dal salotto, e io non posso fare altro che recuperare i bagagli e raggiungerla.
Scendiamo in silenzio le scale del condominio, trascinandoci dietro le nostre esigue valigie, e quando arriviamo al pianterreno devo trattenere un singulto: oltre il vetro polveroso del portone, la fiancata di una limousine bianca fa bella mostra di sé.
"Porcaccia miseria" esalo, incapace di contenermi. "Ci sei mai salita su una limousine, tu?"
Mamma mi precede di qualche passo, la borsa che le sbatacchia contro la coscia destra e i lucidi capelli castani a sfiorarle le spalle scoperte. "Un paio di volte" risponde vaga, aprendo il portone con la mano libera.
Neanche a dirlo, individuo almeno una decina di persone affacciate ai balconi dei palazzi qui intorno: qualcuno sorride, altri indicano la limousine, certi addirittura la fotografano con il cellulare. Va bene che siamo a Boccea, ma cavolo! Parliamo di una limousine, mica di un'auto volante!
"Miss Clara e Miss Daphne, immagino" ci saluta quello che deve essere l'autista. Indossa un completo nero, elegante, e ha i capelli pettinati all'indietro con una considerevole dose di gel. Si allontana dalla fiancata del mezzo e, sollevandosi i Ray-Ban sulla testa, rivolge un sorriso lascivo a mia madre. "Io sono Raffaele, al vostro totale servizio. Lasciatemi pure i bagagli, ci penso io."
"Carino, eh?" cinguetta mamma, allungando il collo per osservare l'autista che carica le nostre valigie nel vano posteriore. "Dici che è di Roma?"
"Che non l'hai sentita la parlata burina?" borbotto, prima di spalancare la portiera e lanciarmi sui sedili. L'interno della limousine, se possibile, è ancora più pazzesco dell'esterno: ci sono almeno dieci posti, sistemati a ferro di cavallo, un minifrigo metallizzato e un televisore incastonato nella parete divisoria.
"Percepisco vibrazioni negative" sospira mamma, scivolando con grazia al mio fianco. Si adagia la borsetta sulle ginocchia giunte e, con un sospiro, si volta nella mia direzione. "Che succede?"
"La gente affacciata" spiego, senza particolare entusiasmo. "E tu che flirti con l'autista nonostante la tragica situazione in cui ci troviamo."
Sulle labbra di mamma, colorate da un rossetto nude, si apre un sorriso furbo. "Ora è una tragica situazione? Eppure prima dicevi..."
"Lo so cosa dicevo" la interrompo in un borbottio, accartocciandomi in un angolino. "Lasciamo stare."
"Magari a volte te ne dimentichi, ma guarda che hai una madre ancora giovane e bella!"
E chi se ne dimentica? In realtà è proprio questo il motivo del mio fastidio: mia madre non ha nemmeno quarant'anni ed è ancora una bomba. Tutti quelli che incrociano il suo cammino ci provano spudoratamente, persino quelli che per ovvie ragioni dovrebbero preferire me, e il pensiero un po' mi deprime. In realtà delle attenzioni altrui non me ne faccio granché: mi imbarazzano, a dirla tutta. Però in diciassette anni di vita nessuno si è mai interessato a me, e inizio davvero a pensare di avere qualcosa di sbagliato.
"Terra chiama Daphne" cinguetta mamma, mentre l'autista richiude la nostra portiera. "Sei ancora con me?"
Mi riscuoto dai miei pensieri e le rivolgo un'occhiata veloce. "Scusa, riflettevo."
"Andrà tutto bene. Te lo prometto, ciccia."
Lo spero. Lo spero con tutta me stessa.
***
Volare fa schifo. O meglio, è il decollo a far schifo, ma ne sono rimasta talmente sconvolta da non riuscire a godermi neanche un minuto di quel che è venuto dopo. Cercate di capirmi, è la mia primissima volta su un aereo: c'era forse da aspettarsi altrimenti?
Ho trascorso l'intera durata del viaggio - tre ore abbondanti - rannicchiata sul morbido sedile di pelle, ascoltando la musica col mio mp3 scassato e lanciando maledizioni silenziose a mamma, che sonnecchiava beata dall'inizio del volo.
Non sono nemmeno riuscita a leggere, o a guardare un film come suggerito da una delle hostess che ci hanno accolto a bordo: ero troppo nervosa. In compenso, comunque, ho mangiato almeno per cinque.
"Principessa, stiamo sorvolando la Barèvia" mi dice Karina, sporgendosi nella mia direzione. Siede sul sedile accanto a mamma, di fronte a me, e indica con un gran sorriso il finestrino sul fianco del jet. "Date un'occhiata, vi piacerà!"
Le rivolgo uno sguardo inorridito. Dare un'occhiata? Ma dico, è impazzita? Ho lasciato libero il sedile accanto al mio proprio per stare alla larga dal finestrino, porcaccia miseria!
"Sto bene qui" replico con voce tremante, affondando ancor di più nel mio sedile. "Grazie comunque per l'interessamento."
"Oh, giusto un'occhiatina veloce!" insiste lei, scavallando le gambe e alzandosi in piedi. Aggira il tavolino lucido che ci separa e si ferma al mio fianco, appoggiandomi una mano sulla spalla. "Non ve ne pentirete."
"No, dico sul serio... Per favore..."
Cerco di sgusciare fuori dal sedile, ignorando l'irrazionale paura che così facendo potrei far sbilanciare il jet, ma mentre mi alzo lo sguardo mi cade proprio sul finestrino. Oltre l'ala metallizzata che si estende per una decina di metri e la coltre sottile di nuvole sotto di noi, si intravede quello che ha l'aria di essere un paese in miniatura. Schiere di tetti rossi, inframezzati da serpentelli grigi e angoli verdeggianti, sono racchiusi da una macchia di bosco che si perde su per le alte montagne innevate che torreggiano tutt'intorno.
"Porcaccia miseria" mi sfugge, mentre me ne sto qui impalata a fissare fuori dal finestrino.
Vedere il mondo da quassù, devo ammetterlo, fa un certo effetto. Tutto sembra lontanissimo, silenzioso, quasi immobile, e non è così terribile come creduto in un primo momento: per un breve istante dimentico il panico che mi ha attanagliato fino a poco fa, lasciando spazio a un muto senso di pace e, al contempo, meraviglia.
Racimolo il poco coraggio che ho in corpo e scivolo sul sedile accanto al mio, avvicinandomi cautamente allo spettacolo che si vede fuori dal finestrino. Colgo il luccichio di quello che sembrerebbe un lago di forma ovale, a nord, alle pendici di un monte particolarmente scosceso; vedo uno sprazzo di colori accesi nell'area più urbanizzata, verso sud, di cui riesco a distinguere solo una montagna russa in miniatura; e poi, al centro esatto del paese, scorgo lui: un castello. Circondato da un'infinita area verdeggiante, è un trionfo di torri, guglie appuntite e ali laterali. Ed è enorme.
"Porcospino" esalo, schiacciando il naso contro il vetro. In un attimo il panico pare essersi volatilizzato, sostituito da un senso di incredulità che mi ha lasciato letteralmente a bocca aperta. "Quello lì è il palazzo? E in quanti ci vivono, seicento?"
Sento Karina ridere, mentre con la coda dell'occhio la vedo riprendere posto accanto a mia madre. "Stabilmente ci abita solo la famiglia reale, più gli inservienti fissi. Una sessantina di persone in tutto. Però non vi siete allontanata molto dalla realtà, principessa: il palazzo dispone di un totale di seicentoventi stanze."
Sobbalzo così violentemente da sbattere la fronte al vetro, una botta secca che mi lascia tramortita per qualche secondo.
Seicentoventi stanze? E che cavolo devono farci, si può sapere?
Tuttavia mi limito a un 'caspita' appena borbottato, per nulla in vena di continuare la conversazione.
Mi massaggio distrattamente la fronte, continuando a occhieggiare oltre il vetro, e quando una hostess viene ad avvisarci che tra poco atterreremo sto ancora guardando fuori. Non è così male, se non ti concentri sul fatto che potresti precipitare nel vuoto da un momento all'altro. Sì, insomma, ci si abitua. E poi siamo talmente in alto che ci vuole poco a fingere che sia tutto finto.
"Deve essere un miracolo" commenta la voce arrochita di mamma, che a metà frase sfocia in un grosso sbadiglio. Si sta stiracchiando, ancora seduta sul suo sedile e con la mascherina di seta sollevata sulla fronte, e guarda Karina con un mezzo sorrisetto. "Daphne soffre da morire di vertigini."
"Non così tanto" borbotto, agganciandomi la cintura. Solo perché una volta sono rimasta bloccata per quaranta minuti in cima a un quadro svedese, in lacrime e paralizzata dall'orrore alla prospettiva di spiaccicarmi al suolo, non vuol dire mica che abbia paura delle altezze.
"Oh, dovrebbe vederla" sghignazza mamma, accavallando le lunghe gambe lasciate scoperte dalla minigonna di jeans. "Le poche volte che si degna di stendere i panni lo fa a occhi chiusi, così non è costretta a guardare giù dalla finestra."
Karina, dal canto suo, prova a trattenersi: stringe le labbra sottili, soffocando un risolino in una specie di colpo di tosse, ma alla fine cede e si lascia sfuggire uno sghignazzo. "Vi chiedo scusa, principessa" si riprende un secondo dopo, ancora scossa dall'ilarità. "Perdonatemi, non so davvero cosa mi... mi sia preso!"
Mamma invece si sta sbellicando dal ridere: ha gettato la testa all'indietro e si tiene la pancia, ormai accasciata senza ritegno contro uno dei braccioli del sedile.
Oh, certo, proprio divertente.
Mi rimetto le cuffie dell'MP3, indispettita, e alzo il volume finché Oh Love dei Green Day non mette a tacere tutto il resto. Non solo sono bloccata in un pericolante ammasso di lamiera che potrebbe tracollare da un momento all'altro, diretta verso la situazione più terrificante che abbia mai affrontato in vita mia: devo pure sorbirmi le prese in giro di mia madre.
Me ne resto rattrappita sul mio sedile con gli occhi ben chiusi finché non sento più il rombo dei motori sotto il sedere, e a quel punto mi azzardo a sollevare una palpebra, sfilandomi addirittura una cuffietta. "Siamo in salvo?"
Karina si alza dal sedile con un gran sorriso, lisciandosi poi la gonna scura sulle cosce. "Ve lo confermo" risponde, aggirando il tavolino per venirmi incontro. "Benvenuta in Barèvia, principessa Daphne."
Spazio Yumi
Lo soooo, sono sparita, mi dispiace! Ma negli ultimi giorni ho avuto tantissimo da sbrigare e sono riuscita a mettermi su Wattpad soltanto oggi! Il capitolo è un po' di passaggio, ma dal prossimo le cose inzieranno a farsi serie, per la nostra povera Daphne *risata malvagia*
Spero che la storia vi stia piacendo, io mi sto divertendo un sacco a scriverla!
Vi mando un abbraccio, a presto!
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