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Capitolo 4 - Daphne, Principessa di Sfigatonia

Ho commesso un errore. Un errore madornale, a voler essere precisi. A onor del vero c'è da dire che, per i primi giorni, il mio piano ha funzionato a meraviglia: con i telefoni fuori gioco, il citofono staccato e io rinchiusa tra le mura domestiche con la scusa di un fittizio virus intestinale, quella donna malvagia non è più riuscita a mettersi in contatto con me. Il cellulare di mamma - che si è rifiutata categoricamente di convertirsi alla modalità aereo - ha ricevuto un paio di chiamate da quel numero strano, ma dopo qualche tentativo andato a vuoto hanno semplicemente rinunciato.

"Visto?" le ho detto al quarto giorno di silenzio, mentre ce ne stavamo stravaccate sul divano a guardare Cat Woman per l'ennesima volta. "Avevo ragione io. Quando capiscono che sei irraggiungibile, smettono semplicemente di cercarti."

Questo, oppure vengono a cercarti di persona.

Stamattina, credendo che il pericolo fosse ormai scampato, ho deciso di tornare a scuola. Era l'ultimo giorno, c'era assemblea d'istituto dalle nove in poi e alla prima ora avevamo ginnastica. Nulla poteva andare storto, no?

Ma poi, mentre arrancavo lungo il perimetro della palestra per i consueti cinque giri di riscaldamento, Lucrezia si è affacciata oltre le porte per comunicarmi che avevo visite.

"Gliel'ho detto che era contro il regolamento d'istituto, ma quella mi ha risposto che era una questione di importanza nazionale..." ha spiegato, cercando di giustificarsi con la prof di ginnastica.

A quel punto ho capito cosa stava succedendo, ma era tardi per pensare a un piano: me ne stavo lì, nel mezzo della palestra, sudata come un lottatore di sumo, a sentire la prof che mi accordava il permesso di andare.

E così adesso sto seguendo Lucrezia verso l'atrio, chiedendomi se non sia più saggio lasciarmi cadere a terra e fingermi morta. Sono disposta a tutto, pur di evitare il tragico compiersi del mio destino.

"Resta nei paraggi" le bisbiglio, mentre copriamo gli ultimi metri del corridoio. "Quella donna potrebbe avere cattive intenzioni."

Lucrezia mi rivolge uno sguardo allarmato, da dietro le lenti spesse degli occhiali, ma prima che possa dire qualunque cosa una voce femminile si intromette nel nostro discorso.

"Oh, eccola, è lei!"

Scavalco Lucrezia con lo sguardo, incrociando quello della donna in tailleur antracite e tacchi alti che avanza attraverso l'atrio. Tiene i capelli legati in un rigido chignon e le sue labbra scarlatte mi sorridono, quasi come se vedermi la rendesse incredibilmente felice.

Be', mi spiace per lei, ma il sentimento non è reciproco. Affatto.

"Principessa Daphne, non sapete quanto vi abbiamo cercato!" esclama, coprendo gli ultimi metri che la separano da me. E poi, sotto il mio sguardo allibito, si piega in quello che ha tutta l'aria di essere un inchino. "Mi chiamo Karina Bachmann, è un piacere fare la vostra conoscenza!" Torna a drizzarsi lentamente, gli occhi azzurrissimi carichi di aspettative e il sorriso ancor più ampio di poco fa. "Sono desolata per questa visita improvvisa, ma Lady Emma non poteva più aspettare."

Me ne resto lì impalata per quelli che sembrano secoli, limitandomi a battere le palpebre e a sperare che tutto questo sia frutto di un orrendo incubo. Non può essere vero. Questa donna non può aver macinato tutti questi chilometri solo per vedere me.

Il sorriso di Karina svanisce col passare dei secondi, sostituito da una malcelata smorfia di preoccupazione. "Principessa, state bene? Non avete una gran cera."

A questo punto uno dei due uomini alle sue spalle si schiarisce la gola. Dice qualcosa in una lingua che non conosco, probabilmente ceco, e io ne approfitto per rivolgere loro uno sguardo più attento. Così, senza che possa fare nulla per impedirlo, scoppio a ridere. Ma andiamo, come biasimarmi? Quei due sembrano brutte copie del soldatino di piombo: indossano giacche in velluto rosso e chiuse da enormi bottoni dorati, in testa hanno cappelli alti almeno trenta centimetri e, nonostante il caldo asfissiante di oggi, indossano pesanti guanti bianchi. Oh, per non parlare delle rigide spalline corredate di frange che riprendono il colore dei bottoni. Un vero tocco di classe, questo, c'è da ammetterlo.

"Oh, Niklaus, so quel che ha detto Lady Emma" replica Karina, rivolgendo un'occhiata al soldatino sulla destra. "Ma la signorina è pur sempre l'erede al trono di Barèvia. Sono in dovere di rivolgermi a lei con il rispetto che merita." La donna torna a voltarsi verso di me con un sorriso smagliante, sistemandosi un ciuffo chiaro sfuggito al suo chignon. "Allora, state bene? Avete bisogno di qualcosa?"

"Solo di sapere che accidenti siete venuti a fare" rispondo, sforzandomi di tirare fuori la voce. "Non mi... non mi interessa niente di quello che dovete dirmi."

L'espressione di Karina si tinge di compassione, mista forse a un velo di condiscendenza. "Che le interessi o meno, principessa, dovrà stare a sentire ciò che ho da dirle, perché è un fattore di importanza nazionale."

Apro la bocca per ribadirle che non se ne fa nulla, che si è fatta tutti questi chilometri per tornarsene a casa con un pugno di mosche, ma non riesco ad articolare le parole. Non sono esattamente un asso, a relazionarmi con le persone che non conosco. Specie visto che la persona in questione è l'attuale incarnazione di tutte le mie paure.

"Daphne, la prof dice che se non ti unisci alla classe per la... oh, porca zozza."

Mi volto di scatto e incrocio lo sguardo di Alice, che osserva la scena dalle porte dell'atrio con gli occhi sgranati.

"Sentito?" ribatto prontamente, tornando a guardare Karina. "La prof vuole che torni in palestra. Mi spiace per il viaggio a vuoto, le auguro una buona vita e a mai più rivederci!"

Indietreggio di qualche passo, poi prendo Alice a braccetto e la trascino di peso via dall'atrio.

"Oh mio Dio, lo sapevo!" squittisce lei, allungando il collo all'indietro per osservare ancora quello strano trio. "Sono venuti per portarti a palazzo, così potrai prendere il posto di regina che ti spetta e..."

"Shhh!" la zittisco, piazzandomi di fronte a lei. "Smettila con queste assurdità!"

Ali mi rivolge un'occhiata obliqua, arricciando il naso schiacciato. "E allora perché sono qui?"

"Sono qui... per qualcosa che non so e non voglio sapere." Ricambio l'occhiataccia. "Scorda quello che hai visto, okay? Se la prof ci chiede qualcosa... se ci chiede qualcosa le diciamo che era mamma che mi ha portato le chiavi di casa."

"Io proprio non ti capisco" borbotta Alice, mentre riprendiamo a camminare lungo il corridoio per tornare in palestra. "Scopri di avere un posto assicurato su un trono e tutto ciò che fai è tentare di liberartene?"

"Esattamente" sibilo di rimando, facendole poi cenno di tacere.

Appena rientriamo in palestra la prof ci piazza in una delle due squadre per la partita di pallavolo, ma prima riesco a strapparle il permesso di fare una telefonata.

"Che sia una cosa veloce" mi grugnisce dietro, mentre io schizzo come una trottola verso gli spogliatoi. Prendo il cellulare dalla tasca esterna del mio zaino e, aggrappandomi al poco campo che c'è qui dentro, chiamo mamma. So che sta lavorando, ma la questione è di vitale importanza.

Uno squillo, due, tre, quattro... Mi ritrovo a battere nervosamente un piede a terra, aspettando che si degni di rispondere, ma dopo qualche secondo scatta la segreteria e io devo sopprimere un grugnito.

Grazie tante, mamma.

Le mando un messaggio in cui la prego di venirmi a prendere, poi rimetto tutto a posto e torno in palestra.

"Oh, guardate, la principessa Daphne ha deciso di unirsi a noi" ridacchia Nicole, facendo rimbalzare la palla sul pavimento. È già pronta a battere, stretta nei suoi calzoncini elasticizzati e con la lunga coda bionda che ondeggia pigramente alle sue spalle. "Come hai detto che si chiama il tuo regno? Sfigatonia?"

Le risatine che rimbombano per la palestra vengono zittite dal fischio della prof, che sancisce così l'inizio della partita.

Io trascorro gran parte del tempo in panchina, entrando per una sola battuta che si rivela il solito fallimento, e quando la campanella suona sono la prima a dileguarmi: faccio un salto negli spogliatoi per recuperare la mia roba, poi sguscio fuori dalla porta di emergenza.

Nemmeno un minuto dopo, Alice mi raggiunge. "Scappiamo prima che comincino con i gavettoni, va'."

E prima che quei tre stramboidi mi trovino di nuovo, aggiungo mentalmente.

Quando raggiungiamo la parte anteriore del cortile, però, non c'è traccia del trio: me li aspettavo appostati ai cancelli come avvoltoi, pronti a sferrare il prossimo attacco, e invece se ne sono andati. Be', meglio così per me.

Controllo il messaggio che ho spedito a mamma quasi un'ora fa, ma la spunta solitaria dà conferma ai miei sospetti: non l'ha nemmeno ricevuto.

"Mi sa che ci tocca l'autobus" commento mogia, parandomi gli occhi dal sole già caldo di oggi. "Sbrighiamoci, dovrebbe passare tra un paio di minuti."

Per fortuna è così: il 906 arriva pochi minuti dopo e, complice la guerra di gavettoni che sta tenendo occupati i nostri compagni, siamo le uniche a prenderlo.

"Ma quindi dove sono andati quei tipi?" indaga Alice, aggrappandosi senza problemi alla sbarra più alta dell'autobus.

"Spero il più lontano possibile."

Mi sventolo con la mano libera, osservando Via Patetta che scorre veloce fuori dal finestrino. Non dovrò più passarci per tre mesi, debiti permettendo, e in questo "mai una gioia" perpetuo che è la mia vita la considero già una piccola vittoria.

"Quando parti, alla fine?" riprendo, riportando gli occhi su Alice.

"All'inizio della prossima settimana" sbuffa, allungandosi per chiamare la nostra fermata. "Tu vai da qualche parte?"

Mi lascio andare a una risata senza allegria. "Sarò perennemente in viaggio tra le località di Letto, Divano e Frigo. Come ti suona?"

"Magari invece andrai a fare la principessa nel tuo bellissimo regno e farai schiattare d'invidia tutte le Stronze Galattiche."

"Vai convinta, Ali."

L'autobus si ferma con un borbottio e noi scendiamo, riparandoci per qualche secondo sotto l'ombra della pensilina. Da qui le nostre strade si dividono, e il pensiero che non ci rivedremo fino a settembre mi fa un po' stringere il cuore. Alice, in fin dei conti, è la mia unica amica: in questi mesi mi sono abituata alla sua presenza costante, ad avere una spalla su cui fare sempre affidamento, e adesso non sono pronta a lasciarla andare.

"Su da nonno non prendono i telefoni, ma magari quando scendo in paese riesco a trovare un free WiFi per scriverti" mi dice, strappandomi ai miei pensieri.

D'istinto la abbraccio, pur non essendo una persona incline al contatto fisico. "O magari troviamo un piccione viaggiatore per scambiarci la corrispondenza."

"O chiacchiereremo tramite segnali di fumo." Ali si allontana di un passo e mi rivolge un sorriso mesto. "Non ci vorrei proprio andare, quest'anno."

Nemmeno io vorrei che se ne andasse, ma appena due minuti dopo sono costretta a salutarla, perché il suo cotral è arrivato al capolinea e lei non può proprio perderlo: ne passa solo uno all'ora, del resto.

Mi ritrovo così a ciondolare lungo Circonvallazione Cornelia, lo zaino vuoto sulle spalle e i pensieri che restano ostinatamente ancorati a ciò che è successo stamattina. Sembra tutto così... surreale. Come frutto di un sogno - o di un incubo, date le circostanze.

Imboccando a passo lento la strada di casa mia, mi dico che un giorno questa storia diventerà un aneddoto divertente da raccontare ai miei figli, un episodio colorato tra le gradazioni di grigio che dipingono la mia vita. Mi ci vedo già, in effetti: seduta a una grande tavola imbandita, insieme a tre o quattro marmocchi e un marito uscito direttamente da un libro, a raccontare di quella volta che ho scoperto di essere una principessa. Ne rideremo tutti insieme, mi dico, aprendo il portone del mio palazzo con un sorriso ebete sulla faccia. E questi momenti saranno solo un brutto ricordo.

Salgo le scale del condominio ancora sovrappensiero, persa nella visione di un futuro che con le mie tendenze sociopatiche probabilmente non avrò mai, e mi fermo davanti alla porta del mio appartamento per armeggiare con il mazzo di chiavi.

Prima che possa trovare quella giusta, però, la porta si apre lentamente davanti a me. Mia madre mi rivolge uno sguardo che catalogherei come colpevole, e non tardo a capirne il motivo: alle sue spalle ci sono Karina e i soldatini di piombo, lei seduta sul nostro modesto divano e loro in piedi ai lati, come in uno di quei sogni assurdi che fai dopo aver mangiato troppo pesante.

"Bentrovata, principessa Daphne."

Ecco, adesso sono proprio fregata.


Spazio Yumi

Salve a tutti, amici di Wattpad! Come state? Come va la vostra estate? Io ho tanto sonno e tanto caldo, una combo micidiale che mi fa ciondolare come un'anima in pena da stamattina. Bon, avete appena letto il quarto capitolo di questa storia disagiata! Che cosa ve ne pare? Come vi sembra Daphne, la nostra protagonista? Mi rendo conto di averla creata a mia immagine e somiglianza, con l'unica differenza che, se mai scoprissi di essere una principessa, io volerei dritta dritta sul mio trono e mi godrei senza remore la bella vita. Daphne, scusa se te lo dico, ma sei davvero un po' cretina. 

Lasciatemi un commento, se vi va, sto scrivendo questa storia di getto e fa sempre piacere ricevere pareri esterni!

Vi mando un bacio volante e ci ribecchiamo al prossimo aggiornamento, che se tutto va bene dovrebbe essere mercoledì. 

- Yumi :3

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